Mentre gli Arabi conquistavano mezza Asia e l’Africa settentrionale, in Italia succedeva poco o nulla. Non era un male, anzi.
La popolazione italica cominciava a sopportare la dominazione longobarda e i vecchi invasori iniziavano a far intravvedere una larva di stato nazionale come si stava sviluppando in altre parti d’Europa, in primis in Francia.
I Longobardi non riuscirono mai ad esprimere una dinastia che mantenesse il potere per un periodo lungo di tempo. Non riuscirono neppure ad inserire nei loro ranghi di comando degli alti esponenti del clero, che continuavano a mantenere la loro sostanziale indipendenza nella gestione delle diverse città ma non assunsero mai posizioni politiche importanti.
A Rotari successe il figlio Rodoaldo, che venne ucciso a pugnalate dopo appena cinque mesi da un servo a cui aveva insidiato la moglie. Siccome di queste cose un sovrano non moriva, propendiamo per una congiura ben orchestrata. Il progetto era quello di riportare al comando un re cristianissimo e avverso agli ariani, Ariperto, nipote di Teodolinda ed esponente della parte bavarese del popolo longobardo. Questi regnò nove anni passati a far costruire chiese e perseguitare eretici.
Alla sua morte gli successero i due figli, Pertarito e Godeperto. Per la prima volta i Longobardi sperimentavano il doppio sovrano, molto in auge tra i Franchi nello stesso periodo. Fu un interregno pieno di lotte intestine durante il quale seppe uscirne vincitore Grimoaldo, duca di Benevento, uno dei ducati più forti della penisola. Regnò nel 661, anno in cui ritornò sul trono Pertarito, stavolta da solo. Si segnalò per il suo zelo nel convertire a forza i pagani, gli ariani e gli ebrei, sempre con il benestare della Chiesa Romana, sempre più influente anche a corte. Nel 680 si associò al trono il figlio Cuniperto e raggiunse la pace con i Bizantini rimasti in Italia.
Ma i Longobardi “ortodossi” non accettavano di buon grado questa sottomissione alla Chiesa. Il duca di Trento, Alachis, si fece campione delle istanze anti-cristiane. La guerra intestina scoppiò ufficialmente nel 688, quando morì Pertarito. Il ribelle riuscì a sconfiggere Cuniperto e a relegarlo sull’isola Comacina, scacciandolo dalla capitale Pavia. Tuttavia, Alachis in breve tempo si fece odiare un po’ da tutti, soprattutto dall’establishment ecclesiastico: ne approfittò Cuniperto per riprendersi trono e potere.
Nel 700 egli morì lasciando l’ennesima situazione difficile. Liutperto, il figlio ed erede, venne spodestato da Raginperto, duca di Torino, che però si godette la gloria regale per un solo anno. Dopo la sua morte si scatenò una faida vera e propria tra vari duchi del nord che vide la fine solo nel 712 con l’ascesa al trono di Ansprando, il solo in grado di dare una parvenza di solidità ad un potere diventato inaspettatamente cagionevole.
Questa fase convulsa del regno longobardo è lo specchio dei problemi di un popolo che non era riuscito ancora ad imprimere una svolta alla sua conquista. Questo non deve far pensare che i Longobardi non fossero in grado di governare entro i loro confini. Al contrario. Grazie ad una accorta politica estera si erano protetti contro eventuali pericoli esterni, soprattutto dalla Francia, dove i sovrani franchi stavano cominciando ad osservare la situazione italica. I Bizantini erano rimasti concentrati e isolati nelle loro province. La Chiesa Romana aveva accettato di buon grado il potere longobardo ritagliandosi il suo spazio vitale. Nonostante questi dissidi interni la corona d’Italia non fu mai in discussione. Tant’è vero che neppure l’imperatore d’Oriente le mise più gli occhi addosso. La sensazione che da un momento all’altro ci potesse essere un “salto di qualità” era concreto.
I Longobardi attendevano solo un grande re. Tra poco lo avranno.
CHIESA D’OCCIDENTE CONTRO CHIESA D’ORIENTE
Quando, nel 526, papa Giovanni I intercedeva per Teodorico alla corte dell’imperatore Giustino, il prestigio del Papato raggiungeva i massimi storici. In quell’occasione, si ricorderà, venne accolto con i più grandi festeggiamenti. Nella gremitissima chiesa di Santa Sofia fu lui ad officiare la messa di Pasqua, non il patriarca di Costantinopoli. Lo stesso Giustino si inginocchiò di fronte a lui e si fece re-incoronare. Il vescovo di Roma, a quel tempo, era davvero il primus inter pares tra gli alti dignitari ecclesiastici perché Pietro, il primo papa, fondò la sua chiesa nell’allora capitale del mondo. In nessun modo quella onorificenza avrebbe potuto passare su un altro capo.
