Nizza, 2 Aprile 1765
Caro Signore, - Non ho nulla da comunicare riguardo la libreria del Vaticano, che, con rispetto agli appartamenti e ai loro
ornamenti, è indubbiamente magnifica. Il numero di libri che contiene non supera i quattromila volumi, che sono tutti nascosti alla vista, e chiusi a chiave in stampe: per quanto concerne i manoscritti, non ne vidi alcuno eccetto quelli che vengono comunemente presentati agli stranieri della nostra nazione; qualche vecchia copia delle opere di Virgilio e Terenzio; due o tre Messali, curiosamente illuminati; il libro De Septem Sacramentis, scritto in Latino da Enrico VIII contro Lutero; e alcune lettere d’amore, sempre dello stesso re, indirizzate ad Anna Bolena. Visitai la Libreria Casanatese di proprietà del convento della chiesa Santa Maria sopra Minerva. Mi raccomandarono il bibliotecario principale, un frate domenicano, che mi accolse in modo squisito.
Avevo soddisfatto tutte le mie curiosità su Roma, così mi preparai per la partenza. Visto che la strada fra Radiocofani e Montefiascone è molto scomoda e sassosa, chiesi al banchiere Barazzi se non ci fosse un tragitto migliore per tornare a Firenze, e nel contempo espressi il desiderio di vedere la cascata di Terni. Lui mi assicurò che la strada che passa attraverso Terni era più corta di quaranta miglia rispetto all’ altra, molto più sicura, agevole e resa piacevole da molte ottime locande. Se mi fossi preoccupato di dare un’occhiata alla mappa avrei visto che la questa strada, invece di essere quaranta miglia più corta, era molto più lunga dell’altra: ma questo non fu il solo errore del Signor Barazzi.
Gran parte di tale percorso si snoda tra ripide montagne, lungo il ciglio di precipizi, che rendono il viaggio in carrozza altamente noioso, pericoloso e sconsigliabile; per quanto riguarda le locande, sono senza ombra di dubbio le peggiori in cui fossi mai entrato. Oso dire che un prigioniero comune in Marshalea o in King’s Bench sarebbe alloggiato in modo più comodo e pulito rispetto a molte delle bettole che incontrammo per la strada.
Le case erano abominevolmente disgustose e spesso prive di cibo; e quando si trovava da mangiare, era sempre quasi avvelenato: i loro letti erano privi di lenzuola o lettiere, e le finestre prive di vetri; per questa specie di alloggiamento pagammo tanto quanto avremmo pagato per un appartamento di qualità eccelsa e sontuosamente arredato. Mi ripeto ancora; di tutti i popoli che ho conosciuto, quello Italiano il popolo più volgarmente rapace. Il primo giorno, dopo aver passato Civita Castellana, cittadina che si trova sulla cima di un colle, ci fermammo in una locanda che doveva essere eccellente, e dove alloggiavano anche prelati, cardinali e principi. Essendo giorno di magra, c’eran solo uova,
pane e acciughe. Andai a dormire a digiuno in un pagliericcio dove fui quasi divorato da i vermi. Il giorno successivo il nostro tragitto si snodò tra erte e precipizi che sovrastavano la Nera, famosa nell’antichità per le sue acque sulfuree.
Sulfurea nar albus qua, fontesque velini.
Sulfurea Nera, e i ruscelli Veliniani.
E’un fiume piccolo, ma che scorre rapidamente e che si immette nel Tevere. Passato Utricoli, vicino alle rovine dell’antica Ocriculum, e alla romantica città di Narni, situata sulla cima d’una montagna, nel cui territorio si può ancora ammirare un arco dello stupendo ponte eretto da Augusto Cesare, arrivammo a Terni, dove noleggiammo dei calesse prima di cena e ci recammo a vedere la famosa Cascata delle Marmore, che si trova ad una distanza di tre miglia dalla città.
