Negli ultimi suoi attimi sulla terra, il 14 novembre del 565, Giustiniano poteva guardare il passato con la soddisfazione di aver realizzato tutti i suoi progetti.
Aveva riconquistato l’Africa e l’Italia, anche se pagando un prezzo gigantesco in risorse umane ed economiche.
Nel 534 vedeva la luce il suo Corpus Iuris Civilis, la raccolta di tutto il materiale di diritto romano riveduto e riorganizzato in modo moderno per l’uso di una nazione che doveva tornare a dominare il mondo anche con le sue leggi. Il suo autore, Triboniano, insieme ad altri illustri giureconsulti, fece un lavoro encomiabile di ricerca e sintesi delle leges, dei senatoconsulti, dei decreti imperiali e delle varie interpretazioni dei giuristi (i cosiddetti responsa prudentium). In pratica, un enorme sunto di tutto il sapere giuridico romano ad uso e consumo degli avvocati dei secoli a venire. Sarà la pietra miliare della giurisprudenza medievale, studiato in tutte le università dalla loro nascita sino ai giorni nostri (e sicuramente anche in futuro).
In ambito ecclesiastico, era stato pari a Costantino come eminenza grigia della Chiesa occidentale e orientale. Voleva avere sempre l’ultima parola in ogni dibattito religioso, si interessava delle questioni filosofiche-teologiche, non tollerava le eresie (prima tra le quali quella ariana).
Fu un costruttore instancabile. Prosciugò le casse dell’Impero per abbellire Costantinopoli e moltissime città del suo regno. La chiesa di Hagia Sophia, o Santa Sofia, venne ricostruita, ampliata e resa una delle più belle del mondo dagli architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle, ch’egli scelse personalmente. A Gerusalemme fece edificare un magnifico tempio in onore della Vergine, la Nea Ekklesia.
In ambito commerciale favorì le esportazioni e la nascita di una specie di “borghesia” di mercanti. Diede un impulso decisivo ai rapporti con la Cina e l’India, trascurando giustamente la vecchia Europa, impoverita dalle invasioni e imbarbarita dai suoi nuovi dominatori.
Costantinopoli, con Giustiniano, si ritrovò la regina del mondo altomedievale, e così rimase per molti secoli. Purtroppo l’Italia era destinata al percorso inverso.
Dopo diciotto anni di guerra gotico-bizantina, preceduta da un secolo abbondante di invasioni e devastazioni, l’Italia era ridotta ad una terra di nessuno. Procopio in uno dei suoi passi più famosi ce la descrive così: “Il quarto anno della guerra avanzava verso l’estate e già il grano cresceva spontaneo, ma non nella stessa quantità di prima, bensì assai minore; poiché, non essendo stato interrato nei solchi né con l’aratro né con mano d’uomo, ma rimasto in superficie, la terra non potè fecondarne che una piccola parte. Né essendovi qualcuno che lo mietesse, passata la maturità, ricadde giù e non ne nacque di più”. E ancora ecco una descrizione dei poveri abitanti italici morenti di fame e di malattie: “le loro facce assumevano un’espressione stupefatta, gli occhi si dilatavano in una specie di spaventosa follia. Alcuni morivano per aver mangiato troppo quando trovavano cibo. I più eran talmente dilaniati dalla fame che, se vedevano un ciuffo d’erba, si precipitavano a sradicarlo. Quando erano troppo deboli per riuscirvi, si buttavano bocconi a terra con le mani contratte sulle zolle”.
La popolazione ammontava all’incirca a quattro milioni di poveracci. Le città si spopolavano e in esse rimanevano quasi solamente rovine e ruderi. Le malattie, date le condizioni igieniche pessime, proliferavano. I morti venivano quasi sempre lasciati imputridire, giacchè nessuno voleva toccarli per seppellirli, tanta era la paura di contagiarsi. Neppure gli uccelli si cibavano più di quei cadaveri, sia perché appestati sia perché talmente denutriti da non aver quasi niente attaccato alle ossa.
