Capitolo Ottavo - Le Repubbliche Marinare

Il periodo delle Crociate aveva portato alla cristianità una nuova consapevolezza: poter attaccare e sconfiggere i Musulmani. La riforma cluniacense condusse ad una moralizzazione della Chiesa Romana e ad una supremazia sostanziale sull’Impero.

Con queste due novità il mondo occidentale usciva ufficialmente dall’Alto Medioevo, dai secoli bui, ed entrava nel nuovo millennio, il secondo dopo la nascita di Cristo.
Anche l’Italia, seppur più lentamente di altri territori (se vogliamo possiamo chiamarli già Stati), stava avanzando verso la luce del Basso Medioevo. I primi ad “uscire a riveder le stelle”, per dirla con Dante, furono le Repubbliche Marinare, che si aprirono al commercio nel mar Mediterraneo, un’area geografica ormai perduta da secoli, da quando cioè la fiumana araba si era insediata nel nord Africa, in Sicilia e in Spagna.
A differenza delle altre città rimaste nella penisola, infatti, queste avevano dalla loro una posizione geografica particolarmente favorevole, lontana dalle direttrici preferite dai vari invasori che dal V secolo in avanti fecero dell’Italia una preda da spolpare. Vediamole nel dettaglio, a cominciare dalla più celebre: la Serenissima, Venezia.

VENEZIA

L’origine di Venezia si deve far risalire all’epoca delle invasioni barbariche. La prima, quella di Alarico, aveva colpito la zona del Veneto costringendo una piccola parte della popolazione di Padova, Altino e Aquileia ad emigrare sulle isolette che formavano la laguna: Rialto, Malamocco, Olivolo. Questi migranti formarono il primo nucleo della futura città, che però all’epoca non aveva ancora alcuna forma. Successivamente, all’incirca intorno al 452, le orde unne di Attila costrinsero all’emigrazione anche gli abitanti dei colli Euganei e di Monselice, che si attestarono a Chioggia e Pellestrina.
La massa di disperati cercava protezione in quelle oasi di pace che i barbari non potevano, né volevano raggiungere. Da contadini si trasformarono in pescatori, adattandosi a vivere in condizioni molto disagiate. Il forte sentimento di indipendenza veneziano nacque proprio in quei primi anni: la necessità di badare a sé stessi senza poter contare su alcun aiuto esterno li rese forti e coesi. Non sorse una città vera e propria, ma una specie di confederazione di piccole isole che eleggevano, ognuna, un rappresentante, o tribuno.
Nel 584 l’esarca di Ravenna, Longino, offrì ai Veneziani di entrare nell’orbita bizantina, restando comunque sempre indipendenti: non richiese, infatti, il consueto giuramento di fedeltà all’imperatore d’Oriente, ma solamente una promessa di ossequio e di aiuto reciproco. Il piccolo cordone ombelicale che legava Venezia all’Impero d’Oriente ebbe vita breve: durò fino all’arrivo dei Franchi, che scacciarono definitivamente i Bizantini dai loro possedimenti nell’Esarcato.
Dopo l’invasione di Carlomagno, i tribuni decisero che, senza la protezione e l’alleanza con Ravenna, bisognava organizzarsi più seriamente, e così all’unanimità votarono un capo: lo chiamarono “doge”, dal greco “dux”, cioè comandante. Il primo fu Orso Ipato, che però venne assassinato dopo pochi anni. Stessa sorte seguirono molti dei suoi successori: quattro furono accecati, due scomunicati ed esiliarti, e tre deposti.
Nell’810 i Veneziani trasferirono la sede della loro città a Rialto, che diventava così la capitale di quel “Commonwealth” di sessanta isolette lagunari. Si trovava al centro della laguna, dunque era facilmente difendibile e altrettanto facilmente raggiungibile da tutti gli abitanti.
Già in quel periodo i Veneziani non erano più semplici pescatori come i loro antenati: molti si dedicavano al commercio del sale, altri erano diventati costruttori di barche, i più facoltosi cominciavano già a trafficare oltre l’orizzonte lagunare. Dagli arsenali non uscivano solo le imbarcazioni condotte attraverso i fondali conosciuti, ma anche navi vere e proprie adatte a lunghi viaggi via mare che si spingevano sino allo Ionio, all’Egeo e pure oltre il Bosforo. Il monopolio del commercio nell’Adriatico stava diventando cosa veneziana.
Nell’anno 900 gli Ungari misero gli occhi sulla presa succulenta. Allestirono una piccola flotta formata da barchette mal costruite e con la baldanza dei predoni colsero di sorpresa Chioggia, che venne distrutta insieme ai suoi abitanti. Poi, evidentemente fiduciosi di poter arrivare al bersaglio grosso, puntarono su Rialto. I Veneziani gli andarono incontro e nelle acque di Malamocco li sterminarono: quelli che non morirono sotto le spade lo fecero tra i flutti paludosi della laguna. La vittoria spalancò a Venezia il monopolio dei porti della Dalmazia, che temevano le incursioni dei pirati saraceni e si misero volontariamente sotto la sua protezione. Furono le prime colonie commerciali della Serenissima.
Sempre nello stesso periodo il doge Pietro II Orselo strinse accordi di alleanza commerciale e diplomatica sia con l’Impero Bizantino che con il Sacro Romano Impero. Uno storico veneziano parla di lui come di un novello Pericle, e non ha tutti i torti, anche se naturalmente molto in piccolo. La base della potenza lagunare gli deve moltissimo.
La mossa successiva di Venezia fu quella di attaccare i possedimenti normanni in Albania e nell’Epiro, cioè Durazzo e Corfù. Erano due porti d’importanza strategica enorme, posti com’erano sul canale d’Otranto. Nel 1083 il doge Vitale Faliero salpò con un centinaio di dromoni per ingaggiare i Normanni di Roberto il Guiscardo, che vennero sconfitti senza difficoltà. Gli uomini del nord replicarono vincendo i Veneziani a Corfù, ma fu una vittoria di Pirro. Alla morte di Roberto il Guiscardo i pochi Normanni rimasti lasciarono le coste dalmate e tornarono sulla terraferma, mentre i Veneziani occupavano il loro posto.
Questa contro i Normanni fu la prima, vera, guerra combattuta da Venezia per la conquista. Andò davvero bene perché l’imperatore bizantino concesse alla Repubblica lagunare la sovranità su tutta la costa dalmata e sul primo entroterra, oltre che grandissimi privilegi commerciali: apertura di tre scali sul Corno d’Oro (il porto di Costantinopoli), esenzione da alcune tasse, privilegi commerciali. Alla fine del 1100 Venezia si candidava come prima potenza marittima europea, centro di raccolta e di smistamento di tutte le merci più preziose che provenivano dall’Oriente: sete, broccati, spezie, profumi.

