LETTERA IV.
Caldo eccessivo – Il Diavolo e l’Africa – Spiaggia triste -
Scena dello Sposalizio del mare – Ritorno a Piazza
San Marco – Sciame di Avvocati – Ricettacolo per anonime
accuse – Il Concilio dei Dieci – Terribile punzione delle sue
vittime – Statua di Nettuno – Acque fatali – Ponte dei Sospiri -
I Fondamenti Nuovi – Conservatorio dei Mendicanti - Un
Oratorio – Profonda attenzione del Pubblico.
4 Agosto 1780
Il caldo fu così esagerato durante la notte, che pensai davvero diverse volte di star per morire soffocato, cotto come un pesce, così sognai del Diavolo e dell’Africa. Verso l’alba, una languida brezza mi riportò alla vita ed alla ragione. Sonnecchiai fino alla sera, e quando mi sentii abbastanza sveglio, ordinai al mio gondoliere di portarmi nell’oceano, così da poter nuotare tra quelle onde, udire e vedere null’altro a parte l’acqua intorno a me.
Navigammo in quella babele di costruzioni, negozi, chiese, casino, palazzi, che nascevano direttamente dai canali, apparentemente senza fondamenta. Nessuna banchina, nessun terrazzo, neppure un lastrone riuscii a vedere davanti alle porte; con un solo passo uscivo dalla sala e salivo sulla barca, perfino i vestiboli degli edifici più superbi si aprivano sull’acqua, appena al di sopra del suo livello. Osservai che molte case erano sostenute da colonne ben proporzionate, splendidamente ornate, oltre le quali l’occhio poteva scorgere una grande corte e talvolta un giardino. In mezz’ora circa, ci eravamo lasciati alle spalle la coltre più densa di isole, e, costeggiando Piazza San Marco dal lato opposto a San Giorgio Maggiore, il cui raffinato frontespizio si rifletteva nitidamente su quel mare tranquillo, ci lanciammo nella distesa azzurra, dalla quale sorgevano la Cartusiana e altre due o tre isole boscose. Salutai con deferenza il luogo dove passai la mia sera visionaria e feci un cenno ai miei amici pini.
Pochi minuti dopo mi ritrovai su una spiaggia squallida e cotta dal sole, sulla quale camminavano impettiti alcuni soldati Slavi, di stanza nel castello vicino, soliti frequentare una brutta chiesa non finita, grazie alla quale speran di arrivare al cielo, visto che l’aria delle loro baracche è abominevole e li uccide come pecore.
Mi spiegarono che quella spiaggia, ai miei occhi desolata, è il palcoscenico deputato alla festa dell’Ascensione; e soprattutto il luogo verso cui il Doge naviga sul Bucintoro, prima di
sposare il mare. Hai ascoltato a sufficienza dell’argomento, e non mi dilungherò di più nelle spiegazioni di questo spettacolo. Ti dico solo che sono stato obbligato a seguire, in parte, lo stesso tragitto della processione, per poter raggiungere la riva, e mi ritrovai bollito
e completamente arrostito dal sole.
Alla fine, dopo aver attraversato alcune collinette deserte, in mezzo a rospi e locuste (sulle quali alcuni eretici Inglesi hanno l’onore di essere sepolti), passai sotto ad un arco, e all’improvviso la sconfinata pianura dell’oceano si aprì alla mia vista. Corsi verso le spiagge levigate, che si estendevano da ogni parte, e mi precipitai nell’acqua, il cui moto incessante e gentile si infrangeva delicatamente sul lido. La marea mi cullava, mi tenevo a galla, mi facevo trasportare dalla corrente. Mi avrebbe potuto portare ovunque senza che me ne accorgessi, dal momento che mi ero abbandonato completamente all’illusione del momento. Le mie orecchie erano piene di incerti e mormoranti suoni; le mie membra, languidamente stiracchiate dai flutti, seguivan il moto ondoso. In questo stato d’animo passivo rimasi fino a che il sole non divenne meno intollerabile, e le barche dei pescatori non cominciarono a tornare verso casa.
Mi affrettai sul deserto di locuste e mi buttai sulla gondola; venni trasportato, sfruttando il vento favorevole, velocemente verso quelle venerabili colonne, così bene in vista nella Piazza San Marco.
Diressi la mia rotta verso il palazzo ducale, entrai nella grande corte, salii la scalinata dei
giganti, ed esaminai con calma i suoi bassorilievi. Poi, presa la prima guida turistica che mi si presentò davanti, visitai i molti porticati e corridoi, sostenuti da innumerevoli pilastri, all’interno dell’edificio statale, che Tintoretto e Paolo Veronese avevano ricoperto dei trionfi della loro nazione.
Un sciame di avvocati riempì la Sala del Maggior Consiglio, mentre uno dei più famosi oratori patrocinava con tutta la sua potenza, davanti alla solenne schiera dei senatori. Gl’occhi e le orecchie dell’assemblea sembravano commossi. Nuvole di cipria e raffiche di imprecazioni si sollevavano ad ogni attimo dagli astanti, così io proseguii la mia strada; fui
condotto in tutte le stanze, ammirai tutti i quadri, in totale abbandono. Nonostante fossi stanco mi comportai con decenza, e continuai la visita di quei capolavori che avevo sempre
avuto il desiderio di contemplare.
