LETTERA II.
Villa Mosolente – La strada verso Venezia – Prima veduta della
città – Scioccante veduta del Leone Bianco – Vista mattutina
del Canal Grande – Chiesa di Santa Maria della Salute -
Interessante gruppo di edifici statali – Convento di San Giorgio
Maggiore – Il Redentore – Isola dei Cartusiani.
1°Agosto 1780.
Per l’intera mattinata tutti quelli che potevano rimasero in ozio. Coloro che la notte precedente erano così attivi e vitali, ora si stiracchiavano mollemente sui loro divani. Essendo anch’io disposto allo stesso modo, rimasi a scrivere queste lettere; poi banchettai con fichi e meloni; poi mi riparai all’ombra di un cipresso e dormicchiai fino a sera, svegliandomi per l’ora di cena, e per sorbire ghiaccioli.
Visto che il sole declinava velocemente, m’affrettai all’appuntamento a Mosolente (così si chiama quella villa), sita su un verde colle, circondata da altre simili, e formata da tre leggeri padiglioni collegati da portici; in tal modo ammirammo le stupende scene di un’opera. Un lungo tragitto di gradini portava alla sommità, dove la Signora Roberti ed i suoi amici mi ricevettero con una grazia ed un garbo davvero indimenticabili.
Vagabondammo in tutti gli alloggi di questo amabile edificio, caratterizzato dalla finezza e dalla semplicità. Il pavimento era coperto da un intarsio fine e levigato come il marmo; le finestre, le porte, i balconi erano decorati da opere in ferro argentato, con scene di pascoli e foreste che si estendevano sulle spiagge dell’Adriatico, slanciate torri e nobili cipressi; mentre le nebbiose montagne al di là di Padova, che punteggiavano l’intera distesa, formavano un paesaggio che l’elegante estro di Horizonti mai aveva ecceduto descrivere.
Rimirai questa piacevole veduta sino a che calò l’oscurità; poi tornando a Bassano, mi riparai in una sala illuminata, e ascoltai la Signora Roberti cantare la medesima aria che mi aveva procurato tanto trasporto a Padova.
Quando terminò, una banda di vari strumenti nel viottolo cominciò a suonare una vivace sinfonia, che mi deliziò ancora una volta; tuttavia dovevo accommiatarmi, anche perché una graziosa melanconia stava nascendo dalla melodia che ascoltavo e che non voleva saperne di lasciare la mia mente.
A mezzanotte presi commiato dai miei anfitrioni, che si stavano preparando per tornare a Padova. Mi porsero un migliaio di cortesi inviti, e spero in futuro di accettarli tutti.
2 Agosto.
La nostra strada per Venezia serpeggiava tra le variegate pianure che avevo esaminato da Mosolente; dopo aver cenato a Treviso arrivammo in due ore e mezza a Mestre, tra grandi ville e giardini popolati da statue. Imbarcato il bagaglio in quest’ultimo luogo, salimmo su una gondola, le cui movenze erano molto più piacevoli degli scossoni di un calesse. Fummo presto fuori dal canale di Mestre, che terminava in un’isola in cui dimora una celletta dedicata alla Vergine, che spunta dal boschetto, tra due cipressi. Quando le sue campanelle tintinnarono al nostro passaggio lasciammo cadere alcuni paoli in una rete che serviva a quel proposito.
Appena doppiammo il capo di questa minuscola isola, si aprì davanti a noi una distesa di mare, e le cupole e le torri di Venezia che s’innalzavano dal suo grembo. Ora potevamo distinguere Murano, San Michele, San Giorgio in Alga, e molte altre isole, che spiccavano da quello sciame grandioso, e che io salutai come delle mie vecchie conoscenze; molteplici dipinti e disegni avevano infatti reso le loro forme a me familiari. Sempre scivolando in avanti, potevamo scorgere sempre nuove chiese o palazzi della città, bagnati dai raggi del tramonto, che si riflettevano con tutto il loro bagliore sulla superficie dell’acqua.
