Spesso si considera Odoacre, il primo effettivo re d’Italia, come un sovrano di poco conto, un mero passaggio tra il piccolo Romolo Augustolo e il regno ostrogoto. In realtà il dominio del sovrano erulo fu decisivo per tre ragioni.
Primo, consentì agli ultimi amministratori di stirpe romana di mantenere il controllo sull’Italia. Secondo, la Chiesa romana mosse i primi passi per divenire il primo referente politico della penisola. Terzo, e più importante, escluse definitivamente i Bizantini dal dominio dell’Italia (forse, senza Odoacre, oggi parleremmo greco). Andiamo dunque a conoscere Odoacre, il primo re d’Italia.
ODOACRE
Non sappiamo esattamente quanti anni avesse Odoacre nel 476 d.C. quando depose Romolo Augustolo. Si suppone che nacque intorno al 433 in una nazione germanica, che come abbiamo imparato è una definizione assolutamente generica, in quanto può indicare un’ascendenza gota, erula o unna, indifferentemente. Sembra prevalere l’ipotesi che si tratti del figlio di Edicone, un principe della popolazione degli Sciri, che calarono nell’Occidente romano insieme agli Eruli e ai Rugi.
E’certo che, seppur di origine nobile, fece del suo meglio per mettersi in mostra di fronte a Ricimero: nel 472 era membro della guardia imperiale, nel 473 fu comes domesticorum di Glicerio e nell’anno successivo era annoverato tra gli ufficiali più influenti dell’esercito. Probabilmente fu un uomo di grande abilità diplomatica, oltre che dotato di eccellente intelligenza, inusuale tra i soldati della sua epoca. Aveva altresì il polso della situazione. Nel 476 molta parte dell’Italia non era coltivata o era rimasta incolta dopo le gravi incursioni barbariche dei secoli precedenti. Capì che il suo popolo (Eruli, Rugi e Sciri) più che di soldi aveva bisogno di cibo. Chiese dunque delle terre da coltivare ad Oreste, quale compenso per il loro servizio militare, precisamente un terzo di quelle italiche. Oreste, dal canto suo, non aveva minimamente idea di come si potesse governare quell’Impero che gli era caduto dal cielo, e l’intellighenzia romana non lo volle naturalmente aiutare.
Odoacre, dopo un ultimatum e dopo aver arruolato anche truppe mercenarie non facenti parte del suo ceppo etnico, decise di attaccare Oreste, il quale si asserragliò a Pavia lasciando il fratello Paolo a Ravenna. Il principe degli Eruli prima si accertò dell’opinione negativa da parte del Senato romano e della corte ravennate riguardo a Oreste e poi cinse d’assedio la città lombarda. Poteva contare su un numero soverchiante di truppe a lui fedeli e affamate di terra.
Pavia fu presa in pochissimi giorni, Oreste trasportato a Piacenza e ucciso senza pietà. Stessa sorte toccò a Paolo. Il piccolo Romolo Augostolo, invece, stando al racconto degli Annales Valesiani, ebbe salva la vita “per compassione della sua infanzia e perché era un bel bimbo” e spedito in Campania, in una villa appartenente al nobile Lucullo, con un ricco sussidio di seimila soldi. Anche questa fu una mossa molto furba: non dobbiamo escludere che tra i suoi consiglieri vi fosse qualche romano cristiano con idee ben chiare sul da farsi per accaparrarsi la benevolenza dei maggiori poteri dell’epoca (Chiesa romana, Senato, corte ravennate, imperatore d’Oriente). Salvare la vita ad un bambino innocente, in più fornendogli di che vivere, fu indubbiamente un gesto calcolato e non certo dettato da pietas cristiana.
Che sia stata o meno farina del suo sacco questa decisione, Odoacre vide accrescere la sua popolarità anche tra gli ottimati. Fu proprio per questo appoggio pressochè incondizionato delle grandi potenze italiche che potè permettersi un gesto rivoluzionario: non nominò alcun imperatore fantoccio, restituì le insegne imperiali a Zenone e chiese per sé il titolo di patrizio. Nel frattempo i suoi soldati, molto meno calcolatori di lui, non ebbero dubbi nell’acclamarlo rex Italiae.
