Il primo problema che si pone per quanto concerne la storia degli Arabi è la mancanza quasi assoluta di fonti dirette nel periodo del loro massimo splendore, cioè i secoli VII e VIII.
Tuttavia negli anni successivi gli studiosi islamici si rifaranno alla grande di queste lacune: in pochi secoli ci inonderanno di trattati di astronomia, medicina, matematica, geografia, cronache storiche, letteratura teologica, poesia di ogni genere. Un mondo culturale lontanissimo da quello romano-mediterraneo che sopravvisse almeno sino alla metà del VI secolo e anche rispetto a quello germanico predominante nell’Alto Medioevo. Un universo di conoscenze e idee che cambierà per sempre anche la nostra Storia. Per questa ragione, prima di continuare con la nostra penisola, ora bisogna focalizzarci su una terra lontana, lontanissima: l’Arabia.
IL PROFETA
L’Impero Romano aveva colonizzato solamente una parte della penisola araba, quella immediatamente confinante con la Palestina. Il tentativo di conquista era stato blando: appena le legioni cominciarono ad inoltrarsi nel terreno desertico il sole, il caldo e i predoni le convinsero a desistere nel loro intento. Riuscirono solo a mantenere una piccola guarnigione ad Aden, sul Mar Rosso, che fungeva da testa di ponte per i traffici tra Africa ed Estremo Oriente.
L’Arabia era abitata da tribù nomadi simili a quelle germaniche dell’Europa settentrionale: come loro non avevano mai sentito il bisogno di unirsi in una nazione, erano politeisti e non avevano sviluppato una civiltà neppure lontanamente simile a quella romana, greca o cinese. I beduini, così si chiamavano quegli abitanti, erano uomini duri, forgiati dal caldo cocente del giorno e dal gelo della notte, abituati a depredare ma non ad obbedire. I propri sceicchi, cioè i capitribù, erano gli unici in grado di mantenere una parvenza di ordine sociale all’interno del clan.
Pur occupando una posizione geografica assolutamente strategica non si interessarono mai ai commerci e ai traffici marittimi. Di città ne avevano poche. La Mecca, la più grande, riusciva a sopravvivere perché meta dei pochi mercanti che transitavano dall’Oriente all’Occidente e viceversa. In confronto a Costantinopoli o Ravenna sembrava un sobborgo putrido.
Agli antichi arabi, però, importavano poco questi commerci. A loro interessava più che altro una specie di reliquia: la Pietra Nera, un piccolo meteorite rossastro che veniva custodito nella Kaaba, un edificio rettangolare costruito in varie fasi storiche dagli angeli del cielo e dai profeti ebraici, tra cui spiccava Abramo. Sia la Kaaba che la Pietra Nera erano mete di pellegrinaggi: anzi, erano delle vere e proprie divinità. Non che le varie tribù dessero molta importanza a chi comandava nell’alto dei cieli: più che altro venivano riconosciute come simboli sociali prima che religiosi.
Di religioni, infatti, gli Arabi ne avevano tantissime, come tantissime erano le popolazioni da cui avevano attinto i loro dei. C’erano i Nabatei, la cui capitale era la bellissima Petra, una delle mete privilegiate di tutta l’Asia per la sua incredibile caratteristica di essere scavata dentro la roccia, incastonata e tutt’una con l’ambiente che la circonda come fossile antico di milioni di anni. C’erano i Moabiti, gli Edomiti ed altre popolazioni di ceppo e religione ebraica. Ecco perché ciò che credevano i beduini arabi pre-islamici era un connubio tra il classico culto animista (adoravano il sole, la luna, le stelle) e l’Ebraismo. Siccome poi erano anche “vicini di casa” dei Persiani, presero anche la bellicosità e la tradizione guerresca di quello che era l’impero più antico rimasto sulla Terra.
Nella Kaaba trovavano posto, come una specie di Pantheon, diverse divinità. Le tribù facevano convivere in perfetta simbiosi i propri idoli al suo interno senza stare molto a sofisticare su quale fosse il migliore o quale il più buono. Tra questi spiccava un certo Allah, il dio della tribù dei Quraysh, provenienti (pare) dall’Arabia settentrionale, discendenti alla lontana di Abramo e di Ismaele. Questa tribù non era omogenea, ma suddivisa a sua volta in molti clan: e questo ci fa presagire che avesse raggiunto, nel VI secolo, una grande potenza bellica e commerciale. Controllava gran parte dei traffici della Mecca e aveva raggiunto un grande livello di ricchezza. Stando alle pochissime fonti a nostra disposizione, da questo gruppo etnico ebbe origine il Profeta, Maometto.