Salimmo una montagna scoscesa percorrendo una strada stretta che per un lungo tratto si snodava sull’orlo di un precipizio, al fondo del quale rumoreggia il furioso fiume Nera, dopo aver ricevuto il Velino. Quest’ultimo è il corso d’acqua che, partendo dal Lago delle Marmore, forma la cascata cadendo da un’altezza di circa centosessanta piedi. E’davvero notevole la portata d’acqua che si riversa dalla montagna; il fumo, il vapore, e la spessa nebbia bianca che innalza; il doppio arcobaleno che le particelle di questo formano continuamente quando il sole risplende; l’assordante suono della cateratta; la vicinanza di un gran numero di altre stupende rocce e baratri, con l’impetuosità, l’agitazione, e lo schiumare dei due fiumi sottostanti, producono un effetto di tremenda sublimità; tuttavia molto di quest’effetto non viene goduto appieno a causa della mancanza di un adeguato punto di visuale. La cascata apparirebbe molto più stupefacente se non fosse in qualche misura eclissata dalla superiore altezza delle montagne vicine. Non avete una prospettiva frontale; siete obbligati a vedere tutto obliquamente da un lato, rimanendo sull’orlo del dirupo, a cui non ci si può avvicinare senza paura. Questa attrazione potrebbe essere resa più accessibile e sicura con la spesa di soli quattro o cinque zecchini; e si potrebbe far pagare una piccola tassa ai turisti e riscossa dagli albergatori di Terni, che affittano i loro calesse per mezzo zecchino a coloro che sono curiosi di ammirare questo fenomeno.
Oltre ai due postiglioni che pagai per questa escursione, c’era anche un ragazzo che si era messo dietro ad una delle vetture al fine di indicarci le differenti visuali della cascata; e il suo prezzo ammontava a quattro o cinque paoli. Per darti un’idea dell’estorsione di questi villici pubblicani, devo dirti che per una cena o un pranzo, che perfino la fame non ci ha tentato di mangiare, e l’alloggiamento per una notte in tre lettucci, pagai otto paoli, cioè quaranta scellini. Mi chiedi perché sottostai ad un ricatto? Te lo dirò – più di una volta durante i miei viaggi inoltrai una lagnanza formale per l’esorbitanza di un pubblicano, al magistrato di un luogo; ma non venni mai soddisfatto, e in più persi molto tempo. Se avessi potuto procedere ad una correzione manuale, avrei allarmato e impaurito le donne: se avessi perentoriamente rifiutato di pagar la somma totale, il padrone di casa, che era anche il custode della stazione di posta, non mi avrebbe dato i cavalli necessari per proseguire. A Muy, in Francia, feci l’esperimento di arrabbiarmi in modo violento: ebbene, venni trattenuto agli arresti sino a sera e costretto ad ubbidire alle imposizioni, per la somma gioia e il negligente trionfo di quella plebaglia che aveva nel frattempo circondato la carrozza, interessatissima a sostenere il loro concittadino. Se qualche giovane patriota, in buona salute e con la predisposizione giusta dello spirito, si volesse prendere la briga, ogni qual volta venisse ricattato, di inoltrare una lamentela formale al controllore di gestione delle stazioni, sia quelle francesi, sia quelle italiche, avrebbe senza dubbio soddisfazione, e farebbe un gran servigio alla comunità. Terni è città piacevole, abbastanza ben costruita e situata in una valle deliziosa, tra due bracci del fiume Nera, da cui prese, nei tempi antichi, il nome di Interamna. Qui si trova una gradevole piazza dove sorge una
chiesa che un tempo era un tempio pagano. Vi sono alcuni dipinti di ottima fattura. Si dice che qui le persone siano civili, e gli approvvigionamenti molto economici. Era il luogo di nascita dell’imperatore Tacito e dell’omonimo storico. Nel nostro tragitto da qui a Spoleto, passammo su un’alta montagna (chiamata, per la sua altezza, Somma) dove fu necessario
aggiungere altri due cavalli alla carrozza, e dove passammo da una strada che costeggiava un dirupo pericoloso e terrificante.