IL REGNO DEGLI ERULI
Sessant’anni prima, quando per la prima volta Roma conobbe l’onta del saccheggio, San Gerolamo urlò il suo dolore all’umanità: “poiché Roma, splendido lume del mondo, fu spento; poiché fu recisa la testa dell’impero, e tutto il mondo morì insieme a Roma, io rimasi senza parole, e mi inginocchiai davanti a Dio”.
Nel 476 dopo Cristo nessuno innalzò canti all’Impero morente: forse perché nessuno credette che stesse morendo davvero? Forse perché molti pensarono che fosse solo un passaggio di consegne? L’apatia più generale regolò questa nuova fase dell’umanità, della quale neppure Zenone riuscì a percepire l’importanza. L’imperatore di Costantinopoli rimase nell’ambiguità: non definì mai Odoacre pubblicamente patricius, ma solo in lettere private, lasciando in questo modo aperte le più fantasiose interpretazioni.
Più semplicemente riteniamo che Zenone avesse di meglio da fare che non occuparsi delle beghe dell’Italia, che ormai era al centro di un’Europa dominata dai regni romano-barbarici. Anch’essa era destinata a far parte di un regno romano-barbarico: bisognava solo capire quale.
Odoacre, in cerca di un compromesso ma non di una legittimazione, rimandò dunque le insegne a Costantinopoli, attraverso un’ambasciata del Senato romano che non venne sollecitato da lui, bensì da Romolo Augustolo. In questo modo si presentava quel gesto come l’effettiva rinuncia in via ufficiale del legittimo erede al trono alle insegne imperiali per il tramite dell’organo più importante dell’Italia in quel momento, appunto il Senato. Il ragazzo, prigioniero nella sua villa luculliana, abdicando, aggiunse che “non v’è più la necessità, e nemmeno il desiderio, di continuare la successione imperiale in Italia, poichè è sufficiente la maestà di un solo monarca a difendere contemporaneamente l’Oriente e l’Occidente”.
Insieme ai messi del Senato romano, di fronte a Zenone si presentarono anche dei delegati di Odoacre stesso, che avanzarono l’unica richiesta: il titolo di patrizio, che, abbiamo visto, non gli venne però mai concesso in via ufficiale.
Sta di fatto che il regno di Odoacre potè contare immediatamente sul gotha dei funzionari romani dell’epoca: Liberio, Pelagio, Cassiodoro senior, Simmaco, Basilio. Dal punto di vista militare, naturalmente, il potere era tenuto dai soldati, che per la stragrande maggioranza erano barbari. Questa connivenza romana-barbara portò ad un periodo di stabilità che l’Italia non conosceva da almeno mezzo secolo. Probabilmente le istituzioni romane, non avendo subito alcuna modifica, continuarono senza particolari scossoni la loro attività amministrativa, e la “macchina burocratica” non si arrestò mai. Questo fu il principale merito del sovrano erulo, il quale non aveva altro da chiedere se non la tranquillità interna.
Il Senato ritornò ad essere centrale nella vita dell’Italia: per la prima volta dal III secolo vennero emesse delle monete con la scritta SC (Senatus Consulto) sul retro. Prese il controllo della Dalmazia uccidendo Ovida (l’assassino di Giulio Nepote). Mantenne rapporti privilegiati con la Chiesa cattolica, soprattutto con Epifanio di Pavia.