Tuttavia, dopo cento anni, le cose erano molto cambiate. L’Italia era passata dai barbari di Odoacre e Teodorico ai Bizantini, e nuovamente ripassata in mano barbara con i Longobardi. Il suo prestigio era assolutamente scarso: le sue città poverissime proprio come i loro commerci. Su quattro milioni di abitanti (circa) della penisola pochissimi potevano dirsi in condizioni economiche e sociali accettabili. Aggiungiamo il fatto che in Italia Giustiniano aveva sperperato soldati e denaro in quantità industriale ed ecco spiegato il cambio di atteggiamento verso il vescovo di Roma.
Il patriarca di Costantinopoli era diventato l’autorità più ambita a livello clericale. Poteva contare su un background culturale molto superiore. Nell’antica Bisanzio si guardava ai vescovi latini come ai parenti poveri e ignoranti che non potevano più permettersi di aver voce in capitolo sulle questioni teologiche.
In Oriente, di cavilli teologici ne erano usciti tantissimi sin dal IV secolo. Il vescovo di Roma aveva avuto il riconoscimento del suo primato nel 381, durante il Concilio di Calcedonia. Prima di quella data era, teoricamente, allo stesso livello di un vescovo di Alessandria, di Costantinopoli, di Ravenna, di Milano. Questa vittoria fu abbastanza automatica, come abbiamo visto appena prima. La prima ecclesia fu fondata a Roma e quindi a Roma si decideva il “governatore” di tutte le altre chiese. Senonchè uscirono i primi dissidenti. Questi, probabilmente, erano davvero fomentati da zelo religioso: Ario, Nestorio, Donato, Priscilliano credevano veramente in ciò che dicevano. Ma erano manovrati dalle elite dei rispettivi luoghi, cioè rispettivamente Alessandria, Costantinopoli, Cartagine, la Spagna. La loro ribellione teologica nascondeva (neanche troppo bene) dei moti di autonomia “nazionalistica”. Soprattutto in Africa il fervore religioso cristiano si era unito ad un certo fanatismo che sfociò anche nell’eremitismo, prologo del monachesimo. Questi vescovi avevano certamente sete di potere, ma erano anche sinceramente animati da uno zelo nel sostenere le loro tesi religiose. Coloro che li sostenevano, invece, vedevano in loro uno strumento per ottenere potere, ed effettivamente spesso lo otterranno.
L’Arianesimo, contro cui si scatenò la più grande battaglia della chiesa ortodossa, non era altro che una semplice teoria. Ario, un predicatore di Alessandria del IV secolo, aveva “solo” ridotto Gesù Cristo a figura umana e solo grazie al Padre assumeva la natura divina. Buona parte della popolazione egiziana passò dalla sua parte, e fu questo a metter paura al vescovo della città, che vide in Ario un pericoloso rivale. La sua scomunica a Nicea non fermò il contagio del suo verbo, che come abbiamo visto continuò ad espandersi soprattutto tra i popoli germanici.
La vicenda di Nestorio è ancora più eloquente perché in questo caso egli era sostenuto dall’imperatore di Costantinopoli. La sua teoria sosteneva il duofisismo, cioè il fatto che in Gesù Cristo ci fossero due nature, umana e divina. Conseguenza di questo era che Maria non era “madre di Dio” ma semplicemente “madre di Cristo”. Erano discussioni di lana caprina, puramente astratte, ma sintomo che la Chiesa aveva fatto tantissimi proseliti: fosse stata una religione di poco conto, chi si sarebbe occupato di queste quisquilie? Nestorio, che era protetto da Teodosio II, era anche patriarca di Costantinopoli. L’Arcivescovo di Alessandria, Cirillo, inorridì e denunciò l’eresia a papa Celestino I, che con un concilio decretò la scomunica dell’eretico. Siccome l’Occidente, a quel tempo, contava ancora qualcosa, Teodosio accettò di far fuori il suo patriarca, che morì da reietto in Egitto nel 451.
