LETTERA III.
Chiesa di San Marco – La Piazza – Maestose celebrazioni
qui anticamente celebrate – Grande architettura di Sansovino -
Il Campanile – La Loggetta – Il Palazzo Ducale - Colossali
Statue – Le Scale dei Giganti – Eccesso di entusiasmo - Scena
serale della grandiosa Piazza – Intrigo veneziano – Babele di
lingue – Madame de Rosenberg – Carattere dei
Veneziani.
Il fruscio dei pini aveva lo stesso effetto dei mormorii degli antichi cantori, così mi appisolai indisturbato sino a che i barcaioli (i quali non si stupirono affatto, oserei dire, di vedermi addormentato), iniziarono ad intonare una sorta di coro con una melodia malinconica, tanto che pensai di essere ancora sotto l’influenza di un sogno, e così, in questo stato di dormiveglia, credetti, come gli eroi di Fingal, di aver attirato la musica degli spiriti della collina.
Quando mi fui esaurientemente convinto della concretezza di questi suoni, mi spostai verso la riva da cui provenivano: un mare cristallino si apriva davanti a me; nessuna brezza
increspava quella distesa; ogni alito di vento era cessato, ed io guardai il sole tramontare in tutta la sua calma sacrale. Anche tu hai provato le sensazioni di questo momento; immagina quali siano state su un tale palcoscenico, accompagnate da un’armonia così lieve e commovente. Salii sulla barca, ed invece di incoraggiare la velocità dei gondolieri, li pregai di rallentare il loro ardore, e di remare oziosamente verso casa. Docili ai miei comandi, arrivammo alla piattaforma di fronte al palazzo ducale, affollato come al solito da uomini di tutte le nazionalità. Mi mischiai con la folla per un momento; poi mi diressi verso la grande moschea, o dovrei dire la chiesa di San Marco; anche se le sue cupole, i pinnacoli sottili, gli archi semicircolari, hanno sembianze orientaleggianti. Osservai i quattro maestosi destrieri bronzei e dorati che adornano il portale principale, poi, guardando la piazza, mi resi conto della sua vastità, con le sue torri e le sue bandiere. Un più nobile non ha eguali nell’architettura. Invidiai la buona sorte di Petrarca, il quale descrive, in una delle sue lettere, un torneo che si era tenuto in questo luogo principesco.
Molte feste vi furono celebrate. Quando Enrico III lasciò la Polonia per prendere il trono di Francia, passò per Venezia e trovò il Senato della Repubblica a riceverlo nella celebre piazza, che grazie ad un paracielo disteso dalle balaustre di due palazzi, l’uno opposto all’altro, venne trasformata in un ampio salone, scintillante di stelle artificiali, disseminato dei più costosi tappeti dell’Oriente. Quale magnifica trovata! Gli antichi Romani, all’apice
del loro potere e della loro ricchezza, non ne inventarono una migliore. Anche se è da loro che i Veneziani presero l’idea, visto che tutti noi abbiamo letto del Colosseo e del teatro di
Pompeo, che talvolta venivano coperti da teloni trasparenti, per riparare dal caldo e dalla pioggia, e dare colore alla scena.
Dopo aver goduto della prospettiva generale della piazza, iniziai ad esaminare i singoli particolari, come i piedistalli bronzei delle tre bandiere davanti alla grande chiesa, progettati da Sansovino ricalcando i paradigmi classici, pieni di rilievi, allo stesso tempo audaci ed eleganti. A questo celebre architetto dobbiamo anche l’imponente facciata delle Procuratie, che compongono un’intera ala della piazza, e presentano una ininterrotta serie di arcate e colonne marmoree squisitamente lavorate. Dirimpetto a queste appare un’altra schiera di palazzi, la cui architettura, sebbene molto distante dalla finezza Ellenica di Sansovino, ispira venerazione, completa il fasto della veduta generale.
C’è qualcosa di strano e singolare nella Torre del Campanile, che spicca dal liscio pavimento della piazza, situato alla tua sinistra se ti trovi di fronte all’entrata principale di San Marco. Il disegno è rozzo, e termina in goffe e sgraziate piramidi; nonostante questi difetti mi ispirò un grande timore reverenziale. Una bella costruzione chiamata la Loggetta, che funge da guardina durante la convocazione del Gran Consiglio, decora la sua base. Nulla può essere più ricco, più raffinato di questa struttura; la quale, sebbene per niente piccola, sembra quasi perdersi ai piedi del Campanile. Questo complesso sembra promettere una lunga durata, e probabilmente mostrerà San Marco e il suo Leone alle più future generazioni. Difatti dalla sua sommità entrambi appaiono grandiosi, a nulla inferiori, eccetto ad un arcangelo posto sul pinnacolo, che guarda verso i cieli. Il crepuscolo
m’impedì di esaminare le tante sculture che affollano la Loggetta.