Secondo la moderna storiografia, Odoacre non è solo un conquistatore, un capo barbaro che assurge al trono imperiale (sua sponte, anche se con il beneplacito del superiore d’Oriente) trascinando un gruppo di Eruli alla conquista dell’Italia. L’etnia erula, infatti, era già ampiamente inserita nel tessuto sociale romano: come quasi tutte le etnie germaniche, del resto. All’interno della Chiesa si contavano già molti ecclesiastici di origine barbarica, di solito svolgenti attività manuali inerenti l’agricoltura o l’allevamento. Certamente, le cariche più importanti venivano tenute da romani di origine e di dinastia, già acculturati e pronti a rivestire le funzioni di intermediari tra il potere temporale e quello “divino”. Ma altrettanto certamente in quelle piccole comunità quasi del tutto estranee al vivere sociale dell’epoca, si cominciarono ad inserire anche persone di etnie diversissime.
Discorso molto differente per quanto riguarda la macchina amministrativa-governativa dell’Impero. Qui, a differenza della Chiesa, era davvero difficile entrarvi a far parte. Le cariche pubbliche venivano tramandate di padre in figlio, dinasticamente. Anche per le funzioni meno “nobili” e puramente burocratiche non vi era praticamente ricambio generazionale. Da almeno tre secoli Roma e le sue città si dibattevano in una stagnazione quasi assoluta causata dal nepotismo. Dunque, per i barbari le possibilità di inserirsi nella vita amministrativa romana erano quasi pari a zero. Di conseguenza, non ebbero mai la chance di elevare la loro condizione sociale: soldati erano e soldati rimanevano, anche i figli, anche i nipoti. Non dubitiamo che moltissimi di loro fossero ben contenti di svolgere l’attività militare: anzi, la consideravano molto più nobile di quella meramente gestionale. E, in periodi turbolenti come quello dell’epoca di cui stiamo narrando, senz’altro più utile e con diversi “sbocchi lavorativi”. Eppure, bisogna anche considerare che entrando a far parte di quella macchina burocratica i barbari avrebbero potuto diventare qualcosa di più che conquistatori. Gli Eruli prima, gli Ostrogoti poi, non riuscirono a consolidare la loro conquista proprio perché le redini del potere di tutti i giorni le tenevano i Romani.
L’organizzazione amministrativa romana prevedeva diverse istituzioni pubbliche, le quali, sempre, prendevano ordini dal potere centrale (un tempo a Roma, ora sparso nelle varie capitali). Il Senato Romano rimaneva, almeno formalmente, l’autorità maggiore dopo l’Imperatore. Nel periodo imperiale accentrò in sé i tre poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. Tuttavia, rimaneva quasi sempre sotto ai piedi dell’Imperatore, il quale, essendo appoggiato (soprattutto a partire dal III secolo) dall’esercito, aveva un’influenza irresistibile. Gradualmente il Senato passò per essere un organo di ratifica delle decisioni imperiali, ma conservò comunque sempre il rispetto che gli era dovuto. Le altre cariche, come i consoli ed i prefetti, subirono una sorte simile, conservando poteri limitatissimi a basse funzioni amministrative.
Come detto, l’apparato centrale era il vero motore dell’amministrazione romana. Di conseguenza, nel Tardo Impero, furono proprio le istituzioni periferiche a morire per prime. Nel periodo di massimo splendore, ogni città importante aveva il proprio organo consultivo (che spesso veniva chiamato Senato) e i propri magistrati (tra cui i famosi prefecti urbi). Le varie comunità romane trovavano la loro autonomia proprio in queste cariche minori, che a partire dal III secolo cominciarono a scomparire.
Riassumendo, sarebbe sbagliato pensare ad un Regno Erulo senza alcuna autorità, in preda al caos e al non-governo. Il Senato rimase l’organo amministrativo per eccellenza, così come i vari prefetti, anche se dipendente e timoroso della nomenclatura al potere. Timidamente, mandava avanti la macchina statale. Faticosamente, si tentava di collegare ancora i centri più lontani da Ravenna, da Roma, da Milano. E, anche se con grosse difficoltà, si riuscì a conservare molto della “romanità” antecedente alla conquista di Odoacre.
