LETTERA VI.
Isole di Burano, Torcello e Mazorbo – L’un tempo popolosa
città di Altina – Un’escursione –
Effetti della nostra musica
sugli abitanti delle Isole – Campi solitari infestati da
serpenti – Rovine di antica scultura – Gl’antichi e
fantastici ornamenti della Cattedrale di Torcello – La Sedia
di San Lorenzo – Cena in un Convento – Le Suore – Oratorio di
Sisera – Osservazioni sulla musica – Canto di Marchetti -
Orchestra femminile
Sono appena tornato dalla mia visita alle isole di Burano, Torcello e Mazorbo, lontane circa cinque miglia da Venezia. In questi luoghi anfibi si rifugiarono i Romani, gli antichi abitanti della Lombardia orientale, che fuggivano dall’invasione di Attila; se dobbiamo credere a Cassiodoro, ci fu un tempo in cui tali luoghi avevano un bell’aspetto. Oltre queste isole sorgeva la città di Altina, un tempo molto popolosa, con le sue sei nobili porte, che menziona Dandolo. Questo quartiere era disseminato da ville e templi, che formavano tutti insieme un panorama che Marziale paragonò a Baiae: “Aemula Baianis Altini littora villis”.
Purtroppo questa splendida veduta, come molte altre, oggi non c’è più, e nulla rimane, eccetto cumuli di pietre e frammenti quasi distrutti, a testimoniare la sua antica magnificenza. Due delle isole, Costanziaco e Amiano, che si ritiene abbiano ospitato i giardini ed i pergolati degli Altiniani, sono affondate nel mare; i resti di ciò che rimane sono emergono a stento in superficie.
Sebbene vedessi che sulla terraferma non c’era quasi niente da vedere, non mi negai il piacere immaginario di camminare su un angolo della terra così adornato e coltivato; e di camminare sui tetti, forse, di palazzi mai scoperti. M. de R., a cui comunicai i miei sogni, entrò anch’egli dentro al progetto; affittammo una peiotte, prendemmo dei viveri e degli
strumenti (entrambi necessari alla vita) e ci lanciammo nel canale tra San Michele e Murano. I nostri strumenti musicali suonarono molte bellissime melodie, che richiamarono gli abitanti di ogni isola, facendoli restare in silenzio, come incantati, sulle loro terrazze e sui loro moli.
Lasciata indietro Murano, Venezia ed il suo mondo di torri cominciò ad affondare nell’orizzonte, e le isole deserte oltre a Mazorbo iniziarono a comparire davanti a noi. Ora
ammiravamo grandi distese di fiori purpurei, e potevamo distinguere il sommesso ronzio degli insetti che volteggiavano sopra di essi; tale era la tranquillità di quel luogo. Costeggiando questi campi solitari, attraversammo molti canali serpeggianti, circondati da giardini di fichi e melograni, tra canneti e giunchi, che si è soliti identificare con il nome di incenso marino, piante aromatiche che nascono sulle sponde dell’acqua. Questa pianta ci fu utilissima nel sottomettere un odore di muschio che ci attaccò nel momento in cui attraccammo, e che proviene dai serpenti nascosti tra le erbe. Questi animali, dicon i gondolieri, difendono gli immensi tesori che sono sepolti sotto le rovine. Sventura coglie colui che invade i loro territori, o tenta anche solo di entrarvi. Non avendo granchè voglia di essere divorati, lasciammo con piacere numerosi resti antichi non visitati, e ci affrettammo verso un praticello, delimitato da un lato da una misera capanna, decorata con il nome di residenza del Podestà, e dall’altro lato da una chiesa a pianta circolare. Alcuni resti di decenti antiche sculture sono racchiuse tra queste mura; e la cupola, sostenuta da colonne di marmo Grego levigato, sebbene sgraziata e mal progettata, induce una sorta di venerazione, e ci conduce con la fantasia nell’epoca d’oro in cui fu costruita.
Dopo aver esaminato tutto ciò che era visibile, e dopo aver dato via libera a tutta l’immaginazione che quella scena ci ispirava, procedemmo sopra un terreno composto da mattoni sbriciolati all’interno della cattedrale; i suoi archi di stile Romano classico ci convinsero che questa risalisse al sesto o settimo secolo.