Attraversata l’ampia distesa tra questo gradevole edificio e il palazzo ducale, passai in mezzo ad un labirinto di colonne ed entrai nella corte principale, della quale nulla eccetto i contorni era visibile a quell’ora. Due reservoirs di bronzo riccamente decorati con sculture diversificavano l’area. Di fronte si eleva una magnifica scalinata, dalla quale i senatori salgono attraverso ampi e solenni corridoi, che conducono all’interno della fabbrica. Le colossali statue di Marte e Nettuno sorveglian l’ingresso, e danno il nome di scala dei giganti alla prima parte della scalinata, che per questo percorsi non senza rispetto; appoggiandomi alle balaustre, composte come il resto dell’edificio dai più rari marmi, contemplai quelle divinità tutelari.
La mia ammirazione fu brevemente interrotta da uno degli sbirri, o ufficiale di polizia, che si godeva il tramonto davanti al palazzo, il quale mi disse che le porte stavano per essere chiuse. Mi affrettai, e lasciai un milione di splendide sculture inesplorate; ogni pilastro, ogni fregio, ogni trabeazione, è tempestata di porfidi, di ofiti, e di altri preziosi marmi, scolpiti in tante ghirlande grottesche come quelle della loggia di Raffaello. E poi i più variegati portali e i più strani aggetti; in breve, l’appariscente irregolarità di questi superbi pilastri, mi piacquero oltre ogni immaginazione; così fui dispiaciuto di lasciarli, specialmente perché il crepuscolo, che occhieggia e civetta meglio di quanto possa fare io, allargava ogni portico, allungava le colonnate, ed aumentava le dimensioni del tutto, proprio come desiderava la mia fantasia. Questa facoltà onirica mi avrebbe voluto far rimanere per un’altra ora. La luna sarebbe brillata sulle gigantesche forme di Marte e Nettuno, e scoperto le statue degli antichi eroi che emergevano dal buio delle loro nicchie.
Una tale strabiliante combinazione dei oggetti, un tale regale scenario, in aggiunta alla considerazione che molti di quegli ornamenti un tempo avevano contribuito alla decorazione di Atene, mi trasportarono fuori da me stesso. Gli sbirri mi credettero distratto. Ed era vero, stavo camminando impettito come un attore di una tragedia Greca, alzando le braccia in direzione dei suoi ammiratori, in attesa della risposta del coro, declamando i primi versi dell’Edipus Tyrannus.
Questo slancio di esaltazione venne abbattuto quando passai dalle porte del palazzo alla grande piazza, e quando mi arrivò un fievole barlume dai suoi casino e dai suoi palazzi, che
cominciavano ad illuminarsi, e a diventare ritrovi di piacere e dissolutezza. Un gran numero di persone procedeva sul lastricato; alcune alla ricerca dell’utile oscurità dei portici
insieme ai loro favoriti; altre ardentemente impegnate in discussioni, nei locali vivacemente illuminati, dove bevevano caffè e gustavano sorbetti, in mezzo a risate e divertimento. Prevaleva un folle e sconsiderato slancio; a quest’ora della giornata tutto ciò che somigliava al ritegno era fuori questione; e per quanto solenne possa apparire un magistrato o un senatore durante il giorno, di notte egli mette da parte parrucca, mantello e austerità, si getta negli intrighi sulla sua gondola, prende sottobraccio la sultana e bighellona per tutta la città, che diviene sempre più spensierata al declinar del sole.
Molti dei nobili Veneziani possiedono una serie di appartamenti nelle calli intorno alla grande piazza, dei quali gli stessi familiari non conoscono l’esistenza. In questi antri si appartano nella semioscurità e gozzovigliano indisturbati con i compagni dei loro piaceri. La Gelosia in persona non sarebbe in grado di scoprire i vicoletti, i meandri più tortuosi, i portoni insospettabili, da cui si accede a questi rifugi. Innumerevoli amanti infelici hanno cercato invano la loro signora, che era sparita all’improvviso insieme ad un fortunato rivale.