Nel 568 i Quraysh erano divisi in due clan rivali. Da una parte i seguaci di Hashem, dall’altro i seguaci di suo nipote Umaya. In quell’anno morì Hashem (probabilmente per una congiura) e gli successe il fratello, Abd-al Muttalib, il quale sposò Amina. Dall’unione tra i due nacque Muhammad, che significa “il mai troppo lodato”. Passerà alla Storia come Maometto, o il Profeta, o il Messaggero di Dio, o il Sigillo dei Profeti, e riuscirà nell’impresa di far diventare di unire sotto un’unica bandiera le miriadi di tribù che fino ad allora si erano scannate tra di loro senza pietà.
Nato nel 569 o nel 570, Maometto rimase subito orfano del padre e sei anni dopo anche della madre. Se lo prese in carico il nonno paterno, un potente esponente del suo clan, che in quel periodo viveva nella capitale, La Mecca. Secondo alcuni studiosi, il futuro profeta entrò in contatto con la religione ebraica proprio nella grande città cosmopolita. Su questo siamo dubbiosi. In quell’ambiente circolavano tutte le religioni, ed il giovane Maometto non aveva motivo di sceglierne una sola. Più probabilmente la scelta la fece a dodici anni, durante un viaggio in Siria insieme allo zio Abu Talib e alla sua carovana di mercanti: qui venne a contatto con il “mondo occidentale” e quindi con le religioni monoteistiche cristiana ed ebraica, che avranno un influsso importantissimo sulla sua dottrina. Pare che l’incontro decisivo sia stato con un monaco, Bahira, o Sergio II, che avrebbe notato tra le scapole di Maometto un neo particolare, segno del suo futuro di profeta.
Tutte le tradizioni islamiche antiche portano quindi verso l’ebraismo prima e il cristianesimo poi, e tutte cercano di trovare delle leggende con cui collegare il Profeta ai suoi illustri predecessori. La realtà è diversissima e parla di un Maometto agente di commercio mandato di nuovo in Siria all’età di venticinque anni per conto della moglie Khadija, molto più vecchia di lui. Aveva il background monoteista giusto per inserirsi nell’alta società: in più, essendo rimasto un mercante, aveva un’ottima parlantina. La Siria non era l’Arabia: era stata romana, ora era dominata dai Bizantini, quindi da una civiltà infinitamente superiore rispetto a quella da cui egli proveniva. Probabilmente Maometto capì che la ragione principale di questa superiorità era dettata dal fatto che questa civiltà venerava un solo dio, e non tante divinità. Pressappoco, è lo stesso percorso che fecero i popoli germanici e norreni mentre scendevano dalle terre del nord. Un solo Dio significava coesione. E Maometto aveva la stoffa del Profeta, ma anche del capopopolo.
A quarant’anni, nel 610, gli apparve l’arcangelo Gabriele. All’epoca passava lunghi periodi di isolamento in una grotta sul Monte Hira, non lontano dalla Mecca. Era diventato una specie di eremita, anche se non aveva la costanza di mantenere questa sua vocazione per troppo tempo. L’apparizione gli porgeva un foglio su cui erano scritte delle parole. Maometto non sapeva leggere, ma l’arcangelo lo esortò a tentare lo stesso. Naturalmente vi riuscì, perché in qualche modo sapeva a memoria quelle parole e che in quel momento le avrebbe pronunciate: “Maometto, tu sei messaggero di Allah, e io sono l’arcangelo Gabriele”. Preso da un panico indicibile, in un primo momento ebbe dei dubbi, ma poi capì che effettivamente era il prescelto del Signore.
Non fu facile far credere che egli era il Profeta, il portatore della parola divina. Un’altra apparizione di Gabriele lo spronò ancora di più ad intensificare la sua predicazione, ma purtroppo le persone stentavano a prestargli fede. Solo la moglie e pochi altri non avevano dubbi sulle sue visioni. Ma cosa diceva effettivamente Allah? Una cosa molto pratica: che gli Arabi dovevano unirsi sotto la religione di Allah, l’unico vero dio, e lasciar perdere tutti gli idoli e i culti politeisti.