Ora, le descrizioni del nostro Procopio e di altre fonti storiche sono abbastanza forti, ma purtroppo molto veritiere. L’Italia aveva bisogno di un “piano Marshall” da parte di Giustiniano, il quale però guardava solo a Costantinopoli. Le casse dell’Impero erano vuote perché le guerre di riconquista e le solite scaramucce con i Persiani le avevano prosciugate. Narsete, nominato governatore, non seppe far altro che aumentare le imposte già esistente ed introdurne di nuove.
Gregorio Magno racconta che in Sardegna i pagani pagavano per poter professare i propri riti. La riscossione, naturalmente, continuò senza ritegno anche dopo che i sardi si convertirono al cristianesimo. In Corsica moltissime famiglie dovettero vendere i propri figli. Una buona parte del nord Italia subì ancora per lungo tempo le scorrerie dei Franchi. Coloro che non potevano pagare si sdebitavano tramite delle corvees, cui dovevano sottostare anche vecchi e bambini. Quasi tutto quello che si produceva serviva per il sostentamento dei padroni bizantini sul territorio.
Come possiamo ben comprendere, il popolo passò gli ennesimi anni d’inferno. Senza un “governo” sul territorio i latifondi erano lasciati alla completa mercè dei più ricchi, che si arricchivano sempre di più. I feudatari, quali erano ormai, potevano costruire manieri sempre più fastosi e protetti, assoldare milizie, corrompere i funzionari imperiali, comprare nuovi servi. Di regole, ce n’erano poche, e poche venivano fatte rispettare.
In questo quadro fosco la luce è ancora lontanissima. Eppure qualche piccolo bagliore si intravvede.
BENEDETTO DA NORCIA
Il monachesimo non era un fenomeno nuovo. La sua data di nascita, possiamo affermare, corrisponde con quella di Paolo di Tebe, o Paolo l’Anacoreta, cioè il 226. Nativo dell’Egitto, a circa venticinque anni fuggì nel deserto per salvarsi dalla persecuzione di Decio. Si sistemò in una grotta accanto ad un bel ruscello ed una palma, nutrendosi con quello che trovava e passando il giorno a pregare. Dai quarantatrè anni fino alla sua morte ricevette giornalmente la visita di un corvo che gli portava in dono un pezzo di pane per integrare la dieta. La morte lo colse nel 342, pluricentenario. La sua storia venne raccontata da San Gerolamo, uno dei Padri della Chiesa, e lo rese immortale. Fu il primo anacoreta.
Moltissimi seguirono il suo esempio. Simeone visse per trentasette anni sulla cima di una colonna. Fu il primo stilita. Antonio, un altro egiziano, visse per vent’anni in un vecchio fortino romano subendo continue tentazioni da parte del Demonio, cui naturalmente non cedette mai.
Il monasticismo orientale, come si vede, ha una forte componente di fanatismo. L’eremita e lo stilita tendono a isolarsi dal mondo per pregare e cercare la purificazione del corpo tramite la sua mortificazione. Questi primi monaci cercavano ogni maniera per autodistruggersi. Alcuni non dormivano mai, altri vivevano tagliandosi, altri si facevano murare vivi. Ma non costruivano nulla. Spesso non ricevevano neppure i numerosi pellegrini che volevano incontrarli. Non concepivano contatti con l’esterno, quindi praticamente non servivano a nulla. La loro era una buona causa, anche perché la Chiesa cominciava a diventare ricca e i costumi iniziavano ad allentarsi. Ma l’eremitismo non era la soluzione per il problema.
Pacomio fu il primo a fondare un convento entro il quale accogliere coloro che volevano seguirlo nella sua strada verso la Salvezza. Pregavano insieme e vivevano insieme, condividendo la medesima vocazione. Era l’inizio del cenobitismo, cui s’ispirò Martino, vescovo di Tours, che nel 375 fondò il suo monastero di Marmoutier. Nello stesso periodo storico, i Padri della Chiesa (Agostino, Gerolamo e Ambrogio) propagheranno quella dottrina orientaleggiante in Occidente, parlando dei suoi protagonisti e ispirandone di nuovi.