Facilmente comprensibile che, per mantenere la migliore connessione tra centri di potere e periferie, gli amministratori si servissero di uomini di cui si potevano fidare. Ed essendo, come sopraddetto, tali amministratori pubblici tutti di etnia romana, era naturale che si affidassero ad altri della stessa etnia e, soprattutto, della stessa estrazione sociale. Per questo i barbari, pur formalmente padroni della nazione, non riuscirono ad inserirsi negli ingranaggi della cosa pubblica.
Troveremo un popolo che riuscirà a penetrarne gl’ingranaggi. Ma non vogliamo anticipare. Torniamo dunque ad Odoacre che, all’alba del 1°gennaio del 488, guardava dal suo trono a Ravenna una nazione pacificata e soggiogata.
LE MOSSE DI ZENONE
I primi dodici anni di regno erulo furono guardati da Zenone come un osservatore esterno. Sapeva che occuparsi dell’Italia avrebbe voluto dire mandare un esercito al macello. Era consapevole che un’eventuale riconquista dell’ultima parte di Occidente avrebbe potuto tramutarsi in un bagno di sangue dal punto di vista economico. Senza, peraltro, avere la certezza di conservare il potere per un periodo di tempo significativo. I dispacci che arrivavano a Costantinopoli dalle province germaniche, galle e britanniche, parlavano di zone in perenne guerra dove i diversi popoli combattevano tra loro senza riconoscere vincitori, vinti né dominatori.
Dal momento che Zenone si considerava l’unico, vero, dominatore del mondo, non gli sembrò il caso di consumare l’esercito orientale in innumerevoli battaglie contro quelli che, d’altra parte, proprio i suoi sudditi ritenevano dei selvaggi. Si limitò dunque ad accettare passivamente Odoacre.
Ma prima di proseguire con la nostra narrazione è quanto mai opportuno conoscere chi, in quel momento, sedeva sul trono di Costantinopoli.
Zenone nacque nella provincia orientale dell’Isauria, una regione montagnosa da sempre infestata da briganti (gli Isauri), nella parte meridionale dell’odierna Turchia, fronteggiante l’isola di Cipro. Fin dai primi insediamenti romani, questa popolazione creò i suoi bravi grattacapi agli invasori. Le province limitrofe della Cilicia e della Panfilia furono quelle che più di tutte fecero le spese di questi turbolenti vicini di casa. I quali erano selvaggi (come i Germani del II secolo d.C.), ma anche ferocissimi guerrieri. Così, quando l’esercito romano consolidò le conquiste nel Vicino Oriente, assunse nel suo esercito molti di questi Isauri, che divennero, nel tempo, il vero zoccolo duro delle legioni d’Oriente. Come per gli Illirici d’Occidente, i soldati isaurici crearono una vera e propria “mafia” militare, in cui i vertici sceglievano uomini della loro stessa razza per fare carriera, proteggendosi e sostenendosi a vicenda.
Perfettamente integrati nell’elite dell’esercito, non erano invece accettati dalla popolazione bizantina e soprattutto dalla nobiltà dinastica della capitale. Venivano considerati non dei veri e propri “barbari”, ma semplicemente dei picchiatori a cui tributare il soldo dovuto. Le poche gratificazioni istituzionali furono più che altro dei “contentini” per i beneficiari e la loro pletora di guardie, lacchè, familiari. In realtà, pur ricoprendo talvolta incarichi prestigiosi, non furono mai partecipativi in attività extra-militari.
Intorno al 462, Zenone (nato Tarasikodissa, patronimico che indica il nome di suo padre, Kodisa) venne chiamato a Costantinopoli per ricoprire un’alta carica militare (il grado non ci è noto), probabilmente “raccomandato” da un altro Zenone, anch’egli di origine isaurica, che nel 447 aveva combattuto contro gli Unni di Attila ed era anche stato nominato console. Non doveva essere un semplice soldataccio, perché ebbe l’accortezza d’inserirsi negli ambienti giusti e di prendere una moglie, Arcadia, di nobile famiglia. Questa relazione, e la successiva nascita d’un figlio (sempre chiamato Zenone), lo resero sempre più integrato all’interno della corte imperiale.