Passammo attraverso la periferia di Spoleto, capitale dell’ Umbria, una città piuttosto grande. Non posso rendicontare nulla di questo luogo, eccetto il famoso acquedotto Gotico, menzionato da Addison come una struttura che, per l’altezza dei suoi archi, non è eguagliato da nulla in Europa. La strada da qui a Foligno, dove ci saremmo fermati, viene mantenuta in ordine e attraversa una piana deliziosa piena di vigneti, ulivi, campi di grano e pascoli punteggiati da bestiame, irrigata dai bucolici ruscelli del celeberrimo fiume Clitmnus, che si separa in tre o quattro rivoletti da una roccia vicina alla strada principale.
Sulla nostra destra vedemmo numerose città che spuntavano dai terreni in salita, e tra queste, quella di Assisi, patria di San Francesco, il cui corpo, qui deposto, fa accorrere migliaia di pellegrini. Qui incontrammo una principessa Romana con tutto il suo grandioso corteo, in viaggio a causa di un voto che aveva sciolto per ristabilire la sua salute. Foligno, la Fulginum degli antichi, è una cittadina, non sgradevole, che giace nel mezzo di una moltitudine di piantagioni di gelsi, vigne e campi di grano, ed edificata su entrambe le sponde del piccolo fiume Topino. Mentre sceglievo i nostri letti nella locanda, mi accorsi che una camera era chiusa, e ordinai che venisse aperta; il cameriere si mostrò un poco riluttante ad adempiere alla richiesta, “besogna dire a su eccellenza; poco fa, che una bestia e morta in questa camera, e non e ancora lustrata”, “Vostra Eccellenza deve sapere che in questa Camera è morta una bestia, e non è stata ancora pulita e rimessa in ordine”.
Quando chiesi che genere di bestia fosse mi rispose “un eretico inglese”, “un eretico inglese”. Suppongo che non avrebbe detto questo se non ci avesse presi per dei Germani cattolici, come successivamente venimmo a sapere da Mr. R-i.
Il giorno dopo attraversammo il Tevere, sopra un bellissimo ponte, e mentre salivamo il ripido colle su cui è collocata la città di Perugia, essendo i nostri cavalli esausti, fummo trascinati indietro a causa del peso dei nostri bagagli sino al ciglio di un precipizio, dove, fortunatamente per noi, un uomo che passava da lì piazzò una grande pietra sotto ad una delle ruote, impedendole di continuare a scivolare, altrimenti ci saremmo sfracellati cadendo dal dirupo. Dovemmo affrontare un'altra montagna scoscesa: tuttavia i postiglioni e le altre bestie fecero uno sforzo titanico, così riuscimmo ad arrivare sulla sommità senza fermarci neppure un momento: ci ritrovammo in una grande piazza dove potemmo cambiare i cavalli. Purtroppo non c’erano ricambi a disposizione, così ci dovemmo fermare a Perugia, che comunque è una città di bellezza notevole, costruita sull’erta di un colle, dotata di eleganti fontane e molte belle chiese con ottimi dipinti di Guido, Raffaello e del suo maestro Pietro Perugino, ch’era nativo di questo luogo.
La prossima stazione era sulle sponde del lago, il Thrasimeno degli antichi, uno stupendo specchio d’acqua di circa tredici miglia di circonferenza, con tre isole, ricchissimo di eccellente pesce: su una penisola sorgono un castello e una torre. Nei suoi confini il console Flaminio venne disastrosamente sconfitto da Annibale. Da Perugia a Firenze, le stazioni di posta sono tutte doppie, ma la strada è così malmessa che non riuscimmo a viaggiare per più di otto miglia e dodici al giorno. Fummo spesso costretti a uscire dalla carrozza e a proseguire a piedi tra le montagne; il cammino era così pieno di pietre che rischiammo di venir sobbalzati fuori dalla vettura. Non ho mai percepito alcun esercizio o fatica così intollerabile; e non mancai di mandare un centinaio di benedizioni per diem al banchiere Barazzi, che ci consigliò di prendere quella strada: tuttavia l’unico rimedio era la pazienza.
Se la carrozza non fosse stata incredibilmente robusta ci saremmo sbriciolati in mille pezzi. A Camoccia passammo la quinta notte in un miserevole cabaret, dove ci rassegnammo a
cucinarci il cibo e a dormire in una stanza piena di muffa che non conobbe mai un fuoco di un camino e dove corremmo il serio rischio d’esser divorati dai ratti.