L’aria era soave; il cielo sereno; solamente un debole vento spirava sulle profondità del mare, e delicatamente portava la sua superficie contro ai gradini di una cappella sull’isola di San Secondo, fluttuando davanti al portale, accanto a cui costeggiammo sfiorando le mura del suo giardino decorato da fichi e sormontato da pini. Il convento si palesò attraverso tali nervature, in uno stile quasi moresco, ed allo stesso livello del mare, eccetto laddove cominciavano i giardini.
Adesso stavamo avvicinandoci alla città, ed un confuso ronzio iniziò ad interrompere la quiete della sera; le gondole continuavano a passare e ripassare, e l’entrata del Canale Reggio, con tutta la sua confusione e il suo trambusto, s’apriva davanti a noi. I nostri gondolieri volteggiarono con grande abilità in mezzo alla calca di barche e chiatte che ingorgava la nostra strada, vogando agevolmente sino ad un ampio lastricato, popolato da persone di tutte le nazioni.
Lasciato il Palazzo Pesaro, nobile struttura con due file di arcate ed un superbo rustico appena dietro di esso, sbarcammo davanti al Leon Bianco, che essendo situato in una delle parti più vaste del Canal Grande, domina un mirabile gruppo di costruzioni. Non ho parole per descrivere la varietà delle colonne, dei frontoni, delle forme, e delle cornici, alcune greche, altre saracene, che adornano questi edifici, dei quali la matita di Canaletto comunica così perfettamente l’idea da rendere superflue tutte le descrizioni orali. Nella parte finale di questa grandiosa prospettiva appare Rialto; la curva del canale lo nasconde sino a quando non vi si arriva.
Le stanze del nostro albergo son spaziose e deliziose; una nobile sala, o meglio una galleria, con dipinti grotteschi in uno stile perfettamente pulito, pavimenti di stucco marmoreo, divide la costruzione, e consente il ricambio dell’aria. Molte finestre vicine al soffitto guardano in questo vasto alloggio, che serve da corte, ed è reso perfettamente luminoso da una arcata smaltata, completamente aperta per cogliere la brezza. Passai poi su un balcone che incombe sul canale, avvolto da piante che formavano un festone verde, nascenti da due
ampi vasi d’aranci ai due lati. Qui decisi di fermarmi per gustare la frescura ed osservare, sino a che il buio l’avrebbe permesso, la molteplicità di figure che passavano sulle gondole.
Quando arrivò la sera, innumerevoli cerini si accesero dietro alle tende delle finestre. Ogni barca aveva la sua lanterna e le veloci gondole erano seguite da scie di luce, che luccicavano e giocavano sulle acque. Stavo guardando questi fuochi danzanti quando le musiche cominciarono a spirare tra i canali, e quando giunsero all’intensità massima, comparve da Rialto una barchetta illuminata piena di musici, si fermò sotto ad uno dei palazzi, ed iniziò una serenata, che placò tutti i clamori e sospese tutte le conversazioni nelle gallerie e sotto ai portici; tutt’intorno non si sentiva davvero più nulla. I gondolieri si accodarono alla melodia, imitando le sue cadenze, accompagnati dai compagni, le cui voci, echeggiate dagli archi del ponte, acquisirono una malinconica e talentuosa intonazione. Andai a riposare, ebbro dei suoni; quell’aria sembrava vibrare ancora nelle mie orecchie.
3 Agosto.
Non erano ancora le cinque quando fui svegliato da un fragoroso baccano di voci e schizzi d’acqua sotto al mio balcone. Osservai che il Canal Grande era interamente coperto di frutti e piante, su zattere e barchette, tanto che a stento potei distinguere un’onda. Cariche di uva, pesche e meloni arrivarono, e scomparvero in un istante, perché tutti i bastimenti si muovevano veloci; e la calca di acquirenti si affrettava di barca in barca così formando un vero dipinto. In mezzo a quella moltitudine, notai che molti portavano vestiti di classi sociali alte; e ad un secondo esame trovai che erano tutti nobili veneziani, appena usciti dai casino, pronti a rinfrescarsi con la frutta, prima di ritirarsi a dormire per tutta la giornata.