Non era un periodo facile. Leone il Trace, burattino di Aspar, il potentissimo magister militum di origine germanica, cospirava alle spalle di quest’ultimo per rendersi indipendente nel potere. La nobiltà bizantina mal sopportava le ingerenze sempre più frequenti dei soldati provenienti dalla Germania, e con il decisivo contributo della componente isaurica (Zenone in primis) Leone riuscì a isolare il magister.
Aspar era considerato l’astro nascente della nobiltà bizantina. Il padre, l’alano Ardaburio, non avrebbe mai potuto aspirare al trono d’Oriente perché barbaro. Il figlio, invece, rappresentava un pericolo perché era bizantino a tutti gli effetti. Ancora più paura infondeva il pargolo di Aspar, Ardabur, vero erede in pectore al trono di Leone alla morte di quest’ultimo.
La corte bizantina, da sempre fieramente avversa agli occidentali, barbari e ariani, doveva sostenere per forza un candidato forte: Zenone. L’occasione arrivò quando morì la moglie Arcadia. Leone gli concesse in sposa la propria figlia primogenita, Ariadne, a lungo desiderata anche dall’altro figlio di Aspar, Giulio Patrizio. La coppia ebbe subito un figlio, cui venne assegnato il nome di Leone per far capire senza mezzi termini chi sarebbe stato l’erede al trono.
I contrasti con la componente germanica culminarono con un tentativo di rapimento cui fu vittima lo stesso Zenone (ormai ex Tarasikodissa), ormai ampiamente numero due dell’Impero Bizantino dopo aver ricoperto le cariche di magister militum per Thracia e magister militum per Orientem. Vano fu il tentativo di Aspar di mettere al sicuro la discendenza facendo sposare Giulio Patrizio alla figlia minore di Leone, Leonzia. Visto il pericolo reale di un imperatore d’origine germanica, la popolazione della capitale si aizzò contro Leone il Trace, guidata dalla parte di clero più aspramente avversa all’Arianesimo, i Nestoriani. La rivolta non assunse proporzioni preoccupanti solo perché arrivo immediatamente la notizia dell’assassinio d Aspar e dei suoi figli. Subito dopo gli omicidi Zenone venne nominato magister militum prasentialis, culminando così il suo cursus honorum.
L’ascesa al trono avvenne dopo la morte di Leone il Trace e poi del giovane Leone II, nel novembre del 474. Zenone era stato nominato in precedenza co-imperatore sino alla maturità del bambino, e quindi la corona ora passò sulla sua testa.
Impareremo presto che nell’Impero Bizantino non si dormiva bene se non era in atto qualche congiura. Zenone ne fece le spese dopo appena due mesi di regno. Nel gennaio del 475 dovette fuggire dalla capitale perché ebbe il sentore, rivelatosi esatto, di una congiura contro di lui, ordita da Basilisco, fratello di Verina, vedova di Leone il Trace, e sostenuta anche dagli isaurici Illo e Trocundo, oltre che da Teodorico Strabone (un generale ostrogoto di cui sentiremo ancora parlare).
Zenone riuscì a fuggire portandosi dietro un bel po’ del tesoro imperiale e rifugiandosi nel castello di Sbide, in Cilicia. Nel frattempo, nella capitale, la combriccola di rivoltosi cominciava ad assaggiare il potere e le sue conseguenti congiure. Basilisco avrebbe dovuto cedere il trono a Patrizio, amante di Verina e inetto magister officiorum, e, probabilmente, saldare molti debiti con gli Isaurici Illo e Trocundo. Non fece nessuna delle due cose. Prima mise a morte Patrizio e poi scatenò una rivolta contro i soldati isaurici di stanza nella capitale. Non sappiamo quale progetto (se ce n’era uno) stava conducendo Basilisco, ma certamente le sue mosse si rivelarono tutte sbagliate.
