Capitolo Undicesimo - I missionari di Cristo

Se la Chiesa di Roma aveva aumentato in modo così esponenziale la sua influenza politica fu grazie soprattutto all’opera dei missionari cristiani che in quei secoli bui portavano un po’ di luce nella vecchia Europa imbarbarita.

I MISSIONARI CRISTIANI
Quando, il 9 agosto del 378, i Goti di Fritigerno e Atanarico distrussero l’esercito imperiale ad Adrianopoli, portarono con sé una religione abbastanza nuova: l’Arianesimo. Da tempo avevano abbandonato le antiche credenze dei loro padri, cioè gli dei norreni. Colui che era riuscito a sradicare il paganesimo dalla loro mente rispondeva al nome di Ulfila. Era stato inviato presso il popolo goto intorno al 348, incaricato dal vescovo di Costantinopoli, Eusebio, di evangelizzare quei barbari e portarli sulla retta via del Signore.
A regnare sui Goti, a quel tempo, era Ermanarico, legatissimo alle tradizioni e quindi a Odino, Thor e tutto il Valhalla. Ulfila non si perse d’animo e cominciò la sua opera di diffusione della dottrina di Ario, che era stata dichiarata eretica dalla chiesa ufficiale ma faceva gran presa su quei barbari nomadi. Probabilmente la ragione della loro conversione fu essenzialmente politica. Erano barbari, ma non stupidi. Ormai erano diventati federati dell’Impero Romano e quindi dovevano professare la stessa religione. Ulfila tradusse in lingua gota il Vangelo. Anzi, inventò di sana pianta una lingua gotica scritta: i suoi caratteri, detti rune, furono il primo alfabeto di quel popolo barbaro.
A ruota seguirono tutti i vari ceppi che affollavano l’albero genealogico del popolo goto: Visigoti, Vandali, Ostrogoti, Longobardi. Poco importava che fosse una dottrina ufficialmente eretica. Di queste cose, a loro, non importava. Importava invece conoscere la vita e i miracoli di Gesù, della Madonna, dei Santi. Probabilmente li consideravano per molti versi simili ai loro dei, ma un po’ meno crudeli e un po’ più noiosi.
Il compito di convertire i popoli goti non era difficile, era semplicemente pionieristico. I destinatari della conversione sapevano che quella era necessaria e l’accettavano abbastanza pacificamente. Dopotutto, i missionari arrivavano con il mandato diretto dell’Impero Romano. Tutt’altra storia quando l’Impero non ci fu più.
LA BRITANNIA
Nel territorio più lontano da Roma sia fisicamente che culturalmente, la Britannia, il cristianesimo si era radicato già dal IV secolo grazie alle legioni di Costanzo Cloro, padre di Costantino il Grande. Abbiamo già spiegato nella “Caduta dell’Impero Romano d’Occidente” la scalata al potere di questa religione derivata dal mitraismo. In quella fase primordiale le comunità cristiane si affiancano alle classi dirigenti, ma sono ancora staccate dalla società e dalla popolazione autoctona. I Britanni erano pagani, adoravano la luna, il sole, la terra: i loro sacerdoti erano i druidi, custodi di una antichissima conoscenza, risalente a duemila anni prima della nascita di Cristo.
Abbiamo certezza di vescovi nelle due città più importanti: Eburacum (York) e Londinium (Londra). Il loro ruolo, rispetto ai colleghi continentali, sarà sempre limitato e non radicalizzato sul territorio. Bisognerà quindi aspettare una ventata di novità per diffondere la dottrina cristiana in quella terra lontana. Anche perché quell’Impero che faceva da culla alla diffusione del cristianesimo venne spazzato via dalle cause che ben sappiamo. La Britannia fu la prima provincia a staccarsi data la sua posizione più decentrata e la sua limitata importanza commerciale e produttiva. I barbari che la invasero si chiamavano Sassoni e venivano dalla odierna Germania, anche se le loro saghe indicavano (come sempre) una stirpe scandinava. Questa popolazione viveva già in Britannia all’inizio del IV secolo: era per la maggior parte formata da mercenari e in minima parte dalle loro famiglie.
Questi guerrieri, come i loro “colleghi” visigoti, franchi, ostrogoti o longobardi, si ribellarono all’autorità romana, disfecero le poche legioni rimaste e presero possesso dell’isola schiavizzando la popolazione, che da questo momento diventa anglosassone (misto di Angli e Sassoni).
Invece di creare un solo regno ne crearono ben sette: Mercia, Kent, Essex, Northumbria, Anglia Orientale, Sussex e Wessex: la cosiddetta eptarchia anglosassone. Non erano che larve di staterelli, ma non passava giorno che non si combattessero tra di loro. Ci vorranno altri trecento anni per mettere un po’ di ordine.
In una tale situazione era difficilissimo evangelizzare quei barbari. Ma Gregorio Magno, che aveva la stoffa dello statista e non del santo, capì una cosa fondamentale: bisognava mandare una vera e propria task force all’assalto delle anime degli Anglosassoni. Per i Franchi, i Longobardi, i Visigoti o gli Ostrogoti non servivano dei missionari: quelle popolazioni si erano trasferite in territori romanizzati con istituzioni romane già radicate. Erano loro a doversi adattare alla Chiesa, non il contrario. In Britannia, invece, servivano degli uomini in missione.