Colui che viene considerato il vero fondatore del monachesimo moderno, Benedetto, nacque a Norcia nel 480 da famiglia nobile, probabilmente imparentata con gli Anicii di Severino Boezio. Mandato a Roma per studiare, si schifò talmente dei vizi e della corruzione della “metropoli” da fuggire nel suo deserto. Trovò rifugio in una grotta vicino a Subiaco dove si mise a vivere come un eremita. Per tre anni lottò, solo, contro le tentazioni della carne. Un giorno gli si presentò davanti il Tentatore, cioè il Diavolo, sotto forma di un merlo che gli ispirò il pensiero impuro di una ragazza che aveva visto molti anni prima, e che ora turbava la sua quiete spirituale. Gregorio Magno, che ci ha lasciato in dote la vita di Benedetto, così racconta: “visti lì presso dei cespugli rigogliosi e fitti di ortiche e rovi, si spogliò delle vesti e si gettò nudo tra le spine e le foglie brucianti. Si rotolò in mezzo fino a quando ne uscì lacerato in tutto il corpo; ma con le piaghe della pelle aveva scacciato dal suo cuore la ferita che angustiava la sua anima, perché al piacere aveva sostituito il dolore; quel bruciore esterno, impostosi volutamente come pena, aveva estinto la fiamma che ardeva dall’interno, e così, mutando l’incendio, aveva vinto l’insidia del peccato”. Da quel giorno, prosegue Gregorio, non sentì mai più il richiamo della sensualità.
La sua aura divina cominciava, nel frattempo, a illuminare anche i dintorni della caverna dove viveva. Un gruppo di monaci lo pregò di diventare loro superiore, ma Benedetto instaurò un regime talmente duro che dopo poco, per liberarsene, cercarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato. Questi, scoperto il complotto, decise di andarsene e fondare un suo monastero, con le sue regole. La scelta ricadde su Montecassino, laddove sorgeva un antico tempio pagano edificato sulla cima di un monte. L’edificio che costruì nel 529 fu l’inizio di un percorso monastico che dura ancora oggi.
La sua Regola, “Ora et Labora”, significa prega e lavora. Suddivisa in 73 capitoli, organizza minuziosamente il monastero quasi come una caserma; tuttavia, queste norme sono basate non sulla coercizione, ma sull’armonia, sulla concordia tra i fratelli. E, soprattutto, sulla produttività. Ognuno deve dare una mano per quanto può. Tutti hanno l’obbligo di lavorare e di fare la loro parte. I monaci sono tutti uguali, nessuno vale più di un altro. Si può commerciare i manufatti creati, ma devono sempre essere venduti ad un prezzo basso e mai per guadagnare. Una sorta di comunismo dominava la vita commerciale ed economica del monastero.
Le regole erano ferree perché Benedetto esigeva una completa sottomissione a Dio che non ammetteva deroghe; mantenersi sempre attivi e mai in ozio era la logica conseguenza. I contatti con l’esterno erano vietati, salvo speciali situazioni. Nonostante i numerosi pellegrini che accorrevano a Montecassino, desiderosi di entrare a far parte della comunità, pochi erano gli eletti: dovevano superare un periodo di iniziazione durissimo fatto di privazioni e stenti, ma spesso era l’unico modo per evitare di vivere in un mondo sempre più stretto nella morsa delle guerre e delle malattie.
Sia gli Ostrogoti che i Bizantini, e successivamente i Longobardi, rispettarono sempre questo luogo, così come gli altri luoghi di preghiera che sorgeranno sull’esempio di Benedetto da Norcia. Nella devastazione dell’Italia la popolazione contadina si stringeva intorno ai monasteri, che diventarono ben presto dei piccoli villaggi, delle comunità autarchiche dove vigevano regole ferree ma giuste, dove tutti erano uguali, parificati.
Col tempo, questi monaci ignoranti verranno sostituiti da uomini di cultura, che diverranno gli amanuensi: a loro dobbiamo la conservazione del nostro patrimonio letterario romano, che sarebbe altrimenti andato perduto nel marasma dei Barbari. Nei secoli bui, o Dark Ages, ecco un luogo dove si rispetta il prossimo, si lavora senza guardare al profitto, si studia e si legge. Benedetto aveva creato uno stile di vita. La sua comunità poteva guardare con meno sfiducia al futuro. Il monachesimo benedettino fu la pietra miliare del futuro europeo. Giustamente San Benedetto da Norcia è il patrono dell’Europa.