La struttura del potere veneziano non era democratica come potrebbe suggerire la dizione “repubblica”. L’accesso al Maggior Consiglio, formato da un migliaio di membri, era ristretto alle famiglie storiche, nobili per censo e per nascita. Quando dovevano eleggere il doge, si riunivano e ciascuno traeva una pallina da un’urna. Coloro i quali pescavano una delle trenta paline con scritto lector, o elettore, potevano votare. Successivamente, sempre con lo stesso sistema, i trenta votanti si riducevano a nove, che finalmente sceglievano (sempre all’interno del Maggior Consiglio) il doge tramite diverse votazioni.
Leggendo l’albo d’oro dei dogi si ritrovano sempre gli stessi cognomi, ma ciò alla popolazione andava più che bene. I capi del Maggior Consiglio si passavano il dovere di fare politica di padre in figlio: per molti una carriera diversa era impensabile, mentre per alcuni governare era una sorta di missione di vita. Certamente questa nobiltà si arricchì in modo stratosferico, non divise mai il proprio potere con la borghesia (e mai si confuse con essa), ma a ben vedere fu la vera fortuna di Venezia. Grazie ad essa si mantennero i buoni rapporti con l’Oriente e con il Sacro Romano Impero, si continuava l’eredità del doge precedente (che spesso era parente), si perseguiva una politica ben precisa e sempre vincente. Di novità, nella Serenissima, ce ne furono sempre ben poche dal punto di vista politico. Chi governava erano i soliti oligarchi: però governavano bene e nell’interesse del popolo.

