Ci vorrà un’altra bomba, un’altra immane tragedia, per costringere i Giapponesi ad accettare la resa. La mannaia americana cala ancora alle 11,01 del 9 agosto del 1945, stavolta sulla città di Nagasaki.
Il gigante nipponico stavolta non ce la fa più. I generali dell’Esercito, che dopo Hiroshima sono rimasti inebetiti, stavolta decidono di svegliarsi dal torpore. Radio Tokyo annuncia al mondo, tramite la voce dell’imperatore: “Ci arrendiamo”.
Quella decisione viene presa tutto sommato velocemente nel consiglio di guerra, ma non senza un’aspra battaglia interna. Molti, all’interno di quel consiglio, sono ancora per continuare il conflitto. Il ministro della Guerra, Anami, è il più acceso di questi sostenitori: “Lo spirito guerriero di Nanko ci impone di fare qualsiasi sacrificio per salvare il nostro Paese. Lo spirito di Tokimune ci ordina di raccogliere ogni stilla di energia per battere il nemico. Io chiedo perciò a tutti i soldati di dare la vita nello spirito di Nanko e Tokimune”. Però quando prende la parola l’imperatore Hirohito tutti capiscono che lui ha già preso la decisione più saggia: “E’per me intollerabile immaginare i miei valorosi soldati che subiscono il disonore della resa, e mi è ugualmente intollerabile il pensiero che saranno giudicati come guerrafondai gli uomini che mi hanno reso i più devoti servigi. Malgrado ciò, è giunta l’ora in cui è necessario che tutti noi ci prepariamo a tollerare l’intollerabile”.
E’finita. I generali scoppiano a piangere. Per la prima volta nella sua Storia millenaria il Giappone esce sconfitto da una guerra. Anami e gli altri alti ufficiali seguiranno la catena dell’harakiri, il suicidio d’onore.
Per il Giappone e per il mondo è finito tutto. Troppo tardi.
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