Ricolleghiamoci a quest’ultima vicenda e ripartiamo da qui. Nel 648 sul trono di Costantinopoli sedeva Costante II detto Pogonato, cioè il Barbuto. Negli ultimi decenni il senato della capitale aveva ripreso il sopravvento ed aveva nominato e deposto imperatori a suo piacimento. Ora però serviva una guida forte, un leader vero. Gli Arabi premevano e l’Impero vacillava paurosamente.
Costante non era un uomo di chiesa, ma un rozzo soldataccio che dovette arginare come poteva la fiumana araba che stava esondando. Il 29 settembre del 643 il vittorioso generale arabo Amr entrava in Alessandria. Uno dopo l’altro caddero come birilli l’isola di Rodi, Tripoli, la Siria e Cipro. La rotta commerciale mediterranea passava di proprietà: dai Bizantini agli Arabi. La presenza bizantina, mal sopportata soprattutto in Egitto, veniva dimostrata dal comportamento del vescovo di Alessandria, Beniamino, che dichiarò candidamente di preferire il giogo arabo a quello di Costantinopoli.
I suoi fallimenti militari rischiavano di minare il potere: e infatti a corte si stava già discutendo sul sostituto. Gli restava da salvare l’Africa occidentale, quella di Cartagine, dove però si respirava una brutta aria. La popolazione aveva giustamente paura degli Arabi e gridava le sue suppliche verso la capitale. Ma in quel momento, minacciato anche dagli Slavi che stavano per travolgere i Balcani, l’esercito bizantino non era in grado di rispondere. Così, per ribellarsi ufficialmente, presero la scusa della religione.
Qui siamo in territorio un po’ complicato perché cavilloso. Cerchiamo di spiegarci più semplicemente possibile. Cartagine era lo zoccolo duro dell’ortodossia cattolica. A Costantinopoli, da parecchi anni, si era sviluppata una corrente religiosa chiamata monotelismo: diceva sostanzialmente che Cristo aveva un’unica volontà, quella divina. Se, infatti, avesse avuto anche la volontà umana, avrebbe potuto anche peccare, magari inavvertitamente. Invece, come stabilito da tutti i concili e i concistori cristiani, Cristo non peccò mai.
La dottrina ortodossa aborriva questa teoria perché escludeva completamente la natura umana del Cristo, quindi la sua umanità, le sue passioni, il suo essere stato come gli altri uomini. E’una discussione che oggi sarebbe pasto dei teosofici, non dei politici. Allora, invece, divenne una contesa politica.
Cartagine, che era ortodossa, costituiva il granaio dell’Impero d’Oriente, che dopo Alessandria e l’Egitto non poteva permettersi di perdere altri pezzi. Nel 647 gli Arabi fecero una prima sortita in Africa occidentale. Gregorio, il governatore bizantino della zona, organizzò la miglior resistenza possibile senza rinforzi dalla capitale, ma venne sconfitto e ucciso. L’esercito arabo acconsentì a ritirarsi solo dopo aver saccheggiato per bene e aver ottenuto un ricco tributo. Costante ci faceva la figura del perdente. Ma poteva, in parte, redimersi.
Nel 648 emanò il cosiddetto Typos, cioè un editto contro tutte le dispute religiose. Siccome i monaci orientali erano rissosi, sempre pronti alla pugna letteraria, cattivi e pieni di astio, questo decreto scontentò tutti, a qualunque corrente religiosa appartenessero. Anche perché le pene erano severissime: chi trasgrediva e osava discutere di teosofia perdeva la carica e vedeva confiscati i suoi beni.
Costante non era un uomo molto accorto. Non capì che mettendo a tacere dispoticamente gente che aveva come unico scopo quello di litigare fomentava un fuoco inestinguibile.
Il papa, Martino, convocò in Laterano un grande concilio di centocinquanta vescovi che scomunicarono il patriarca di Costantinopoli: in realtà volevano scomunicare l’imperatore, ma per logiche ragioni non poterono farlo. Tra quei vescovi c’era anche Massimo il Confessore, il campione della resistenza al Monotelismo.
