I preparativi vanno per le lunghe, anche perché i congiurati sono ancora in fibrillazione. Yussupov è agitato, inquieto. Decide di tornare nella stanza dell’assassinio. Rasputin è là, morto.
Si china sul cadavere, gli afferra una mano, tasta il polso gelido. Nessuna pulsazione, naturalmente. E’morto.
Fissa per un po’ quei lineamenti volgari ma non convenzionali. Non teme più quello sguardo assassino. D’un tratto viene scosso da un brivido. Gli pare di aver visto una palpebra tremare. No, impossibile, cerca di convincersi. Impossibile, prima il veleno, poi la pallottola che gli ha spaccato il cuore. Eppure gli sembra di vedere sotto quella pelle dura come la quercia un tendersi impercettibile di nervi e muscoli.
Yussupov trattiene il respiro e abbassa la testa per controllare. L’occhio sinistro di Rasputin si spalanca.
Il giovane nobile urla e ricade indietro, proprio mentre l’altro occhio si apre. Ed eccolo quello sguardo da demonio, quella luce magnetica, i due occhi “di vipera” che lo afferrano. Si sente mancare, non riesce a muoversi, proprio come accade in uno dei quegli incubi dove si rimane appiccicati al pavimento. Improvvisamente la gola gli si serra, non riesce ad emettere più un solo suono.
Con un movimento da leone Rasputin si alza in piedi, con la bava alla bocca, le mani protese in avanti per strozzare il suo assassino. Con un ruggito afferra la sua gola e stringe. L’orrore esplode dentro Yussupov, che cerca di liberarsi da quell’essere tornato dall’inferno per ucciderlo, in una lotta disperata contro l’anima rurale della Russia. Porterà, negli anni, il ricordo terribile di quei momenti.
Il giovane nobile grida e riesce a liberarsi spingendo via il grande corpo di Rasputin, che ricade a terra con un tonfo e sputando sangue misto a bava. Gli altri congiurati non credono ai loro occhi, e possiamo solo immaginare il loro terrore.
Rasputin riesce a trascinarsi addirittura fuori dalla stanza e, rantolando, a raggiungere il cancello del palazzo. I congiurati sparano due, tre, quattro volte, fino a quando vedono quel demonio stramazzare nella neve. Lo raggiungono. E’raggomitolato come un bimbo. Stavolta è davvero morto: almeno lo sperano, anche se non ci credono quasi più.
“Altezza, altezza”. Una guardia sta chiamando Yussupov perché ha sentito gli spari. “Altezza, ho udito degli spari. E’successo qualcosa”?
“Oh, niente di grave” replica Yussupov, “uno stupido scherzo, tutto qui. Stavamo facendo una festa e un amico, che forse ha bevuto un po’ troppo, si è divertito a sparare qualche colpo”.
L’agente, però non ci crede e vuole verificare. Viene fatto salire nell’appartamento. Tra i congiurati si percepisce la paura di essere scoperti. Purisckevic, che è membro della Duma, si tradisce: non ce la fa più a sopportare quella agonia in corso da almeno tre ore. Con uno sguardo da pazzo grida al poliziotto: “Hai mai sentito parlare di Rasputin? Era quel cane che cospirava per distruggere la nostra patria, lo zar, i soldati tuoi fratelli! Era una spia tedesca! Lo capisci? E lo sai chi sono io? Sono Purisckevic, membro della Duma! I colpi di pistola che hai sentito hanno ucciso quel brutto cane di Rasputin. Se ami la nostra patria e lo zar, non dire nulla”.
Silenzio. La guardia riflette per qualche secondo, poi replica: “Avete fatto bene, non dirò nulla”.
I congiurati si dirigono adesso nella stanza dove giace il cadavere di Rasputin. Non si sorprendono quando vedono che si è spostato si qualche metro. Il sangue gli imbratta il volto, la barba, i capelli. Ha tentato ancora di fuggire. L’incubo sta continuando. Yussupov perde la testa. Si avventa contro il morto e comincia a tempestarlo di colpi lanciando terribili imprecazioni e bestemmie. Gli altri faticano a tenerlo. Bisogna far presto, sbarazzarsi del corpo e poi cercare di mettersi in salvo.
Il corpo di Rasputin viene legato, avvolto in una coperta azzurra e caricato su un’automobile che percorre le gelate strade di Pietroburgo, fino a giungere sul ponte dell’isola Petrovski. I congiurati trasportano fuori il macabro fardello e lo lanciano nell’acqua, poi fuggono.
Il cadavere del santone siberiano viene ritrovato al mattino del 19 dicembre. La corrente lo premeva contro la spessa coltre di neve. L’acqua gli aveva lavato via il sangue mettendo crudelmente in evidenza la devastazione del volto, sfigurato. Il corpo era stato legato, ma inspiegabilmente un braccio è riuscito a liberarsi, e ora giace irrigidito dal gelo come in atto di benedizione. L’autopsia evidenzia la ferita al cuore e le tracce di veleno dentro allo stomaco. Ma anche la presenza di acqua nei polmoni. Non è stata dunque la corrente a liberare il braccio destro, ma è stato Rasputin stesso che, risvegliato dal gelo, ha lottato disperatamente per sfuggire alla morte. Non è stato ucciso né dalle pistolettate né dal veleno, ma è morto annegato!
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