Ma chi era il “vero” Veneziano? Si è creato spesso il mito del tipico mercante senza scrupoli, pronto a vendere la madre per soldi. Vero, era un commerciante, e per questo attaccato al soldo, ma non solo. Faceva anche il soldato, e bene, all’occorrenza. Sapeva combattere anche sulla terraferma, sapeva comandare i suoi uomini, dava prova di coraggio e valore. Il Veneziano, a differenza del Genovese, fu sempre attaccatissimo alla sua patria, che riconosceva tale in quanto i suoi avi l’avevano fatta diventare grande senza l’aiuto di nessuno. Nel contempo, non accettava di sottostare ad altri comandi se non quelli del doge: e, se questo si dimostrava non all’altezza, contribuiva a rimuoverlo con le cattive.
Naturalmente era anche molto “razzista”, nel senso medievale della parola. Si riteneva superiore ai popoli dalmati, i primi che erano entrati nella sfera d’influenza della Serenissima. Li riteneva uomini di serie B, quasi degli schiavi.
Le due caratteristiche peculiari (il senso di indipendenza e la superiorità etnica) lo facevano somigliare al pellegrino inglese che qualche secolo più tardi attraverserà l’oceano Atlantico ed arriverà in Nord America a gettare il seme di una nuova nazione.

Ci vorranno ancora altri secoli per vedere Venezia rilucere dello splendore di oggi. Ma già nel XII secolo i suoi palazzi si stagliavano con la loro forma leggiadra e aeriforme verso il cielo, specchiandosi nell’acqua solcata dalle gondole. Cominciavano a circolare i primi arazzi che facevano bella mostra di sé nelle dimore più belle, proprietà delle storiche famiglie lagunari come i Morosini, i Mocenigo, i Dandolo, i Faliero, i Contarini. I Veneziani, d’altronde, non disdegnavano di ostentare la propria ricchezza. Una cospicua somma di denaro pubblico veniva stanziata per l’abbigliamento del doge, che vestiva solo abiti di foggia bizantina della miglior fattura, fatti su misura dai più bravi sarti di Costantinopoli.
Venezia non dormiva mai. Era sempre un andirivieni di imbarcazioni guidate da mercanti di diverse razze, religioni ed etnie, oltre che di soldati, servi, marinai. Il movimento maggiore si aveva nel bacino di San Marco, che divenne anche il patrono della città. Il cuore dell’economia, invece, gravitava nella zona di Rialto. In tutte le calli sorgevano, in mezzo alle tipiche “volte”, i magazzini per il deposito delle merci e molti laboratori orafi che affinavano oro e gioielli in modo divino. Nella piazzetta di San Giacomo, sotto ai porticati, si riunivano ogni mattina i mercanti veneziani e stranieri per stipulare gli affari insieme ai loro commessi e ai loro contabili. Nelle immediate vicinanze sorgevano gli uffici della “Sicurtà”, che provvedevano ad assicurare contro i rischi coloro che “mettevano immense somme sul mare”: praticamente, le prime compagnie assicurative.
Poi c’era l’industria del vetro, situata prevalentemente sull’isoletta di Murano, che fin dall’821 era diventata la sede delle maggiori fornaci. Pare, ma non è certo, che sin dall’Impero Romano ci fossero maestri vetrai intenti a forgiare i loro piccoli capolavori. Comunque sia, fu con Venezia che questi vetrai si innalzarono al livello di esportatori professionali di oggetti di lusso. Le loro opere facevano il giro del mondo e finivano nei più bei castelli dei sovrani e dei principi, che pagavano ingenti somme per poter averle.
La prima e più grande industria era però quella navale-militare. Veniva esercitata in due forme: nell’Arsenale di Stato per costruzione di galee da guerra; nei piccoli cantieri privati per la realizzazione di imbarcazioni commerciali. Gli stipendi, per gli operai del settore, erano più che buoni, anche se la maggior parte di essi preferiva lavorare per i privati, che pagavano di più e con maggiore puntualità.