Il giorno successivo uno dei ferri del calesse cedette ad Arezzo, e fummo obbligati a fermarci per due ore prima che venisse sistemato. Avrei potuto cogliere l’occasione per osservare le vestigia di un anfiteatro Etrusco e del tempio di Ercole, descritto dal cavalier Lorenzo Guazzesi, che rimanevano nelle vicinanze: ma il fabbro mi assicurò che avrebbe terminato il lavoro in pochi minuti; e visto che non avevo nulla di più caro al cuore che velocizzare quel viaggio oltremodo antipatico, soffocai la mia curiosità. Ma tutte le notti precedenti ci sembrarono più comode se paragonate con questa, passata in un villaggio dal nome che non ricordo.
La casa era tetra e sporca oltre ogni descrizione; i vestiti per il letto abbastanza sporchi da far girare lo stomaco ad un mulattiere; e il cibo cotto in una maniera tale che perfino un Ottentotto non avrebbe potuto guardarlo senza provare ribrezzo. Siccome avevamo con noi delle lenzuola, le posammo su un materasso e qui mi riposai avviluppato in un cappotto pesante, sempre se possiamo chiamare riposo ciò che veniva continuamente interrotto da innumerevoli punture di insetti. Al mattino, fui preso da pericolosi attacchi di tosse canina, che impaurì molto mia moglie, allarmò i miei compagni, e portò l’intera comunità nella casa. Ci ero già passato un anno fa, a Parigi. Quella mattina stessa una delle ruote della nostra carrozza si staccò all’altezza di Ancisa, una piccola città, dove ci fermammo ancora; tale ritardo produsse risentimento, pericolo, vessazione e fatica.
Non essendoci cavalli di scorta nella stazione, fummo costretti ad aspettare sino a che quelli che ci avevamo portati fin qui non si furono nuovamente freschi e pronti a ripartire. Venimmo a sapere che tutte le porte di Firenze chiudevano alle sei, eccetto due che venivano lasciate aperte per i viaggiatori; e che per raggiungere la più vicina di queste era necessario passare l’Arno con un traghetto, che però non poteva trasportare i nostri bagagli; decisi così di mandare avanti il mio servo su una carrozza leggera per entrare nella porta prima che venisse chiusa, e che ci avrebbe mandato a prendere con un’altra vettura sul fiume: non potevo sopportare il pensiero di passare un’altra notte in un infimo cabaret. Qui però ecco piombare un altro imprevisto. C’era solo una carrozza, e un ufficiale dei dragoni, nelle truppe imperiali, che disse di averla prenotata per lui e per il suo servitore.
Ne nacque una lunga disputa, che avrebbe facilmente potuto sfociare in un litigio: ma alla fine misi d’accordo tutti dicendo all’ufficiale che avrebbe potuto utilizzarla gratis, e il suo servo avrebbe potuto cavalcare su un cavallo. Accettò l’offerta senza esitazione; ma, nello stesso tempo, partimmo prima di loro, e dopo aver avanzato per un paio di miglia, la strada era diventata così zuppa di pioggia, e le bestie erano così affaticate, che non potemmo avanzare. I postiglioni si misero a flagellare quei poveri animali con estrema crudeltà, così questi fecero uno sforzo estremo e spinsero la carrozza sull’orlo di un precipizio che era più basso della strada di sette o otto piedi.
Qui io e mia moglie scendemmo e ci ritrovammo nel fango sino alle anche, sotto la pioggia; intanto i postiglioni continuavano a staffilare, finchè uno dei cavalli scivolò e rimase impigliato per il collo così da rimanere quasi strangolato finchè non intervennero alcuni passanti che per caso transitavano da quella strada.