Questa presa di posizione fortissima e chiaramente contro al governo di Costantinopoli, cui formalmente era soggetto, mise il papa al centro del mondo ecclesiastico. La sua autorità stava scemando: quella era l’occasione per riprenderla. La diatriba non era altro che teosofica, non ci stancheremo mai di ripeterlo. Ma in gioco c’erano interessi politici di non poco conto. In quel periodo i Longobardi stavano lasciando l’Arianesimo per passare all’ortodossia cristiana e il loro potere era ben saldo. Nel contempo, l’Oriente viveva un’epoca difficile, stretto com’era tra gli Arabi a sud e gli Slavi a ovest: aveva perso già molti territori e la situazione sembrava difficilissima. Aggiungiamo anche che a Roma si parlava in nome delle città italiche, non solo quelle soggette all’esarcato bizantino (che erano pochissime rispetto a quelle longobarde). Martino faceva da portavoce di tutte le istanze italiche contro la supremazia bizantina ormai solo teorica. C’era, a nostro giudizio, anche un certo rancore verso quei padroni che nei secoli continuavano a infischiarsene dei destini dell’Italia. Negli unici anni in cui avevano dominato, poi, quei Bizantini erano solo riusciti ad aggiungere tasse.
Costante capiva solo le maniere forti. Per imporre il Typos anche in Italia decise di far assassinare il papa. Mandò quindi a Roma l’esarca Olimpio con una piccola scorta di soldati, ufficialmente in missione di pace. I cittadini romani avevano subodorato la congiura e probabilmente anche lo stesso Olimpio si convinse che era meglio lasciar perdere. La versione “ufficiale” del Liber Pontificalis dice che il sicario incaricato di ammazzare il pontefice venne accecato appena prima di librare la coltellata da una forza divina. Più plausibile il fatto che Olimpio cedette alle pressioni del papa. Dopotutto, era lui a dover governare un esarcato dove la chiesa di riferimento era quella di Roma, non quella di Costantinopoli.
A dare una mano a Costante sopraggiunse la morte di Olimpio, impegnato a guidare il suo esiguo esercito contro una sortita navale degli Arabi del generale Muawiya.
L’anno successivo, il 653, ecco la controffensiva bizantina. Il nuovo esarca, Calliopa, stavolta entrò a Roma con un bell’esercito, fece prigioniero Martino e uccise un non precisato numero di romani che volevano proteggere la loro guida spirituale e politica. Il pontefice fu tradotto a Costantinopoli già gravemente malato e rinchiuso a Nasso, dove per un anno fu sottoposto a continue prepotenze fisiche e psicologiche: non poteva radersi, non poteva lavarsi, non poteva tagliarsi i capelli. Le guardie lo sfinirono fisicamente ma senza portarlo alla morte per farlo soffrire di più. Infine fu portato a Costantinopoli dove venne dileggiato, oltraggiato e condannato a morte. La pena gli fu commutata in esilio solo perché Costante godeva a saperlo sofferente. Trasportato a Cherson, morì nell’aprile del 656 tra fame e privazioni. La Chiesa, naturalmente, lo fece santo.
Stesso destino seguì anche Massimo il Confessore, la personalità più forte della resistenza anti-imperiale. Siccome era lui il capo spirituale dei ribelli ortodossi, il processo puntò a farlo ritrattare le sue tesi. Lui, granitico come una roccia, non si scostò un millimetro dalle sue convinzioni. Morì nella fortezza di Schemarium, vicino a Lazica, nell’odierna Georgia, nel 662.
Massimo era veramente l’avversario più pericoloso pur non avendo formalmente un ruolo così preminente nell’establishment ecclesiastico. Affermava con forza il principio che l’imperatore, essendo laico, non aveva alcuna autorità di intromettersi nelle diatribe religiose. Era come affermare l’indipendenza assoluta dall’imperatore. Ad Oriente era impensabile: il basileus era visto come una divinità. A Occidente la concezione era cambiata: nessun capo politico, nessun generale, nessun imperatore poteva sostituirsi a Cristo. Questa era la vera rivoluzione di Massimo il Confessore.
Da qui non si tornava indietro. Lo capì anche Costante, che era durissimo di comprendonio. Doveva farla pagare a Roma e per questo, dopo più di cent’anni dall’invasione di Belisario, salpò da Costantinopoli per riprendersi l’Italia.
Sembra che la decisione totalmente irrazionale sia stata dettata da tre ragioni. Primo: nella capitale un sovrano perdente rischiava seriamente la pelle. Secondo: gli Arabi minacciavano Costantinopoli e lui stavolta aveva davvero paura che potessero prendere anche la capitale. Terzo: doveva per forza condurre una campagna vincente per cementare il suo potere. Probabilmente fu un misto di queste ragioni. Il risultato però era scontato.