Mentre continuavo a osservarli, il sole cominciò a tingere le balaustre dei palazzi, e l’aria pura e tersa del mattino mi spinse ad uscire, a chiamare una gondola, a comprare la mia provvista di cibo e uva, e visitare Rialto, ed il grande canale sino ai gradini marmorei di Santa Maria della Salute, eretta dal Senato in assolvimento di un voto alla Vergine, che debellò la terribile pestilenza del 1630. Il grande portale bronzeo si apriva davanti ai gradini dove mi stavo dirigendo, per scoprire l’interno del duomo, dove pregai in solitudine; non apparve alcun mortale eccetto un vecchio prete che addobbava le lampade e bisbigliava preghiere sull’altare, avvolto dalle ombre.
I raggi del sole iniziavano a picchiare contro le finestre della cupola, quando uscii dalla chiesa e mi diressi verso la spaziosa passeggiata di fronte a San Giorgio Maggiore, una delle opere più celebri di Palladio.
Quando le prime emozioni si calmarono un poco, ed ebbi esaminato l’aggraziato disegno di ogni ornamento, e connesso nella giusta misura il grande effetto del tutto nella mia mente, piantai il mio parasole ai margini del mare, e mi fermai ad esaminare la grandiosa distesa di palazzi, portici, torri, che si apriva e si estendeva al mio sguardo. Il palazzo del Doge e le alte colonne dell’ingresso di Piazza San Marco, formavano, insieme alle arcate della pubblica Biblioteca, il superbo Campanile e le cupole della chiesa ducale, uno dei gruppi di costruzioni più straordinari che l’arte abbia mai prodotto.
Osservare queste costruzioni, così illustri sin dai tempi più antichi, davanti ai quali, nei floridi tempi della Repubblica, così tanti valenti capi e principi sono sbarcati, carichi dei loro bottini d’oriente, era uno spettacolo che da tempo desideravo ardentemente. Pensai ai
giorni di Federico Barbarossa, quando nella Piazza San Marco, egli marciò in solenne processione, per inginocchiarsi ai piedi di Alessandro III, e rendere un tardivo omaggio al successore di San Pietro.
Ora non vi sono più quelle splendide flotte; vidi solamente una solitaria galeazza, ancorata dirimpetto al palazzo del Doge e circondata da calche di gondole, le cui tonalità di zibellino contrastavano con i remi vermigli e gli ornamenti rilucenti. Una comitiva variegatamente colorata si spostava continuamente da un lato all’altro della piazza; mentre senatori e magistrati con le loro lunghe mantelle nere arrivavano per espletare i loro uffici.
Contemplavo quello scenario pieno di attività dalla mia piattaforma, disturbata solo da vecchie devote che biascicavano le loro preghiere, e, mentre rimanevo così in ozio, ascoltavo il lontano brusio della città. Fortunatamente le onde rollavano tra me ed il suo tumulto; così potei mangiare la mia uva e leggere Metastasio non infastidito da invadenze e curiosità. Quando il sole si fece più forte, entrai nella navata.
Dopo aver ammirato la magistrale struttura del tetto e la levità dei suoi archi, i miei occhi si diressero quasi naturalmente verso il pavimento di marmo bianco e rosato, lucido, che rifletteva come uno specchio le colonne che si sollevavano da esso. Camminai verso una porta che mi introdusse nel quadrangolo principale, circondato da un porticato sostenuto
da colonne Ioniche, meravigliosamente proporzionate. Una scalinata si apriva sulla corte, ornata da balaustre e piedistalli, scolpite con sobria eleganza Greca. Questa mi condusse nel refettorio, dove il capolavoro di Paolo Veronese, rappresentante le nozze di Cana in Galilea, fu il primo oggetto che mi si presentò davanti. Non avevo mai ammirato vestiti da matrimonio più mirabili; c’è tutta la varietà di e pieghe e svolazzi che si posson immaginare. Le pose e le espressioni del volto sono più uniformi, e gli ospiti appaiono persone di gran garbo ed eleganza, ben abituati agli usi del loro periodo storico e avvezzi ai miracoli.