Il terreno l’aveva già preparato Patrizio, un monaco irlandese la cui figura è avvolta quasi completamente nel mistero. Alcuni lo sovrappongono a Palladio, un chierico di nobile famiglia galla mandato in Irlanda come predicatore. Altri, e forse hanno ragione, lo identificano come un semplice frate di origine britanna che decise sua sponte di catechizzare gli Irlandesi dopo essere stato rapito da una masnada di pirati e condotto a forza sull’isola. Durante la prigionia faceva il pastore e ascoltava la parola di Dio, che naturalmente gli comunicò di diffondere il suo Verbo a tutti. Siccome il testo principale su cui basiamo la sua vita sono le sue Confessioni, dobbiamo scindere il fantastico con il reale. Probabilmente Patrizio è stato uno dei primi missionari ad attraversare la Manica e insegnare la vera fede ai pagani. L’Irlanda lo venera come santo patrono e a lui sono dedicate miriadi di chiese in tutto il mondo.
Quel che è certo è l’invio di monaci romani in Kent nel 597 ad opera di Gregorio. Nelle sue Epistole il grande papa ci racconta che la missione era stata richiesta a gran voce da Agostino, arcivescovo di Canterbury. Ecco le sue parole: “ci è pervenuta notizia che la stirpe degli Angli desidera ardentemente, per misericordia di Dio, convertirsi alla fede cristiana, ma che i sacerdoti delle regioni vicine non se ne curano e si astengono dal rinfocolare con incoraggiamenti i loro desideri”. Il linguaggio aulico nasconde la verità: quei sacerdoti erano reticenti non perché non svolgessero bene il loro lavoro, ma perché i regnanti glielo impedivano. Nel Kent, invece, il re Etelberto aveva sposato una principessa cristiana di origine franca, Berta, che si era portata dietro il vescovo Liutrado. Questo sovrano desiderava elevarsi dalla semplice schiatta di capotribù con un bel matrimonio dinastico. E siccome i Franchi erano cristiani ortodossi, non poteva esimersi di diventarlo ufficialmente anche lui. E con lui il suo popolo.
L’impegno di questi primi missionari fu notevole. Vennero innalzate chiese, raccolte reliquie (per la maggior parte, si suppone, clamorosi falsi), indette feste liturgiche, organizzate processioni. Quel dispiegamento di forze ecclesiastiche, unito al fatto che la nuova religione era appoggiata dalle elite che detenevano il potere, rese la popolazione pronta ad accogliere il cristianesimo.
Dopo Etelberto si convertì anche il nipote, Saebert, re dell’Essex, e Raedwald, re dell’Anglia Orientale. Anche questi due sovrani compresero l’importanza tattica di abbracciare la nuova religione. L’isolamento di cui godeva la Britannia da quasi duecento anni cominciava a scricchiolare. I commerci da e per il continente non erano diffusi ma comunque crescevano. Era necessario uniformarsi al credo vigente di tutta il vecchio Impero Romano.
Con questo non vogliamo dire che l’impresa dei missionari fu facile. Anzi. A nord e in Scozia fu difficilissima. Ma venne facilitata dalla presenza dei due più grandi missionari del Medioevo: entrambi si chiamavano Columba ed erano irlandesi. In realtà Columba in lingua celtica significa “colomba della chiesa”. Probabilmente questo nome gli fu apposto dai suoi biografi successivi per impersonificarli con il volatile simbolo della pace vola da una terra all’altra portando la parola del Signore. Per facilitare il compito del lettore chiameremo Columba colui che svolse la sua opera predicatrice in Britannia e Colombano (latinizzato) colui che la svolse in Italia.

Columba nacque nel 521 in Irlanda da nobili origini: pare che fosse il nipote di un antico re irlandese. Le leggende tendono sempre a mitizzare i personaggi che poi diventeranno grandi. Probabilmente era un semplice popolano dotato di intelligenza e fortuna che entrò in un monastero: l’unico luogo in cui si poteva far carriera al di fuori dell’esercito. Dopo aver compiuto una buona carriera ecclesiastica, decise di intraprendere una missione pioneristica nella selvaggia terra di Scozia, che allora era divisa tra Pitti e Scoti. Gli eserciti romani avevano provato a sottomettere quelle popolazioni ma non ci erano mai riusciti: si erano fermati sul fiume Tyne, in Northumbria, ed avevano costruito un muro per non tenerli lontani, il Vallo di Adriano. Nonostante la fortificazione questi uomini selvaggi che si dipingevano il viso di blu e combattevano con la furia degli Unni, esondavano spesso e volentieri nei possedimenti romani, distruggendo e saccheggiando. Essendo quasi ai confini del mondo, erano rimasti ad un livello tribale quasi pari a quello del Neolitico.