LA PRAGMATICA SANCTIO
Grazie a San Benedetto ed al monachesimo la Chiesa Romana diventava la custode ufficiale delle anime d’Italia (e poi d’Europa). Grazie alla Pragmatica Sanctio diventava anche un’autorità politica.
Il 14 agosto del 554 Giustiniano promulgò la Pragmatica Sanctio pro petitione Vigilii, la Prammatica Sanzione su richiesta del papa Vigilio. Le prammatiche erano delle costituzioni promulgate a seguito di domande o richieste pervenute da città o collegi. In tal caso il richiedente era il pontefice ed il concedente l’imperatore, che si rendeva benissimo conto di dover delegare ad una autorità radicata sul territorio l’amministrazione pubblica. Narsete rimaneva il governatore d’Italia, ma la chiesa di Roma diventava l’effettiva detentrice del potere temporale o politico.
Si introduceva nella nostra penisola l’intero Corpus Iuris Civilis, oltre a norme di carattere generale che servivano a definire i rapporti di diritto privato, nuove tasse, monete. I vescovi acquistavano funzioni di amministratori pubblici sostituendosi in tutto e per tutto alle curie cittadine. In più si garantivano nuove proprietà latifondiarie da gestire in modo autonomo e senza render conto a nessuno.
Di potere, l’apparato ecclesiastico ce ne aveva già parecchio già prima, sin dal tempo di Odoacre. Ma ora veniva messo per iscritto, veniva “inchiostrato”. Ufficialmente il clero diventava il braccio dell’imperatore in Italia. La base del potere temporale che la Chiesa di Roma accentuerà sempre di più nei secoli a venire sta nella Pragmatica Sanctio. Non fu una grande innovazione e probabilmente Giustiniano stesso non la considerò mai una rivoluzione. Per lui quei vescovi imbarbariti e chiusi tra quattro mura decadenti in città malate e spopolate dovevano fungere solo da esecutori materiali dei suoi ordini. E nel primo periodo questo fecero.
Ma grazie a personalità forti e influenti la chiesa comincerà a radicarsi anche come ente politico, oltre che spirituale.
Nel mondo altomedievale il parroco del villaggio o il vescovo della città avevano pari valore per i pochissimi abitanti rimasti. Le parole di entrambi erano legge. Senza dubbio vi furono, sin da subito, delle ingerenze non previste dalla Prammatica Sanzione. Senza dubbio molti alti prelati ne abusarono. Ma quello che conta è che l’Italia cominciava a vedere un alone di luce in quel buio interminabile, in quella lunga notte intervallata da guerre, invasioni, carestie, malattie, pesti. Si iniziava ad intravvedere un barlume di autorità sul territorio. Quando i Longobardi caleranno in Italia dovranno per forza confrontarsi con il vescovo o con il parroco. Certamente all’inizio daranno poco peso ad entrambi. Ma capiranno presto che quello della chiesa di Roma era un potere politico a tutti gli effetti.
E, si badi bene, Giustiniano non aveva regalato niente. Aveva semplicemente messo per iscritto ciò che era già consuetudine almeno da un secolo. Gli ultimi imperatori d’Occidente, Odoacre e Teodorico dovevano già affrontare un’autorità riconosciuta dalla popolazione, soprattutto dai più poveri. Attila, quando incontra Leone I, lo riconosce come leader più dell’imbelle che siede sul trono di Ravenna.
Grazie a Benedetto e Vigilio la Chiesa di Roma diventa un fattore decisivo nella storia. Dalla metà del VI secolo contribuiranno in modo fondamentale alla cura dello spirito e del corpo degl’Italici e poi degli Europei. Il percorso sarà lungo e non privo di sconfitte. Il Sacro Impero Romano, dall’800 in avanti, entrerà in diretta concorrenza. Ma il Papato aveva già due secoli e mezzo di vantaggio e le stigmate di erede diretto di Roma imperiale.
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