Mentre eravamo impantanati in quel dilemma, sopraggiunse la carrozza che portava l’ufficiale ed il mio servo, così facemmo cambio: io e mia moglie salimmo sul nuovo calesse, lasciando gli altri due con Miss C- e Mr. R-. La strada da quel punto sino a Firenze non è null’altro che una sequela di montagne scoscese, pavimentata in maniera tale che ci si immagina sia stata progettata per renderla volutamente impraticabile ad ogni sorta di vettura con le ruote. Nonostante tutti i nostri sforzi, mi resi conto che sarebbe stato impossibile entrare a Firenze prima della chiusura delle porte. In un primo tempo provai a parlare dolcemente al conduttore, poi lo minacciai: l’uomo, che era stato fino a quel momento molto cortese, divenne sgarbato. Mi disse che non avremmo raggiunto Firenze; che la barca non avrebbe caricato il bagaglio; e che dall’altra parte avrei dovuto camminare cinque miglia prima di giungere alla porta aperta: tuttavia mi avrebbe portato in un’eccellente osteria, dove sarei stato trattato ed alloggiato come un principe.
Mi convinsi che avesse ritardato apposta l’andatura nell’interesse del locandiere così credetti che la distanza tra il traghetto e la porta fosse stata aumentata appositamente. Erano le otto quando arrivammo alla locanda. Scesi a controllare le camere con mia moglie e ordinai al postiglione di non sistemare ancora i cavalli. Era un albergo infame, così ce ne andammo: nel frattempo, però, i cavalli erano già stati alloggiati. Chiesi a quel vile come osasse contraddire i miei comandi e gli intimai di riattaccarli alla vettura. Mi chiese se fossi matto. Se io e la mia signora avessimo abbastanza forza e coraggio per camminare per cinque miglia nell’oscurità, attraverso una strada che non conoscevamo, resa quasi impraticabile dalla pioggia. Replicai che era un farabutto impertinente, ma siccome insisteva lo presi per il collo e lo presi a vergate in testa. La sferza era la sola arma che avevo con me, sia offensiva che difensiva, dal momento che avevo lasciato la spada e il moschettone sulla carrozza.
Alla fine la canaglia obbedì, sebbene con grande riluttanza e gettandoci addosso molte terribili maledizioni, venendo in quest’ultima azione appoggiato dal locandiere, che aveva tutte le stimmate di un ruffiano. La casa si trovava in un luogo isolato e non c’era un’anima, a parte i due scellerati: avrebbero potuto ucciderci senza difficoltà. “Non vi piacciono gli appartamenti? Siete sicuri che non siano adatti per persone della vostra qualità e del vostro rango”! “Vi accontentereste d’una camera peggiore se foste stanchi davvero”. “Se camminate fino a Firenze stanotte, dormirete così profondamente che le pulci non vi disturberanno”. “State attenti a non prendere alloggio in mezzo alla strada, o in un fossato intorno alle mura”.
Dentro di me bollivo di rabbia a causa di queste battute sarcastiche, ma non risposi; e mia
moglie era quasi morta di paura. Nel tragitto sino alla barca incontrammo un uomo dall’aria malata che si offrì di condurci in città: la nostra situazione era tale che di buon grado accettai la sua proposta, sia perché sull’altra vettura avevamo lasciato due valigie contenenti alcuni cappelli e merletti appartenenti a mia moglie, sia perché speravo ancora che il postiglione avesse esagerato la distanza tra la chiatta e la porta della città: e infatti il traghettatore ci confermò quello che pensavo, cioè che non avevamo da percorrere neppure mezza lega.
Immaginati noi due in questa spedizione; io avviluppato nel mio cappotto pesante, con la frusta in mano. Non avrei mai creduto di camminare per due miglia così ridotto: e poi mia moglie, una creatura così delicata, che penso non avesse percorso neppure un miglio a piedi in tutta la sua vita; e poi lo straccione davanti a noi, con le valigie in mano.
La notte era scura e umida; la strada scivolosa e fangosa; non si vedeva un’anima, non si udiva un suono: tutto era muto, terrificante e orribile. Mi sentivo già colto dal malanno che sicuramente sarebbe stato inevitabile: e sarei stato già contento comunque, perché sarei scampato alla morte per assassinio, visto che non avevo armi con me. Mentre avanzavo a fatica sotto il peso del mio cappotto, che mi faceva sudare, e sudando mi colavano continuamente gocce di sudore sul viso e sulle spalle, nuotavo nel fango, che mi arrivava a metà gamba; allo stesso tempo dovevo sostenere mia moglie, che piangeva in silenzio.