Alla fine, raggiunsi le colonnate dell’ingresso, afferrai la brezza marina che proveniva da San Giorgio Maggiore e spirava attraverso i portici. Le pareti erano ricoperte in molti punti di volti arcigni scolpiti nel marmo, con le bocche spalancate in atto d’accusa, pronte a inghiottire ogni bugia che la malizia e la vendetta sono in grado di dettare. Desiderai vedere anche delle orecchie dello stesso tipo, nella residenza del Doge, a cui probabilmente tutti si rivolgevano, così da poter cogliere i loro racconti, anche i più brevi dialoghi tra i tre Inquisitori, o un dibattito del Concilio dei Dieci.
Questo è il tribunale che tiene la nobiltà in pugno; davanti ad esso l’aristocrazia appare tremante e terrorizzata; nessuno osa disobbedire alle sue sentenze. Talvolta, in un moto di clemenza, condanna le sue vittime alla prigionia perenne, in strette celle soffocanti, tra i piombi e le travi del palazzo; o, non volendo spillare sangue, li sbatte nelle galere sotto al livello dei canali che bagnano le sue fondamenta; in questo modo, sia sotto che sopra, la sua maestà è contaminata dalle residenze del castigo. Quale sovrano può sopportare l’idea di dimorare in un luogo inquinato dalle lacrime? Come può sopportare l’idea di gozzovigliare nelle sale, con in mente il pensiero che tanti della sua stessa specie stanno consumando le loro ore tra pene atroci, appena sopra le loro teste, a così lieve distanza? Per quanto ben disposto, potrebbe mai danzare sopra un pavimento, sotto al quale riposano umide e tetre grotte, i cui abitanti marciscono tra i dolori e sopravvivono una vita di agonie? Impressionato da queste terribili immagini, non potei guardare questo palazzo senza orrore, e desiderai di avere la forza di migliaia di uomini per poter scardinare quei segreti recessi e far entrare un po’ di aria fresca e di luce solare al loro interno.
Dopo aver espresso la mia indignazione, riparai presso la statua di Nettuno, alla quale vent’anni fa avrei dovuto invocare la mia seconda impresa. Ci fu un tempo in cui un dio poteva distruggere le città. La sua esecuzione fu notissima nell’antichità, e i più fieri monarchi disapprovarono l’ira di Poseidone. Ma, come gli altri potenti dell’antichità, il suo regno è passato e il suo tridente dimenticato.
Anticamente tutti gli spiriti selvaggi trovavano favore agli occhi della fortuna, e venivano condotti attraverso una carriera di gloria con la liberazione di prigionieri e uccisione di mostri; invece, ai nostri degenerati tempi, questa comoda strada verso la fama non è più aperta, e tutto è divenuto davvero difficile.
Abbandonati i tristi inquilini dei Piombi al loro destino, tornai sulla mia imbarcazione, che mi accompagnò in un canale oscurato dalle superbe mura del palazzo. Sotto queste fatali acque vi sono le prigioni di cui ho parlato sinora. Laggiù gli infelici giacciono ascoltando il suono dei remi, e contando tutti i passaggi di tutte le gondole. Sopra, un ponte marmoreo, dall’architettura audace e maestosa, unisce la parte alta delle galere alle gallerie segrete del palazzo; su di esso transitano i criminali verso una morte crudele e misteriosa. Rabbrividii quando vi passai sotto; e credetemi quando dico che non a caso questa struttura si chiama PONTE DEI SOSPIRI.
Orrori e fosche prospettive infestarono la mia mente mentre tornavo nel mio alloggio. Non riuscii a cenare in pace, la mia immaginazione era scossa; tuttavia afferrai la mia matita e disegnai abissi e conche sotterranee, domini della paura e della tortura, catene, cavalletti, ruote, e altri spaventosi arnesi, nello stile di Piranesi. Al tramonto mi rinfrescai con l’aria della sera ed il piacevole paesaggio dei Fondamenti nuovi, una calata o terrazzo di marmo bianco, che domina da San Michele a Torcello, e “che sorge e luccica sull’acqua”.
Nulla può essere più originale delle schiere di torri e cupole che li compongono, mischiate con tetti piatti e edifici bassi, e qua e là un pino o un cipresso. In lontananza, una piccola isola boscosa, chiamata Il Deserto, si eleva dall’oceano e diversifica la sua distesa.
Dopo aver trascorso una incantevole mezz’ora ad ammirare le lontane isolette, M. de Benincasa mi accompagnò ai Mendicanti, uno dei quattro conservatori, che forniscono la
migliore preparazione musicale a quasi un centinaio di giovani donne. Puoi immaginare quanto ammirevole possa essere l’insegnamento a loro impartito, dal momento che la fondazione è patrocinata da Bertoni, che soffia intorno a lui l’anima vera dell’armonia. La cappella nella quale ci sedemmo per ascoltare l’oratorio era scura e solenne; un reticolo di nobili colonne, di marmo nero e levigato, rifletteva le luci delle lampade che bruciano in perpetuo davanti all’altare. Ogni palco era affollato di gente, il cui profondo silenzio dimostrava che erano degni auditori della musica del maestro. Non vi erano donne ciarlanti, lamentosi Metodisti, che invece infestano i nostri tabernacoli Inglesi, e spaventano le orecchie di tutti con le loro tossi rauche ed il naso obbligato.
Tutti erano silenti e attenti, e assorbivano le meste note delle voci con ardore; e davvero non sembrava che i dolori di Davide, soggetto della rappresentazione, fossero vissuti. Rimasi seduto in disparte entrando in affinità con le altre persone. Arrivò la notte prima che l’ultimo coro venisse cantato ed io ero ancora assorto.
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