Gli stessi gondolieri, sebbene siano i primi registi degl’intrighi, spesso non conoscono questi reconditi gabinetti. Quando un damerino si mette in testa di inseguire le sue avventure misteriose, si fa trasportare nella piazza, ordina al barcaiolo di aspettarlo, e svanisce nel nulla. Sicuramente Venezia è la città migliore dell’universo per riuscire in queste diavolerie. Quale varietà di covi e rifugi per non farsi scoprire!
Mentre i nobili si sollazzavano nei loro casino, la plebaglia si raccoglieva in gruppetti intorno agli attori girovaghi ed ai saltimbanchi, cantando e buffoneggiando in mezzo alla piazza. Notai un gran numero di Orientali tra la folla, e udii Turchi e Arabi parlare in ogni angolo. Da un lato della piazza predominava il dialetto slavo; dall’altra parte era il greco la lingua usata, quasi incomprensibile. Se la chiesa di San Marco fosse stata la meravigliosa torre, e la sua piazza quella di Babilonia, non ci sarebbe stata una così grandiosa babele di idiomi.
La novità della scena non mi procurò nessun divertimento, così mi misi a vagabondare tra i gruppetti di persone, uno più esotico dell’altro, chiedendo e venendo interrogato su questioni ridicole, e nel contempo sistemando le diatribe politiche tra Londra e Costantinopoli, nello stesso respiro. Un momento mi ritrovavo in mezzo a degli austeri preti e gioiellieri armeni; il momento successivo tra Greci e Dalmati, che mi abbordavano con i più complimenti più lusinghieri, dando prova che la loro reputazione di docilità e capacità oratoria non era per nulla infondata.
Mi stavo infilando in un discorso un po’ avventato con un gruppo di conti o principi, o qualsiasi cosa fossero, venuti dalla Russia con nani, lacché e cortigiani, che mi squadravano come io squadravo loro, quando arrivò Madame de Rosenberg, alla quale ebbi la ventura di essere raccomandato. Mi presentò ad alcune delle famiglie più in vista di Venezia nel casino di sua proprietà, affacciato sulla piazza, composto da cinque o sei stanze, allestite con un gusto gaio e frivolo, né ricco né elegante, dove vi erano moltissime lampade, e moltissime dame vestite in modo trascurato, con i capelli sciolti in modo discinto, ed innumerevoli avventure scritte negli occhi. I gentiluomini languivano sui sofà, o bighellonavano nei vari locali dell’appartamento.
L’intera adunanza sembrava sul punto di sbadigliare all’unisono quando d’improvviso venne portato il caffè. La magica bevanda diffuse una vivacità effimera; per pochi attimi i discorsi si mossero su toni di vivace stravaganza; la folgorazione esaurì presto il suo effetto; non rimase nulla, a parte carte e stupidità.
Nei pochi intervalli tra un discorso vuoto e uno ingannevole, alcuni parlarono degli affari del gran concilio con meno riserbo di quanto mi sarei aspettato; due o tre di loro mi chiesero anche di alcune futili problemi circa i recenti tumulti a Londra.
Era l’una quando mi unii alla compagnia, erano le tre quando la lasciai, ancora pensando al loro caffè e alle loro carte da tavolo. Tressette era il loro gioco preferito: uno, due, tre, quattro, cinque, fante, cavallo re, ripetuti in eterno; non si sentiva altro.
Mi meraviglio che una popolazione attiva possa sopportare una tale monotonia, anche perché mi era stato detto che i Veneziani sono notevolmente alacri e così bramosi nella ricerca del divertimento che difficilmente si concedono attimi di riposo. Alcuni, per esempio, dopo aver parlato in Senato, passeggiano nella piazza, girano da un casino all’altro sino all’alba, escono, salgono in gondola, navigano nella Laguna svolgendo le loro funzioni da Mestre a Fusina, saltellano a Treviso, fanno colazione in fretta e furia e tornano indietro come se fossero braccati da Diavolo: alle undici riprendono la toga e la parrucca e vanno a presenziare nel concilio.
Questo potrebbe essere vero, ma io, personalmente, non posso citare i Veneziani come esempi di vigore. La loro tempra fiaccata dalle dissolutezze non permette il regolare flusso di spiriti vitali, se non per pochi momenti di falsa e febbrile operosità.
Le avances del sonno, respinte da uno smodato uso del caffè, li rendono deboli e svogliati, e la comodità di essere trasportati in gondola, aggiunge non poco alla loro indolenza. In breve, mi è difficile considerare i Veneziani meno pigri dei loro vicini Orientali; i quali, grazie al loro oppio e ai loro harem, trascorrono la vita in perpetuo ozio.
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