Maometto incontrò la resistenza dei vari clan della Mecca, che certamente ci tenevano alle loro tradizioni, ma soprattutto al fatto di rimanere indipendenti tra di loro. Una sola divinità avrebbe portato ad un solo comando, e questo non lo voleva nessuna etnia araba, in quel momento. Solo con la conversione di Abu Bakr, un nobile appartenente alla sua stessa stirpe, quella dei Quraysh, la parola di Allah cominciò a circolare. Insieme a lui passarono dalla parte del Profeta altri cinque nobili, e quindi una buona parte del popolo. I soldi dei ricchi poterono comprare la fedeltà alla nuova dottrina, che fece breccia soprattutto fuori dalla capitale, dove lo zoccolo duro dei clan continuava ad opporsi alla religione monoteista.
Il 16 luglio del 622 Maometto fu costretto a fuggire dalla Mecca, diventata per lui e per i suoi seguaci una città pericolosa. Era stato invitato a Medina, una località distante trecento chilometri, nel nord dell’Arabia, bellissima ma molto più piccola rispetto alla grande capitale, e per questo invidiosa della sua forza. L’Egira, cioè la fuga dalla Mecca, diventò l’inizio della nuova era islamica, l’equivalente della nostra nascita di Gesù Cristo.
A Medina il Profeta dimostrò perché diventerà uno dei personaggi più influenti della Storia. Praticamente era un fuoriuscito, un esule. La sua parola stava incendiando gli animi di molti, ma il vero capolavoro fu quello di unire tutti questi animi. Già dal primo anno fece redigere la Costituzione di Medina, in pratica una sorta di alleanza tra tutte le tribù della zona, con la quale egli diventava capo religioso e politico. Gli abitanti vedevano in lui prima di tutto un condottiero, anche se non sapeva né leggere, né scrivere, né combattere. Abu Bakr, il suo primo generale e il futuro primo califfo, fu il vero condottiero.
Nel decennio 620-630 una vera e propria guerra di religione scoppiò in Arabia tra Medina e La Mecca: quest’ultima ebbe la peggio, e con essa tutte le tendenze secessioniste rimaste insite in Arabia. L’esercito arabo diventò in brevissimo tempo una perfetta macchina da guerra, la più perfetta vista su un campo di battaglia dai tempi della falange macedone. E lo vedremo tra poco, quando partirà alla conquista di un territorio equivalente a quello dell’Impero Romano.
Maometto, a sessant’anni, aveva raggiunto il suo scopo: unire sotto un’unica bandiera e sotto un’unica fede il popolo arabo. Il suo successore, il primo califfo, Abu Bakr, era già segnato.
Il Profeta introdusse la poligamia, peraltro già praticata, come obbligo religioso. Era astemio, mangiava poco e pregava molto. Ebbe molte mogli, ma solo una figlia gli sopravvisse: Fatima. Dante sbaglia a metterlo nell’Inferno tra i seminatori di discordie, nel Canto XXVIII, dove compare tagliato a metà, dal mento all’ano, con gli organi a penzoloni tra le gambe. In realtà prima seminò le discordie, ma poi unì gli Arabi in un solo popolo, che già guardava verso l’Occidente da cui aveva attinto gran parte della sua tradizione religiosa.
Alla fine di maggio del 632 venne avvelenato, o almeno così lui credette. Cominciò a soffrire di fortissime emicranie e febbri frequentissime. Una sera, mentre giaceva con l’ultima moglie Aisha, che aveva circa dieci anni, si lamentò per l’ennesimo mal di testa. Si mise nel letto e non si alzò più sino al 4 giugno, giorno in cui si rimise in piedi con una forza sovrannaturale, si trascinò nella moschea della Mecca dove il suo successore, Abu Bakr, stava propagando la sua parola e si mise a sedere accanto a lui. Tre giorni dopo lo colse la falce della morte. Ma accanto aveva Aisha e le sue numerose mogli.