Venezia non era solamente una Repubblica Marinara basata sul commercio e sull’arte della guerra navale, ma anche una capitale del divertimento. Nei secoli successivi, a partire dal 1500, i giorni festivi supereranno di gran lunga quelli lavorativi nella laguna. I Veneziani saranno i primi a importare e consumare in maniera massiccia il caffè ed il cioccolato, le due innovazioni culinarie del Settecento. Numerosissimi saranno i casinò (e anche i bordelli).
Nel periodo che stiamo esaminando, cioè all’inizio del nuovo millennio, i lagunari dovevano accontentarsi delle gare di balestra, dei “ludi d’Ercole” (delle gare di atletismo nelle quali gli atleti si arrampicavano l’uno sull’altro fino a formare una piramide umana), della caccia al maiale (che si svolgeva in piazza San Marco) e delle regate in gondola. Ma soprattutto i Veneziani aspettavano tutto l’anno il celeberrimo sposalizio del mare, che celebrava la vittoria riportata nell’anno 1000 da Pietro II Orseolo sui pirati che infestavano le coste dalmate. I lagunari consideravano questo trionfo l’inizio della loro era di prosperità e di predominio sull’Adriatico: come tale, doveva essere davvero un momento speciale da festeggiare. In occasione della festività liturgica dell’Ascensione (40 giorni dopo la Pasqua), il doge si imbarcava sul bucintoro, la nave dogale, attraversava la laguna e, giunto all’imboccatura del porto di San Niccolò di Lido, veniva asperso con l’acqua santa mentre pronunciava la solenne frase: “Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio”.
Questa cerimonia rappresentava l’orgoglio dei Veneziani, la vera dimostrazione che erano loro a dominare e governare il mare Adriatico. La nascita della potenza marittima veneziana era stata sancita.

GENOVA

Incastonata come un gioiello prezioso tra le Alpi Marittime e il mar Ligure, la civitas di Genova ha origini romane, ma all’epoca costituiva solamente un piccolo borgo di pescatori; la sua fortuna fu la calata di Alboino, che costrinse le popolazioni dell’entroterra a rifugiarsi sulle coste liguri per salvarsi la pelle.
Nel 958 Berengario II concesse a Genova un riconoscimento giuridico tramite un diploma imperiale, a dimostrazione del fatto che quella piccola comunità era diventata un centro commerciale di una certa importanza. Da segnalare un altro diploma, probabilmente coevo a quello appena citato, che concedeva alle donne il diritto di comprare e vendere anche senza l’assistenza dei propri uomini, com’era invece solitamente richiesto. Questo privilegio ci fa capire che il commercio era fiorente: infatti gli uomini, dovendo rimanere parecchio tempo lontani da casa, delegavano le faccende domestiche, burocratiche ed economiche direttamente alle proprie donne: un fatto, nell’Alto Medioevo, più unico che raro.
Come tutte le località marittime che si affacciavano sul Mediterraneo occidentale, anche Genova fu oggetto di incursioni dei pirati saraceni, annidati a Frassineto, in Francia, vicino a Nizza. Le cronache rievocano quella brutale del 935, quando decine di vascelli musulmani penetrarono nel porto, saccheggiarono le case, bruciarono i palazzi e rapirono molte donne. I Genovesi, però, si riorganizzarono subito, si lanciarono all’inseguimento degli infedeli, li raggiunsero al largo della costa sarda di fronte all’Asinara e li massacrarono in una grande battaglia navale.

Sempre inglobata nel territorio imperiale, Genova poteva godere di una grande autonomia, data la sua posizione privilegiata e particolarmente ben protetta, oltre naturalmente alla caparbia dei suoi abitanti. Alla fine dell’XI secolo venne fondata la “Compagna”, che costituiva una sorta di governo della Repubblica Marinara, formata sia da aristocratici che da semplici pescatori. A differenza di Venezia, Genova era davvero “repubblicana” nel senso stretto del termine, essendo molto più democratica e aperta a tutti.
Fu proprio questa “Compagna” a decidere di partecipare alla prima Crociata mettendo a disposizione una dozzina di galee (o galere) e qualche centinaio di soldati genovesi, che ben figurarono nella presa di Antiochia. Per premiare la città, Boemondo di Altavilla le concesse un fondaco, dei terreni e la chiesa di San Giovanni, oltre ad altri privilegi come le esenzioni dai dazi doganali. Al ritorno in patria le navi genovesi sostarono a Mira, in Licia, per prelevare le ceneri di San Giovanni Battista, che vennero poi deposte nella chiesa del Santo Sepolcro sulla Marina di Prè (vicino a via Prè, per capirci). Da quel momento quel santo divenne il protettore e patrono della città.
Sempre durante la prima Crociata si distinse un altro genovese illustre, il leggendario Guglielmo Embriaco, detto “caput mallei”, cioè “testa di maglio”, che quando tornò a Genova portò con sé il Sacro Catino, da alcuni ritenuto il vero Graal.