Nonostante l’alleanza con i Franchi di Neustria, che invasero il nord Italia, riportò solo pochissimi successi nei centri minori: l’assedio contro il primo bersaglio grosso, Benevento, si risolse in una disfatta grazie all’abilità di Grimoaldo, re dei Longobardi. Non siamo a conoscenza delle forze in campo perché non abbiamo a disposizione un cronista “imparziale” come Procopio. Abbiamo solo Paolo Diacono. La realtà ci costringe a pensare ad una disfatta annunciata di Costante, che credeva di trovare collaborazione nel popolo italico, mentre trovò solo resistenza. I Longobardi, pur divisi in ducati, si dimostrarono uniti nel far fronte la nemico comune.
L’imperatore si rifugiò prima a Napoli e poi a Roma, dove rimase dodici giorni, spesi a demolire la cupola del Pantheon, prendersi le tegole di rame che la ricoprivano e saccheggiare la città. Del Typos e delle dispute religiose aveva capito che non era il momento di occuparsene. Papa Vitaliano non tirò fuori l’argomento. Accolse bene l’ospite indesiderato, certo che la sua permanenza sarebbe stata breve. E infatti il 17 luglio del 663 Costante lasciò l’Urbe per trasferirsi in Sicilia, dove mise in atto la solita fiscalità bizantina basata sull’aumento delle tasse. Il 15 settembre del 668, dopo cinque anni di rapine fiscali, Costante trovò la morte nel suo bagno, ucciso da un sicario, probabilmente armeno, incaricato dalla corte di Costantinopoli.
LA VITTORIA DI ROMA
Nel 681 il concilio di vescovi, riunito a Costantinopoli e presieduto dal nuovo imperatore Costantino IV, sancì la definitiva vittoria dell’ecclesia di Roma. Venne ratificato il primato del soglio di Pietro, cioè la cattedra romana, su tutti gli altri vescovi. Nel contempo poneva termine alla disputa monotelitica. Nella capitale orientale, come campione di Roma e della chiesa romana, c’era Giovanni, futuro pontefice e siriano di nascita: l’uomo giusto per riconciliare tra Oriente ed Occidente.
Costantino IV rinunciava quindi ufficialmente al suo diritto di poter dire l’ultima parola in fatto di dottrina religiosa. Nel contempo investiva il papa della superiorità morale ed ecclesiastica. Questo cambio di atteggiamento non fu dettato solo dalla sconfitta di Costante (che era suo padre). Dal 674 al 678 gli Arabi tentarono diverse sortite per conquistare Costantinopoli, e solo il fuoco greco salvò la capitale dell’Oriente. Il califfo Muawiya fu costretto a concludere un trattato di pace umiliante, con il quale si stabiliva che gli Arabi dovevano versare tremila monete all’anno nelle casse bizantine. Era la prima grande sconfitta araba. I khan degli Avari e degli Slavi riconobbero in Costantino il loro legittimo sovrano. Effettivamente l’impresa, già menzionata nel capitolo precedente, fu paragonabile a quella di Carlo Martello a Poitiers.
Se gli Arabi erano stati arginati, ciò non si può dire per i Bulgari, che strariparono nella Mesia, occupandola e costringendo Costantino ad una resa incondizionata. Per la prima volta nella storia l’imperatore si impegnava a pagare tributi a favore del nuovo “impero” bulgaro, che veniva anche ufficialmente riconosciuto come tale.
Era, quindi, il momento di mettere pace tra le due anime della Chiesa cristiana. Oriente ed Occidente avevano fronteggiato le stesse peripezie. Costantinopoli aveva perso l’Egitto, la Siria, si era ritrovata quasi perduta di fronte agli Arabi. Una minaccia nuova incombeva da nord, i Bulgari. Serviva coesione. Costantino e la sua corte furono d’accordo nel trovarla anche in ambito clericale.
Il papa di Roma diventava, grazie alle vittorie ottenute in vent’anni di conflitti aspri e durissimi, il più importante vescovo della cristianità. O meglio, lo ridiventava. Costantinopoli aveva tentato di soffiargli il posto, ma la capillarità con cui si stava sviluppando la Chiesa romana giocò un ruolo fondamentale. Sì, perché la dottrina si stava diffondendo in tutta Europa, dai più piccoli villaggi alle lande più desolate dell’antico Impero Romano. E anche oltre.
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