Un quarto d’ora dopo il terribile scoppio Keisuke Hiroki, comandante della base navale di Kure, a una ventina di chilometri da Hiroshima, telefona a Tokyo, al quartier generale: “Alle 8,16 abbiamo osservato un lampo di incredibile luminosità su Hiroshima, e subito dopo una altissima colonna di fumo con in cima un largo pennacchio.
Molti hanno udito un rombo di tuono. Nessuno può dire cosa sia accaduto, ma sono certo che sia stato un cataclisma”.
Al quartier generale sono dubbiosi. Risponde Masatake Okumiya, capo dell’antiaerea: “Può essere stato un attacco aereo oppure un esplosione al suolo”?
“Chi può dirlo? Sono stati avvistati solo tre aerei” risponde Hiroki. Cioè Enola Gay e i due ricognitori.
“Molto strano… Com’è il tempo”?
“Magnifico”.
“Allora, Hiroki, mi richiami appena ha delle notizie in più”.
Paradossalmente in quel momento, in quel quartier generale, qualcuno pronuncia le parole “Può essere stata una bomba atomica”. Paradossalmente perché i Giapponesi sapevano più o meno che gli Americani vi stavano lavorando, e anche, a occhio e croce, come funzionasse la distruzione dell’atomo. Ma non credevano assolutamente che potesse venire utilizzata.
Okumiya quando sente “bomba atomica” ha un soprassalto: non ci vuole credere, o meglio ha paura di crederci.
Passano meno di tre ore. Appena prima di mezzogiorno Hiroki richiama: “E’incredibile! Hiroshima è un mare di fiamme. E’assolutamente impossibile avvicinarsi. Le punte avanzate dei nostri soccorsi sono arrivate a nove chilometri e mezzo dal centro città. C’è un caldo infernale e i morti sono mescolati ai vivi, i vivi perdono la pelle e vomitano. E’incredibile, è incredibile”.
Okumiya ha fama di uomo di ferro. Un vero samurai, che ha imparato a non aver paura di nulla e non scomporsi. Gli uomini del quartier generale, accanto a lui, lo vedono impallidire e tremare: “Hiroki, cerchi di calmarsi. Faccia tutto quello che può per quei poveretti. Appena posso, parto per Hiroshima”.
Verso le due Hiroki chiama anche il generale Seizo Arisué, capo dei Servizi Segreti. Anni prima, il famoso fisico Nishina, ex allievo di Nils Bohr a Copenaghen, gli aveva parlato di una bomba atomica. Gli aveva anche proposto di stanziare 100 milioni di yen per provare a costruirne una. Arisuè si fidava totalmente di questo scienziato e quindi ne caldeggiò l’idea al primo ministro, Hideki Tojo. La risposta: “Una bomba atomica? Occupiamoci di cose più concrete, generale”.
Arisuè capisce subito, da quella telefonata, che è scoppiata la bomba atomica, ed è disperato.
Ad Hiroshima intanto sta divampando l’incendio nucleare che sta mangiandosi tutto e tutti. Le squadre di soccorso non si riescono ad addentare nel centro città e comunque riescono a sapere che vi sono centinaia di migliaia di vittime. I superstiti che li raggiungono sono dei cadaveri semoventi, orribilmente lacerati all’interno e all’esterno del corpo, che praticamente muoiono davanti. Quella tempesta continua come niente fosse, nonostante passino le ore del pomeriggio e della sera. La piccola metropoli è illuminata a giorno di una luce irreale.
A mezzanotte Truman autorizza a divulgare la notizia del lancio della bomba atomica tramite la C.B.S. e la stampa. Sull’Herald Tribune di New York si titola: “200.000 morti probabili a Hiroshima”.
Da Washington si autorizza la stampa di 16 milioni di volantini da lanciare sul Giappone che reca impresse queste parole: “Al popolo giapponese! Possediamo l’esplosivo più potente che l’uomo abbia mai inventato e abbiamo cominciato a usarlo contro la vostra Patria. Chi avesse dei dubbi si informi di quanto è accaduto a Hiroshima, dove è stata sganciata una sola di queste nostre nuove bombe. Prima di costringerci a usarne altre, convincete il vostro imperatore a porre fine alla guerra”.