A Genova nacquero le società in accomandita: una persona affidava del denaro ad un’altra affinchè quest’ultima se ne servisse per un’operazione commerciale, fissando sin dall’inizio per ciascuno dei due contraenti una quota di utile in proporzione al rischio. Sin dall’inizio dell’XI secolo i contratti di accomandita furono numerosissimi. Molti di quelli che si sono conservati testimoniano non solo la complessità di questi accordi (redatti dai notai, che a Genova furono sempre numerosissimi), ma anche il fatto che avevano ad oggetto tratte commerciali molto varie: si passava dalla Sardegna alla Corsica, da Alessandria d’Egitto a Londra, da Parigi a Barcellona. Insomma, che siano viaggi per mare o per terra, per i Genovesi faceva poca differenza: guadagnavano sempre e comunque.
L’attività principale, però, non era quella commerciale, bensì l’espansione territoriale. Genova, a differenza di Venezia, non poteva contare sul suo entroterra, tutto montagnoso e arcigno. Doveva per forza cercarsi il suo spazio vitale. Nel 1113 i Genovesi acquistarono Portovenere dai signori di Vezzano, facendone la punta avanzata contro la Lunigiana nel periodo delle lotte contro Pisa. Sempre sulla riviera di Levante ottenevano Chiavari, un centro nodale dove venne eretto un bellissimo castello.
Sull’altra riviera, quella di Ponente, Genova ebbe più difficoltà, dal momento che esistevano già alcune città di origine romane particolarmente fiorenti come Savona, Oneglia, Ventimiglia e Albenga. I Genovesi ebbero il predominio su questa parte di Liguria, ma solamente in modo teorico.
L’espansione territoriale, infine, prevedeva anche una strada attraverso l’entroterra delle Alpi Marittime, con cui raggiungere Piacenza, snodo commerciale fondamentale tra il nord e il centro Italia. Genova ottenne questo passaggio comprando dai marchesi di Gavi la località di Voltaggio nel 1121 ed assicurandosi in questo modo una rotta mercantile tra le aspre montagne liguri. Questo portò naturalmente ad uno scontro aperto con Tortona, protetta da Milano, e con Alessandria, che avevano mire contrapposte. Le numerose lotte che infiammarono questa parte di entroterra ligure al confine con Lombardia e Piemonte dimostrarono che i Genovesi non erano solo abili marinai, ma anche coraggiosi soldati di terra.

Le galee genovesi erano particolarmente robuste, ma nel contempo slanciate: arrivavano a misurare 41 metri di lunghezza e 6 di larghezza, con alti castelli di prua protetti da parapetti. Le navi commerciali non differivano troppo da quelle commerciali: queste ultime erano leggermente più tondeggianti e meno veloci, ma in caso di scontro navale potevano dire la loro.
I Genovesi tenevano in gran conto l’addestramento. Non essendo nati marinai, come invece i Veneziani, dovevano diventarlo e far diventare tali anche i propri figli. Un ragazzo che voleva navigare doveva passare attraverso un periodo di apprendistato, con relativo contratto che poteva durare per qualche anno o per un determinato numero di spedizioni. Successivamente decideva lui stesso se proseguire con la carriera marittima oppure se dedicarsi ad altra occupazione. Siccome il suolo ligure poco offriva (e poco offre tuttora), la scelta era spesso obbligata.
Ciascun marinaio poteva portarsi sulla nave una piccola quantità di roba personale, chiamata “paccottiglia”, e aveva anche la possibilità di commerciare personalmente gli oggetti da lui ottenuti nel corso del viaggio. Spesso, infatti, i Genovesi tornavano a casa dalle Crociate pieni di reliquie, calici, paramenti sacri, armi preziose, che venivano puntualmente vendute al miglior offerente.

Genova, che verrà chiamata “la Superba” dalla fine del XII secolo, aveva quindi bisogno di uno spazio vitale importante nel Tirreno e in tutto il Mediterraneo occidentale. I Genovesi dovranno aspettare poco per partecipare alle più grandi battaglie navali che infiammeranno il “mare nostrum” nel Medioevo. Se ne usciranno vincitori lo vedremo nel prossimo volume. Per ora ci basti sottolineare che la differenza principale con Venezia era costituita da un maggiore democrazia all’interno della società, che portò quindi ad una maggiore distribuzione della ricchezza tra il popolo e la nascita di una borghesia mercantile dallo spirito molto imprenditoriale.