Dopo aver esaminato questo pasto fittizio, guardai verso una lunga schiera di tavoli coperti con tutte le più eccellenti realtà culinarie, che i monaci divoravano davvero con energia, a giudicare dall’apparenza. Questi figli della penitenza e della mortificazione del corpo posseggono una delle più grandi isole della laguna, e una abitazione degna di un principe, con giardini e portici, da lasciare senza fiato; quello che non aggiunge molto alla bellezza del luogo, è invero la facilità del turista di poterlo visitare, ogni qual volta ne abbia voglia.
La repubblica, gelosa dell’influenza ecclesiastica, tollera queste peregrinazioni profane, incoraggia la libertà di monaci e uomini di chiesa, evita che questi appaiano troppo sacri ed importanti agli occhi della gente, e invero forniscono prove di essere anch’essi carne e sangue, e della più fragile composizione. Il resto dell’Italia è della medesima opinione, profittando delle massime di Fra Paolo, per cui pochi campi potevano essere non coltivati, e il suo antico spirito é più che mai vivo. Comunque, posso a stento ripensare al momento in cui vengono asserite le loro naturali prerogative, posso a stento guardare alla tiara, con tutta la sua platea di illusioni, simili ai sogni d’un febbricitante.
Sazio di profezie e presagi, sgattaiolai fuori dai portici; e, guadagnata la mia gondola, giunsi non so come alla scalinata che porta al Redentore, una struttura così semplice ed elegante, che mi sembrò di entrare in un antico tempio, e di ammirare la statua del Dio di Delfi, o di qualche altra graziosa divinità. Un enorme crocifisso di bronzo mi riportò molto presto ai tempi attuali.
Perciò dissolto l’incantesimo, cominciai a scorgere le forme dei martiri addolorati che sbirciavano dalle nicchie, e le irsute barbe dei frati cappuccini che scodinzolavano davanti
agli altari. Questi buoni padri avevano decorato la navata maggiore con alberi d’arance e limoni, tra le colonne delle arcate; e con loro solenne gioia, si direbbe, avevano fatto diventare la chiesa un pergolato, disseminato di foglie il pavimento, e cosparso di fiori l’intero edificio.
Li lasciai alle loro piante e alla loro devozione. Era mezzodì, e supplicai di esser portato in qualche isola boscosa, dove poter pranzare all’ombra ed in pace. I miei gondolieri partirono in tromba; ma, sebbene navigassero molto veloci, io desideravo che avanzassero ancor più rapidi, così presi una barca con sei remi, bruciai l’acqua e mi accomiatai dalla Zecca e da San Marco; e, lanciato nelle pianure del mare scintillante, vidi moltitudini di torri e isole che svanivano davanti a me. Una pallida luce verdastra correva lungo le spiagge del lontano continente, le cui montagne sembravano cogliere i movimenti della mia nave, volando con la stessa velocità.
Non ebbi molto tempo di contemplare quei bellissimi effetti dell’acqua – e quei colori smeraldo e viola che rilucevano sulla sua superficie. La nostra prua urtò, schiumando, contro le mura dei giardini Cartusiani, prima che potessi rendermi conto dove fossi, o avessi potuto guardarmi bene attorno. Ottenuto il permesso, entrai in questo fresco rifugio, e spostando i rami dei fichi e dei melograni, arrivai sotto ad un antico alloro sulla sommità di una collinetta, accanto alla quale molti alti pini si elevavano nel venticello. Ascoltai la conversazione che intrattenevano con una brezza proveniente dalla Grecia, come se davvero potessi interpretare quel linguaggio etereo, pieno dei suoi affettuosi ricordi del Monte Ida.
Riposai tra le foglie profumate, ventilato da un’auretta costante, sino a che i confratelli mi portarono alcune provviste, contenute in un canestro di frutta e vino. Due di loro si fermarono con me, facendomi diecimila domande su Lord George Gordon, e sulla Guerra Americana. Io, che mi stavo godendo il venticello, e le migliaia di fantasticherie suscitate dalle mie immagini Greche, avrei gradito quegli interrogatori solo nel purgatorio, e così
lamentai la mia ignoranza della lingua italiana. Questo mi tolse da ogni imbarazzo, assicurandomi un lungo intervallo di riposo.
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