LA CONQUISTA
Abu Bakr passò per il califfo conquistatore, il primo della storia, ma in realtà dovette tutto al suo generale, Khalid. Con tutta l’Arabia assoggettata, l’esercito arabo rivolse gli occhi verso la Siria. All’epoca l’imperatore d’Oriente era Eraclio. L’armata bizantina che controllava la zona era per lo più autoctona. Si era fatta odiare, come spessissimo capitava nei territori più decentrati: era successo anche in Italia. Può darsi che delle spie arabe abbiano fomentato le numerose rivolte che si accesero in quella regione: sta di fatto che la popolazione voleva Allah, e non più Cristo. Ai soldati piaceva questa nuova parola del Signore. Piaceva questo paradiso promesso popolato da vergini, benessere e felicità. Ma piaceva anche a quei siriani stanchi di un dio cristiano bacchettone e di uno stato rapace.
Khalid distrusse l’esercito bizantino anche se numericamente più forte del suo, poi passò a conquistare l’Iraq. Dopo la morte di Abu Bakr, anche il secondo califfo, Umar, continuò la politica espansionista. Caddero uno dopo l’altro l’Egitto, l’odierno Iran, l’attuale Afghanistan. Praticamente in vent’anni cessava di esistere l’impero persiano, o sasanide. In vent’anni gli Arabi riuscivano in ciò che non erano riusciti a fare in tre secoli i Bizantini. La guerra-lampo proseguì sul litorale palestinese, dove Gerusalemme, Antiochia, Sidone e Damasco furono spazzate dalla furia araba. Non era un esercito che avanzava: era una fiumana. La più fantastica macchina da guerra del Medioevo, formata da guerrieri assetati di sangue, conquiste e gloria. Unito, anzi solidificato da una religione giovane, nuova, per la quale desideravano combattere e morire. Due secoli più tardi si vedrà qualcosa di simile nei Vichinghi, ma con esiti molto diversi.
Nel 642 gli Arabi conquistarono la perla dell’Egitto: Alessandria. Nella città aveva sede la più grande biblioteca del mondo antico, costruita nel III secolo a.C. dal faraone Tolomeo II. Era sopravvissuta a un incendio al tempo di Giulio Cesare e a due distruzioni volute da Aureliano e Teodosio. Non sopravvisse alla furia degli Arabi. Venne rasa al suolo e con essa perdemmo qualcosa come il novanta per cento della cultura antica.
Con la dinastia Omayyade l’esercito arabo si spinse fino a Samarcanda, l’Africa e la penisola iberica. La conquista della Spagna cominciò nel 711 e terminò otto anni dopo: questa volta a farne le spese furono i Visigoti. Nel 717 arrivarono sotto le mura di Costantinopoli, che venne salvata solamente grazie al fuoco greco. Negli stessi anni le armate del Profeta si affacciavano verso l’India e nel contempo penetravano in Francia sino alla Provenza. Solo nel 732 la loro corsa ininterrotta verso la gloria ebbe la definitiva battuta d’arresto. Ma adesso è presto per parlarne.
Accontentiamoci di fotografare la situazione alla fine dell’VIII secolo. Gli Arabi sono padroni dell’equivalente dell’Impero Romano alla sua massima potenza. Lo diventarono in ottant’anni mal contati grazie ad una organizzazione maniacale dell’esercito. Consolidarono le conquiste grazie ad una amministrazione accorta e attenta alle esigenze delle popolazioni locali. Spinti da una sete di vittoria provocata dal fervore religioso, i soldati arabi diventavano essi stessi generali: ognuno di loro era ufficiale di sé stesso. I capi, i generali, gli ufficiali, gli stessi califfi, non erano altro che uomini. Il segreto delle vittorie degli Arabi sta nel fanatismo misto a coraggio che albergava nel cuore di ogni guerriero, consapevole che Allah era con lui, che lui era il prescelto. Più precisamente potevano essere definiti dei soldati missionari, perché la loro carica avveniva con la scimitarra e con il Corano. La loro convinzione superava ogni immaginazione soprattutto in popoli che stavano scontando una fase di stanca come quello bizantino, quello persiano e quello visigoto. L’unico impero che resistette fu quello d’Oriente perché al suo interno aveva ancora una ragione di rimanere in piedi: tuttavia, perse le sue province più belle e dovette ringraziare solamente il fuoco greco per la salvezza della sua capitale. Probabilmente senza quello stratagemma gli Arabi sarebbero esondati nei Balcani e quindi nel cuore dell’Europa. Magari senza il fuoco greco oggi parleremmo arabo, pregheremmo in ginocchio verso La Mecca ed avremmo quattro mogli.