PISA

Anche Pisa, come la maggior parte delle città del nord e del centro Italia subirono tutte le invasioni barbariche dell’Alto Medioevo, dagli Unni ai Longobardi. Fu solo con l’arrivo dei Franchi che la situazione si stabilizzò e la città potè svilupparsi pacificamente. Dopo un periodo sotto il dominio feudale del marchese di Tuscia e poi di Canossa, i Pisani si resero autonomi in tutto e per tutto. Questo fatto viene sancito e provato da un documento risalente al 1080 redatto in dialetto sardo e diretto dal giudice di Torres, Mariano di Lacon, al vescovo a Geraldo, vescovo di Pisa, ed al “vicecomite” Ugo: in esso si parla di esenzioni daziarie, di amministrazione della giustizia e di protezione dei traffici pisani in Sardegna. Dunque, Pisa era già, a quell’epoca, un Comune libero e con una sua sovranità territoriale.
La città veniva governata da un visconte coadiuvato da un consiglio di consoli e da dodici magistrati, o sapienti. In realtà a Pisa il potere effettivo veniva mantenuto saldamente nelle mani di poche famiglie di origini franco-longobarde, le quali detenevano il monopolio della costruzione delle navi e del commercio.

Anche i Pisani, come i Genovesi, dovettero far fronte alla minaccia saracena. Nel 1011 Cinzica dei Sismondi era riuscita a convincere i suoi concittadini ad armare una flotta per snidare alcune navi dei pirati musulmani, mentre nel 1034 le navi pisane furono in grado di penetrare nel porto di Bona in Algeria e poi in quello di Palermo nel 1063. In quest’ultima occasione i Pisani si portarono a casa un grosso bottino di oro e gioielli, buono per cominciare la costruzione dello splendido Duomo che tuttora è una delle meraviglie della città toscana.
Le vittorie di Pisa proseguirono nel 1088 con la presa dello scalo di Al Madhiyah (oggi Madhia in Tunisia) e nel 1114 la conquista delle Baleari, punto nodale del Mediterraneo occidentale, dove venne occupata prima Ibiza e poi Mallorca. L’impresa ebbe grande risonanza, tanto da essere stata celebrata da un poemetto in esametri, il Liber Maiolichinus, di Enrico Pievano, come se fosse trattato di una vera e propria crociata contro gli infedeli.

Sconfitti più volte i pirati saraceni, Pisa volse gli occhi verso la Corsica e la Sardegna, andando a scontrarsi di conseguenza con Genova, che aveva le stesse mire territoriali. I Genovesi si allearono quindi con Lucca, che di tanto in tanto impegnava i Pisani in battaglie terrestri, ma senza mai minacciarne l’incolumità.
Anche il mercante pisano, come quello veneziano e genovese, all’occorrenza si trasformava in valoroso soldato. Ai tempi della lotta tra il Barbarossa e i Comuni Pisa si schierò con l’imperatore, mandando un buon contingente all’assedio di Milano. Come ricompensa, Federico concesse alla città toscana i diritti comitali fino a 45 chilometri a est e fino a 90 a sud, dunque tutta la costiera da Portovenere a Civitavecchia, oltre a numerosi privilegi daziali. Storicamente, dunque, i Pisani erano Ghibellini, e tali lo rimasero.
Nel secolo successivo, il Duecento, lo scontro con Genova si fece sempre più aspro, sino a culminare in una battaglia che deciderà le sorti di entrambe, nel bene e nel male.