Proseguì intestandosi a favorire la corrente monofisita preferendo quella canonica calcedoniana (la religione era tenuta in altissimo conto in quel di Costantinopoli), continuò preferendo il nipote Armazio alla carica di magister militum al posto di Teodorico Strabone e terminò introducendo nuove aspre tasse (qui a dire il vero fu costretto, dal momento che Zenone era fuggito portando con sé una cospicua parte del forziere di corte).
Illo, che stava assediando il castello di Sbide, comunicò all’ex-amico che sarebbe divenuto di nuovo suo amico e alleato, bastava buttare giù dal trono quel flagello di Basilisco. Zenone accettò l’offerta, riuscì a corrompere anche Armazio (promettendo che avrebbe mantenuto il titolo di magister militum), mandò un’ambasciata al Senato della capitale per chiedere di nuovo la corona, cosa che ottenne immediatamente. L’usurpatore venne spedito in esilio in Cappadocia e rinchiuso dentro un silo dove morì di fame insieme alla sua famiglia.
Il novello imperatore mantenne la promessa di lasciare ad Armazio la carica di magister militum praeseantialis. Peccato che dopo un annetto, nel 477, Zenone cambiò idea: gli tolse l’incarico di punto in bianco, lo fece giustiziare e gli confiscò le proprietà.
Non fu l’unica rivolta-cospirazione che dovette superare. Nel 479 fu la volta di Marciano e Teodorico Strabone tentare la scalata al trono. Zenone si rifugiò nel palazzo reale e fu solo grazie a Illo (il quale fu in grado di corrompere i più “eminenti” tra i rivoltosi) che riuscì a salvarsi.
Ci siamo dilungati a descrivere la vicenda imperiale di Zenone perché riassume in sé moltissimi degli elementi che troveremo (anche se, per la nostra storia, solo di riflesso) nell’Impero Romano d’Occidente dell’Alto Medioevo. Congiure di palazzo, tradimenti, alleanze tra nemici a fini temporanei e utilitaristici, diatribe ecclesiastiche sfocianti in rivolte orchestrate dal clero di Costantinopoli. Tutti elementi che troveremo, certo, anche nel mondo occidentale dominato dalla cavalleria germanica: ma in misura molto, molto, minore.
L’imperatore d’Oriente, dunque, nell’anno 488 era certamente avvezzo alle cospirazioni. Zenone sapeva che l’Italia doveva essere riconquistata in suo nome, da un suo uomo. Quell’uomo ce l’aveva in casa, e si chiamava Teodorico l’Amalo.
Secondo Giordane, egli era un “giovanotto elegante, che ebbe la fortuna di godere del favore imperiale”. Secondo noi, questa fortuna, se l’era ampiamente costruita. Figlio del re degli Ostrogoti Teodemiro, l’ultimogenito della gloriosa stirpe degli Amali era stato mandato nella capitale d’Oriente per imparare le buone maniere e diventare un comandante federato agli ordini di Costantinopoli. Dagli otto ai diciotto anni rimase ostaggio alla corte orientale, dove sviluppò decisive relazioni, dimostrandosi non solo valoroso e rude soldato ma anche capace mediatore. Teodorico, nella capitale faceva la bella vita: le donne di Costantinopoli se lo coccolavano ed era diventato l’astro nascente della nuova aristocrazia militare germanica.
Essendo, però, germanico, non era molto gradito al clero, che mal sopportava gli Ariani. Teodorico ne era consapevole, e non fece mai chiara intenzione di convertirsi. A dire il vero, non fu mai un credente “praticante”: per lui la religione era il campo di battaglia, e senza dubbio praticava (come la maggior parte dei soldati del suo popolo) gli antichi culti pagani. Tuttavia, la sua etichetta di ariano lo seguiva.
Zenone lo scelse perché sapeva che Teodorico aveva fame di gloria e di un trono. Prima di proporgli l’Italia, lo usò addirittura per togliere di mezzo Teodorico Strabone, anch’egli ostrogoto, che aveva colonizzato la parte nord della Tracia governandola come un vero e proprio rex, al pari di Odoacre. Tuttavia, il giovane Teodorico l’Amalo non era uomo da farsi manovrare come un burattino. Quando incontrò il rivale sul campo di battaglia gli propose subito la pace e mandò un’ambasciata a Costantinopoli per chiedere di annettere al territorio trace anche la provincia della Mesia.