Nulla può essere più splendido degli ornamenti di questa struttura, formata dalle rovine dei templi pagani di Altina, e decorata con un mosaico dorato, simile a quello che ricopre la tomba del nostro Edoardo il Confessore. Il pavimento, composto da numerosi marmi preziosi, è più ricco e più bello di quanto mi sarei mai aspettato in quel luogo dove ogni altro oggetto ha il sapore della barbarie più rozza. Dietro all’altare, ecco una nicchia semicircolare, che troneggia come i gradini di un piccolo anfiteatro; sopra di essa ecco le forme bizzarre degli apostoli, vestiti di rosso, blu, verde e nero, e nel mezzo del gruppo una sorta di sedia di marmo, dall’aspetto gelido e penitenziale, dove San Lorenzo Giustiniani sedeva per tenere il suo concilio, Signore di un’epoca lontana! La fonte battesimale si trova accanto all’ingresso principale, di fronte a questo strano recesso, e sembra essere appartenuta a qualche luogo di venerazione dei Gentili.
Le figure di demoni cornuti che si avvinghiano ai suoi lati, sono le cose più diaboliche e più
Egiziane che abbia mai veduto. I dragoni dell’antica Cina non sono più eccentrici; riempita di sangue di pipistrello sarebbe stata un mirabile presente per i sabba delle streghe, e avrebbe fatto un figurone durante le loro orge. La scultura non è molto raffinata, ma non posso giudicarla al meglio, visto che il luogo dove sorgeva era poco illuminato: invero, l’intera chiesa era poco illuminata, dotata di finestre strette e vicine al tetto e di imposte formate da blocchi di marmo: nulla, eccetto le trombe d’aria del giorno del giudizio, sarebbe passate da quei cardini.
Mentre ispezionavamo ed analizzavamo ogni singolo angolo di questo singolare edificio, e tentavamo di pregare seduti sulla sedia di San Lorenzo, nel vicino convento si stava preparando la cena, e le suore, attratte dal suono dei nostri flauti e dei nostri oboi, fecero capolino dalle loro celle e si fecero vedere attraverso la grata. Visi poco simpatici e sguardi interessati movimentarono l’oscura sorellanza; ogni cosa sembrava acquistare un bagliore di felicità dalla musica; due o tre di loro, probabilmente le ultime ad essere state rinchiuse, lasciarono cadere una lacrima, e soffrirono nel ricordare il mondo che avevano abbandonato.
Rimanemmo finchè il sole calò, proprio per far sì che tutte potessero ascoltare quell’armonia che le faceva sentire bene, ed anche la vecchia badessa si mostrò dalla grata del paradiso socchiuso. Migliaia di benedizioni consacrarono la nostra partenza; il crepuscolo giunse nello stesso momento in cui salimmo sulla barca e prendemmo il mare, agitato da una brezza fresca: non temevamo nulla, perché eravamo sotto la protezione di Santa Margherita.
Dopo due ore attraccammo ai Fondamenti nuovi, e subito andammo dai Mendicanti, dove questi stavano esibendosi nell’oratorio di Sisera. Il compositore, un giovane, aveva dimostrato grande passione ed originalità nella sua rappresentazione, ed una conoscenza della natura raramente ritrovabile nei maestri più celebrati. La supplica dell’assetato condottiero, le arti persuasive e la pia perfidia di Jael, furono mirabilmente espresse; ma l’agitazione ed i sonni premonitori che precedettero la sua morte, erano immaginati con il più alto sforzo di genio. Il terrore e l’agonia dei suoi sogni mi fecero sobbalzare sulla sedia; tutti gli orrori del suo assassinio sembravano palesarsi concretamente di fronte a me.
Troppi appalusi devono essere fatti a Marchetti, che cantò la parte di Sisera, e assecondò le idee del compositore con la più struggente e vigorosa esecuzione. Ci sono poche cose che
rimpiangerò di più quando lascerò Venezia, di questo conservatorio. Ogni volta che posso, mi immergo nella musica, e ricordo i finali più emozionanti delle opere di Paesiello, e sempre mi ridanno vivo turbamento.
La vista dell’orchestra mi fa sempre ridere. Tu saprai, io credo, che è composta interamente da donne, e che nulla è più comune di vedere una candida mano delicata che
si diletta con un enorme doppio basso, o un paio di guance rosate che soffiano, con grande sforzo, un corno francese. Quelle più vecchie ed imponenti, che hanno abbandonato le loro delicatezze ed i loro amanti, suonano vigorosamente il timpano; mentre una povera signora zoppa, che era stata un tempo innamorata, ora fa la sua bella figura al fagotto.
Buona notte! Sono abbastanza esausto perché ho composto un canto per il tuo angelico. Te lo invio. La musica richiede troppo tempo. Un giorno o l’altro, forse, noi potremo sentirlo in qualche oscuro bosco, quando la luna si è eclissata e la natura è in allarme.
Questa non sarebbe l’ultima lettera che riceveresti da Venezia, se non fossi costretto a correre a Lucca, dove la settimana prossima Pacchierotti canterà il Quinto Fabio di Bertoni.
LETTERA II.
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