Ma ogni guerriero arabo non era solo un formidabile soldato e un ottimo missionario religioso. Poteva contare su un background culturale che i suoi nonni non avrebbero mai immaginato di poter sviluppare. Fu con questa cultura che gli Arabi solidificarono le loro conquiste.
LA CULTURA ARABA
L’Occidente era imbarbarito, spossato dalle scorrerie di popoli germanici che faticavano a costruire qualcosa: anzi, tendevano a distruggere. L’Oriente, invece, poteva contare su città come Alessandria, Costantinopoli, Gerusalemme, Baghdad, Damasco, Kabul, Herat. La cultura ellenistica, greca, bizantina, per certi versi anche quella indiana, penetrò nelle menti degli Arabi e vi mise radici. Erano menti simile a delle tabule rase. Non avevano un background culturale: la condizione ideale per costruirne uno.
I nomi più illustri della filosofia, della scienza, della medicina, della cultura altomedievale sono arabi. Avicenna, il padre della medicina moderna, inventore della “prova del nove”, fu matematico, medico, filosofo. L’algebra deriva dall’etimo arabo al-jabr. Il numero zero è una loro invenzione. L’anestesia venne praticata per la prima volta a Damasco nel 709. L’alchimista Jabir scoprì l’acido solforico e l’acido nitrico, descrivendo i processi di sublimazione e riduzione. Già intorno al 720 Ibn Abi Ishaq compilava il primo libro di grammatica araba: non male per un popolo che fino al secolo prima parlava innumerevoli lingue diverse. Invenzioni arabe sono l’alambicco, l’algoritmo, il concetto stesso di chimica (certamente da qui attinsero a piene mani dai Persiani), il liuto, lo zucchero.
Come riuscirono a mantenere le loro conquiste, è presto detto: con la tolleranza. Le società conquistate non perdevano la loro identità. Gli Arabi rimasero sempre un’elite dominante ma staccata dal grosso della popolazione. In Egitto la maggior parte degli abitanti scriveva ancora in copto. In Palestina le città non furono quasi toccate, ma conservarono la loro bellezza e la loro importanza commerciale. Un punto di forza dell’islamismo era che, essendo una religione nuova, non aveva difficoltà ad attingere da culture diverse e, quindi, a rispettarle. Anche perché rispettandole poteva servirsene per i suoi scopi. Solamente la classe dirigente doveva conformarsi ai dettami di Allah. Ma questa era molto felice di farlo visto che significava mantenere il proprio potere.
L’ordinamento fiscale rimase quasi uguale a quello precedente e quindi diverso per ogni provincia. Il soldato veniva ricompensato con delle terre sulle quali dominava come un piccolo califfo, esigendo i consueti tributi: che però non erano rapaci come quelli di un conte longobardo o un ufficiale bizantino. Più spartani, gli Arabi sopravvivevano con meno dispendio di denaro rispetto ai loro “colleghi” occidentali. Eppure seppero conservare ciò che conquistavano e in molti casi abbellirlo. Come detto, la presenza di grandi imperi in disfacimento come quello persiano, la debolezza periferica dell’impero bizantino o la fragilità del regno visigoto furono i motivi secondari dell’attecchimento arabo in ogni territorio conquistato con le armi. La distruzione della Biblioteca di Alessandria fu l’unico delitto contro l’umanità, l’unico vero atto di barbarie dell’epopea barbara. Per il resto le popolazioni che vennero a contatto con gli invasori riuscirono a conservare la loro identità e a sviluppare il loro benessere negli anni successivi. Certamente ebbero un destino migliore rispetto a quello toccato all’Italia, alla Britannia, alla Gallia.
Il proselitismo religioso, la furia missionaria di questi soldati di Allah, non si trasformò mai in persecuzione. Lo stesso Corano dice esplicitamente che “per ogni nazione c’è il suo messaggero”. Quegli Arabi ci appaiono così diversi da quelli di oggi. Ma semplicemente perché, da un certo punto della Storia in avanti, gli Arabi non esistettero più.
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