Zenone non se l’aspettava, così mandò l’esercito imperiale al macello contro i valorosi Ostrogoti. Non bastarono alcune piccole vittorie per fermare l’avanzata dei barbari nella parte ovest dell’Impero d’Oriente, dando il via a quella diaspora che di lì a cinque anni li avrebbe portati in Italia.
L’imperatore dovette quindi accordarsi con Teodorico Strabone concedendogli un accordo privato con il quale i due isolavano Teodorico l’Amalo, ma con cui Zenone si svenava economicamente e nel contempo perdeva la faccia. L’Isaurico, che dimostrò ancora una volta di non mantenere la parola neppure per sbaglio, si alleò subito dopo con i Bulgari contro Strabone con l’obiettivo di far fuori quello che sembrava il Teodorico più “indigesto”.
Gli Ostrogoti, tuttavia, sconfissero i Bulgari in una serie di battaglie campali e consolidarono il loro regno. L’obiettivo, Zenone lo raggiunse indirettamente quando Teodorico Strabone, in circostanze non chiare, cadde da cavallo (forse in un’imboscata) e morì sul colpo.
Teodorico l’Amalo fu il naturale successore alla guida del popolo ostrogoto unito sotto un unico sovrano. Il disegno di Zenone non prevedeva certo quell’esito, e si affrettò a metterci una pezza. Quasi tutta la storia del primo Alto Medioevo recita più o meno lo stesso copione: c’è un imperatore che si illude di usare a suo vantaggio un “barbaro” selvaggio conquistando a suo nome l’Italia; c’è un invasore “barbaro” selvaggio che usa i soldi imperiali per ottenere la corona e, di fatto, la totale indipendenza (e un posto nella Storia).
Nel 484 Zenone lo nominò console per tentare, con una carica elettiva, di legarlo a doppio filo al suo trono. Per tutta risposta, dopo due anni, Teodorico si sentì forte abbastanza per presentarsi sotto le mura di Costantinopoli e cingerle d’assedio.
L’imperatore temette per l’ennesima volta di perdere la corona, e stavolta si fece scappare una promessa veramente imponente: l’Italia. Teodorico avrebbe avuto il titolo di Re direttamente da lui, oltre che soldati, scorte per almeno due anni e moltissimo denaro. Inoltre, avrebbe potuto reclamare ogni territorio che, nel tragitto, avrebbe sottomesso. Le trattative furono rapide e poco impegnative per gli intermediari. L’ostrogoto voleva solo far paura a Zenone, ben consapevole che quell’assedio sarebbe anche potuto andare a buon fine, sarebbe anche riuscito a prendere il potere, ma poi? Costantinopoli non era l’Italia: la macchina burocratica era perfetta, l’economia florida, la corte fedele solo ai veri Bizantini. L’Oriente era ricco, forte, organizzato, robusto. Razzista. Non avrebbe accettato un germanico. L’Italia era in balia di un Erulo, l’aveva accettato passivamente, aveva conservato le sue (poche) istituzioni, c’era una Chiesa più “morbida” e più tollerante all’Arianesimo. E poi la terra era fertile, il clima mite, il cielo impregnato della gloria di quei Romani ch’egli aveva studiato nei suoi anni a Costantinopoli. Soprattutto, lui era Teodorico l’Amalo, l’ultimo di una stirpe di sovrani, non di lecchini.
La parola putrefazione deriva, naturalmente, dal latino. Precisamente dal verbo putere, che significa puzzare, e facere, cioè fare. Letteralmente, quindi, “fare puzza”. L’Impero Romano d’Occidente, nel 476 dopo Cristo, aveva raggiunto la sua putrefazione. Leggi tutto »
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