Al quartier generale di Tokyo, all’alba del 7 agosto, si fatica a credere che la situazione di Hiroshima sia disperata. Qualcuno minimizza: “Un’arma micidiale? Sarà qualche bomba nuova, un po’ più potente delle altre”. Altri ritengono che la città sia stata irrorata di benzina e trasformata in una gigantesca molotov. Non sapendo quindi ancora nulla e non avendo ancora visto la vera proporzione del disastro, i generali nipponici continuano dunque ad escludere la resa nel modo più categorico.
Nel frattempo nella base americana di Tinian arrivano le prime foto scattate dai palloni-sonda e dalla stessa Enola Gay. Tutti concordano nel ritenere che quella bomba abbia causato un danno ben superiore rispetto al previsto. Nonostante questo, ancora quella mattina uno stormo di B-29 sorvola le isole più prossime alla costiera giapponese riversando altre tonnellate di proiettili sui poveri Nipponici.
Il generale Arisué parte alle 15.30 dall’aeroporto di Tokyo e dopo due ore e mezzo su un vecchio aeroplano. E’solo, insieme al pilota, il quale, quando sorvola una conca di cenere bruciante, esclama: “Generale, quella era Hiroshima”. Il velivolo atterra su un prato vicino al mare. I fili dell’erba, incredibilmente, sono piegati tutti dalla stessa parte, come fossero stati schiacciati all’unisono da una immensa pressa, e sono diventati color ruggine. Ad accogliere l’alto ufficiale giapponese si presente un uomo dalla faccia divisa in due: il lato sinistro ha un aspetto quasi normale, mentre quello destro è marrone, quasi nero, perché ha ricevuto il marchio mortale del vento nucleare, anche se ad una distanza di cinque chilometri.
Arisuè comincia a capire davvero cosa è accaduto quando arriva presso la direzione dei trasporti marittimi dell’esercito, a Ujina, e parla con un suo vecchio amico, il generale Hideo Baba, un uomo alto più di un metro e ottanta (statura inusuale per i Giapponesi). Questi gli viene incontro piangendo come un bambino e gridando: “Quella bomba è troppo, troppo atroce! Ha fatto almeno centocinquantamila morti, io ho trovato il corpo disfatto di mia figlia su un marciapiede. I vivi sono irriconoscibili, sembrano quei mostri che vedevamo da piccoli nei templi buddisti. E’stata una cosa infernale, Arisuè”.
Eppure Hiroshima è ancora piuttosto lontana, da Ujina. Arisuè non sa ancora cosa l’aspetta. Solo alle 6 del mattino del giorno dopo, l’8 agosto, egli fa ingresso nella città morta. Il fetore di bruciato, misto alla puzza dei cadaveri in decomposizione, è quasi insopportabile. Ma ancora di più è insopportabile la visione dei corpi sfigurati sotto il sole, carcasse di uomini, animali, piante, diventati dei mostri e simboli di una sofferenza che l’umanità non ha mai avuto la sfortuna di vedere.
Due ore più tardi, alle otto, arriva anche Okumiya, il capo della antiaerea giapponese. Ecco cosa scrive appena giunge sul luogo maledetto: “Niente può dare idea di cosa sia oggi questa città, niente può raccontare le grida strazianti delle vittime, ormai impossibili da aiutare, niente può raffigurare la polvere e la cenere che turbinano su quei miseri corpi rattrappiti nell’agonia, niente può descrivere l’odore nauseabondo dei non-morti, cioè dei vivi in cancrena”.
Nel pomeriggio arriva il professor Nishina insieme al dottor Ohashi, un eminente radiologo che visita alcuni dei superstiti notando delle mutazioni cellulari ed organiche. Quasi tutti gli organo hanno avuto delle deformazioni e presentano malattie incurabili.