AMALFI

Chiudiamo la disamina delle quattro Repubbliche Marinare con la piccola Amalfi, fondata secondo la leggenda da una ninfa, mentre secondo gli storici romani da un gruppo di marinai diretti verso Costantinopoli e naufragati sulla costiera a causa di un fortunale intorno alla fine del IV secolo.
La cittadina prosperò perché posta in una posizione strategica a picco sul Tirreno, protetta alle sue spalle dalle montagne, proprio come Genova. Formalmente gli Amalfitani, come i Veneziani, erano dipendenti dai Bizantini, ma quando questi vennero sconfitti dai Longobardi passarono sotto il ducato di Benevento, governato da Arechi II.
Amalfi sopravvisse anche dopo il crollo del regno longobardo e l’avvento dei Franchi, segnalandosi anche per numerose vittorie riportare contro i Saraceni, come quelle di Licosa e di Ostia dell’846 e dell’848. Il suo ordinamento giuridico vedeva al vertice della gerarchia un conte, eletto annualmente dal popolo, che poi in seguito prese il nome di doge, o dux, in greco.
Con l’arrivo dei Normanni iniziò per Amalfi il periodo di decadenza. Inglobata dal regno di Sicilia, il nuovo governatore era nominato direttamente da Palermo, e prendeva il nome di strategoto.
Nel 1135 i Pisani, che appoggiavano l’imperatore Lotario e avevano mire espansionistiche, penetrarono nel porto amalfitano, distrussero tutte le galee e diedero fuoco alle case. Due anni dopo un altro raid venne evitato pagando un forte riscatto e diventando di conseguenza tributari di Pisa. Molti Amalfitani non vollero rimanere in città da servi ed emigrarono in Oriente, in particolare a Costantinopoli, dove erano stati i primi ad aprire un proprio quartiere sul Bosforo, con tanto di chiesa e mercato. Erano arrivati anche a Gerusalemme, dove avevano fondato un ospedale nei pressi del Santo Sepolcro, dedicato a San Giovanni.
Questi due fatti testimoniano la potenza conquistata nel corso degli ultimi secoli bui da Amalfi, che però deve la sua maggiore fama alle famose Tabulae Amalfitane, compilate (pare) a metà del 900, scritte parte in latino e parte in volgare. In esse venivano regolati i rapporti marittimi tramite una serie di norme che rimasero in vigore almeno sino alla metà del 1600: un vero e proprio codice che servì da ispirazione alla successiva legislazione in materia di diritto del mare.

Le mie pubblicazioni

A vostra disposizione le mie pubblicazioni, buona lettura!

La guerra delle razze

Capitoli

Capitolo Primo - Mille e non più Mille

Il 31 dicembre del 999 cadeva di martedì, dunque non era neppure un giorno di festa comandata. La solennità di questa data si capisce: chiudeva ufficialmente il millennio, il primo dell’era cristiana. Leggi tutto »


Capitolo Secondo - La riforma di Cluny

Ottone III morì senza figli, dunque la successione ereditaria in linea diretta non era possibile. Si scatenò quindi una lotta alla successione dalla quale uscì vincitore un duca di Baviera, che prese il nome di Enrico II e che era imparentato alla lontana con la famiglia degli Ottoni. Leggi tutto »


Capitolo Terzo - L'inizio della lotta per le investiture

I tempi per un conflitto erano più che mai maturi. La dinastia ottoniana aveva nominato e creato i vescovi a proprio piacimento, e questo le aveva giovato in termini di prestigio e pacificazione territoriale. Leggi tutto »


Capitolo Quarto - La prima Crociata

Gregorio VII era riuscito in quasi tutti i suoi piani: togliere potere all’imperatore, creare una fitta rete ben organizzata di ecclesiastici che facevano solo l’interesse della Chiesa Romana, sfidare e mettere sotto scacco il patriarca di Costantinopoli. Leggi tutto »


Capitolo Quinto - Il Concordato di Worms

La Crociata aveva rappresentato una grandissima vittoria per la Chiesa Romana, ma anche per la nobiltà francese, la vera protagonista della conquista di Gerusalemme. Leggi tutto »


Capitolo Sesto - Il Barbarossa e l'ascesa dei Comuni

L’imperatore moriva senza eredi ma con un successore designato: Federico, della famiglia degli Hohenstaufen. Non era un candidato forte: detto il “Guercio” per ovvie ragioni di menomazione fisica, era più un costruttore di castelli che un soldato. Leggi tutto »


Capitolo Settimo - La terza e la quarta Crociata

Al momento della scomparsa del Barbarossa l’armata tedesca si dissolse presso Antiochia: una piccola parte di essa rimase però in Terrasanta, al comando di Guido di Lusignano, che continuava l’assedio ad Acri. Leggi tutto »


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L’altro protagonista della rinascita italiana fu il Comune, l’erede dell’antica civitas romana, spazzata via dalle invasioni barbariche fin dal V secolo d.C. Leggi tutto »


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