Per coronare il nostro tormento, la guida camminava così velocemente che spesso non riuscivo più a vederlo, e immaginavo cercasse di fuggire con le valigie. Mi misi quindi a urlare e a bestemmiare orribilmente minacciando che gli avrei fatto saltare le cervella. Non so se queste imprecazioni e minacce abbiano contribuito a tener lontani altri malintenzionati. In questa guisa viaggiammo per tre miglia, circumnavigando le mura della città senza vedere un viso umano, e alla fine raggiungemmo la porta, dove venimmo
esaminati da una guardia e ci fu concesso di passare: disse che dovevamo percorrere un altro miglio fino alla casa di Vanini, la nostra sistemazione.
Non m’importava: ormai ero arrivato in città, e completai il resto del viaggio con tale disinvoltura che mi figurai che avrei potuto camminare ancora tutta la notte senza stancarmi. Erano quasi le dieci quando entrai nell’albergo in tale miserevole e inzaccherata condizione, tanto che Mrs. Vanini quasi svenne alla nostra vista, supponendo che avessimo
incontrato quale terribile disastro, e che il resto della compagnia fosse stato ucciso. Io e mia moglie venimmo immediatamente riforniti di calze e scarpe asciutte, sistemati in un comodo e caldo alloggio, ci venne portata una cena calda, che divorai con evidente soddisfazione, consapevole non solo di essere sopravvissuto a una tale avventura, ma anche imbaldanzito dalla mia forza e robustezza fisica: mi aspettavo solo di prendermi un terribile raffreddore, accompagnato dall’asma: tuttavia, fortunatamente, fui smentito.
Per la prima volta bevvi alla salute del mio guaritore Barazzi, completamente persuaso che le privazioni e le fatiche avevano grandiosamente contribuito a fortificare il mio organismo. In questa situazione mi sembrò di aver imitato la gratitudine di Tavernier, che venne curato dalla gotta da un aga Turco in Egitto, che gli aveva propinato delle bastonate, perché non avrebbe dovuto guardare la testa del pasha del Cairo, che l’aga teneva in una
borsa, per essere presentata al gran signore di Costantinopoli.
Quella notte non mi aspettavo di vedere il resto della compagnia anche perché non dubitavo che avessero passato la notte sull’altra sponda dell’Arno: invece a mezzanotte ci raggiunsero Miss C- e Mr. R-, che avevano lasciato la carrozza alla locanda, sotto la protezione del capitano e del mio servitore, e seguito i nostri passi camminando dal traghetto sino a Firenze, accompagnati da uno dei battellieri. Mr. R- sembrava essere molto turbato e corrucciato; ma, dal momento che non ritenne adeguato spiegarne la causa, non aveva alcun diritto di attendersi soddisfazione per qualche insulto aveva ricevuto dal mio servo. Erano stati esposti a una moltitudine di spiacevoli avventure dovute all’impraticabilità della strada. La carrozza aveva rischiato parecchie volte di rovesciarsi, con conseguente pericolo di perdere tutto il nostro bagaglio; in un punto della strada fu necessario noleggiare una dozzina di buoi per togliere la vettura dalla buca fangosa dove s’era impantanata.
Nel mezzo di questi racconti, ecco arrivare il capitano e il suo valletto, Mr. R e il mio servo, che si sarebbero volentieri presi a botte. Con estrema difficoltà venne ristabilita la pace grazie all’interposizione di Miss C-, che soffriva terribilmente a causa del freddo, delle fatiche, dell’umidità e degli sforzi: e così fortunatamente non ci furono conseguenze. Il mattino dopo arrivarono la carrozza e il bagaglio, e tutti ci ritrovammo riposati e di buon umore. Temo che tu non sia altrettanto di buon umore, visto che ti ho fatto sorbire questa interminabile epistola, che chiuderò senza ulteriori cerimonie, - tuo, sempre.
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