Ma c’è una cosa che più di tutte colpisce. La sensazione di vecchio che circonda ogni cosa, ogni essere vivente e non vivente. La città sembra fossilizzata, le rovine, le piante, i cadaveri, i vivi, sembrano dei fossili. Tutto è avvolto in una patina polverosa che sembra rendere l’atmosfera preistorica. Si vede un motore di automobile fuso insieme alle ossa del guidatore: ebbene, quel motore si direbbe ritrovato tra gli strati sedimentari del Terziario, se nel Terziario fossero esistiti i motori. Ecco i resti di un bambino: sembrano quelli di un bimbo di Neanderthal. L’atomica ha sbattuto Hiroshima e tutto ciò che dentro di essa viveva ed esisteva in una dimensione nuova, al contempo primordiale e fantascientifica.
Poi ci sono le storie singole, orribili, tragiche e spesso grottesche. Delle donne morte con i loro kimono addosso sembrano aver tatuato sulla pelle i disegni fantasiosi di quei vestiti tipicamente orientali. Un plotone di soldati dritti sull’attenti, sulle sponde dell’Ota, sono scarnificati dai piedi sino alla cintola. Un ragazzo ha in mano un guanto, che in realtà non è un guanto ma la pelle della mano destra che si è sfilata via intera. Alcuni uomini intatti in tutto, non fosse per i piedi che sono stati stritolati dalle scarpe, contrattesi fino a misurare non più di dodici centimetri.
Midori Naka, una delle più celebri e famose attrici giapponesi, ricorda: “Stavo preparando la colazione per me e per i miei colleghi della compagnia Sakura-Tai in un edificio moderno e solido, situato a non più di 700 metri da dove è scoppiata quella maledetta bomba. Una fiamma bianca ha riempito tutto l’appartamento e ci è crollato addosso il soffitto. Sono svenuta e ho ripreso conoscenza dopo quattro o cinque ore. Tredici miei compagni erano morti. Sono riuscita ad aprirmi la strada fra le macerie e a raggiungere le acque dell’Ota, che erano ancora calde. Ho nuotato per qualche chilometro e poi sono stata soccorsa da un natante. Hiroshima era scomparsa, Hiroshima era qualcosa di antidiluviano”. Verrà portata a Tokyo dove si farà di tutto per salvarla, ma i raggi gamma le hanno distrutto quasi tutti i leucociti, passati da 8000 a 350: morirà il 24 agosto, senza capelli e senza ciglia.
Lo scrittore Michihiko Hachiya testimonia: “Il cielo fu oscurato da un denso fumo nero, greve di scintille. Si levavano lingue di fuoco maligno e il calore demoniaco provocò dei venti così forti che sollevarono le lamiere di zinco fino a farle mulinare a mezz’aria. Tronchi e rami ardenti vennero proiettati in alto e ricaddero balenando, come rondini infuocate”.
Stomu Koyama, sopravvissuta: “D’un tratto ho sentito una ventata di caldo insopportabile che veniva dal centro città. Sono uscita di casa, incredula più che terrorizzata, e ho visto ciò che nessuno potrà mai credere: uomini e donne tutti neri, bruciacchiati, seminudi, senza capelli. Qualcuno aveva la faccia che si liquefaceva come cera. Non potevamo aiutare quegli sventurati perché erano privi di pelle: se solo li toccavamo urlavano come dei folli. I cavalli nitrivano e stramazzavano a terra, con gli occhi fuori dalle orbite. Hiroshima era una palude di pece bollente”.
L’era nucleare è improvvisamente scesa sul nostro pianeta e comincia a farsi largo in quella landa ormai distrutta. Alcune piante, nei giorni successivi, cominciano a crescere sfidando l’abisso di morte del deserto atomico, dando alla luce fiori e felci appartenenti a un’era primordiale, preistorica, lontana decine di milioni anni dal 1945. Quelle piante non appartengono al nostro tempo, ma a quello dei dinosauri. Improvvisamente sono loro a prendere vita e a ridare un’apparenza di normalità. L’era nucleare allaccia la preistoria con il futuro più fantasmagorico e folle. L’atomo ha aperto una breccia nel tempo dove nascono forme di vita che avrebbero dovuto rimanere fossili.
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