Columba salpò dall’Irlanda con dodici compagni su un currach, un tipo di barchetta di legno più simile ad una scialuppa che a un natante, con cui affrontò le acque burrascose dell’Atlantico. Dopo qualche giorno di navigazione arrivò su una minuscola isola deserta coperta di brughiera e perennemente sferzata dai venti del nord. Chi scrive ha viaggiato in ottobre dalla costa occidentale scozzese sino a quest’isola, che si chiama Iona. La sensazione che pervade l’animo nel momento in cui si attracca vanno dalla desolazione per una terra brulla e inospitale ad una pace interiore quasi eterea grazie al silenzio e al misticismo che permea l’aria. L’oceano, quando lo si guarda da quell’isola, appare un immenso mantello grigio-azzurro con riflessi perlacei dal quale sembra nascere il cielo offuscato da nubi velate, nelle quali ognuno, se si ferma per alcuni minuti a contemplarle, può immergersi e rievocare i suoi ricordi. Ogni singola roccia, ogni ciottolo, ogni erba, racconta una storia millenaria intrisa di preghiere, morti, riti celtici.
Su quell’isola Columba edificò la sua abbazia, dalla quale nel corso delle generazioni innumerevoli monaci partiranno per fondare i loro monasteri in giro per il mondo: tra questi anche Colombano che troveremo presto in Italia. Come tutte le chiese anglosassoni, accanto c’è un cimitero: vi sono sepolti i capiclan, 48 re scozzesi, 8 norvegesi, 4 irlandesi e due francesi. La croce celtica che viene conservata al suo interno è un mirabile esempio di arte mistica intrisa di una forza primitiva, preistorica: simbolo di un passaggio graduale dal druidismo al cristianesimo.
Dall’abbazia Columba si sposò in tutto il territorio scozzese per convertire i Pitti alla vera religione. I suoi miracoli sono innumerevoli. Il più famoso lo vede protagonista sul lago Nesa, infestato da un enorme serpente acquatico. “L’uomo benedetto alzò la sua mano santa, mentre tutti, sia i confratelli sia gli abitanti del luogo, erano paralizzati dal terrore, e, invocando il nome di Dio, tracciò il segno della croce nell’aria e ordinò al mostro: Tu non disturberai e non toccherai più alcun uomo; vattene via ora”.
In un’altra occasione Brude, un capoclan del Pitti, fece serrare le porte della città in faccia a Columba, che per tutta risposta le aprì senza neppure toccarle. A quella vista, il sovrano si convertì e con lui tutto il suo clan.
I suoi miracoli annoverano diavoli scacciati da secchie di latte, maghi resi inoffensivi, tempeste placate, resurrezioni. Come tutte le vite dei santi, è da prendere con le molle. Però è innegabile che quest’uomo abbia compiuto un’impresa veramente gigantesca: evangelizzare delle tribù rimaste al livello neolitico, divise e in perenne lotta tra loro. La forza morale e spirituale di Columba e dei suoi compagni spiccava come un alone di santità, che anche se non visibile era percepibilissimo. I druidi, custodi dell’antico culto, lasciavano posto al moderno predicatore. La Chiesa trionfava in Scozia.

Eccoci all’altro grande missionario irlandese: Colombano. Di umili origini, fu accolto ed istruito da un certo Sinell, che divenne il suo maestro insegnandogli a scrivere, a leggere, la retorica, la geometria, le arti liberali e soprattutto le Sacre Scritture. A quindici anni sentì la vocazione di farsi entrare in monastero nonostante l’opposizione della madre e dei membri del suo clan, ed entrò nell’abbazia di Bangor, che era appena stata fondata dall’abate Comgall. Al compimento del suo quarantanovesimo anno, quindi in età molto tarda per l’epoca, maturò la decisione di lasciare la comunità dei chierici per predicare il Vangelo sul continente.
Insieme ai canonici dodici confratelli (come i dodici apostoli di Gesù), passò in Britannia, poi in Francia ed infine in Italia, il fine del suo viaggio. Il suo obiettivo era quello di evangelizzare il popolo longobardo, ancora in grandissima parte ariano con tendenze, come abbiamo visto, profondamente pagane. Al suo arrivo, nel 612, a Milano, fece scoppiare una mezza rivoluzione. Innanzitutto si scagliò contro i Longobardi ariani scrivendo contro di loro un trattato che è andato perduto. Il re, Agilulfo, convintamente ariano ma condizionato dalla moglie Teodolinda, fece spallucce e lasciò fare, com’era previsto in quella politica “di distensione” voluta da Gregorio Magno negli anni precedenti.
Colombano, però, si scagliò duramente anche contro la Chiesa romana, imputandole una eccessiva litigiosità (e aveva ragione). In particolare, in quel periodo era molto in voga una delle tante eresie che costellano l’Alto Medioevo: il Tricapitolismo. Senza addentrarci nella solita lagna teosofica, sosteneva la dottrina di Nestorio, quello che affermava la totale separazione delle due nature di Cristo, umana e divina. Siccome questa dottrina si era radicata soprattutto ad Aquileia, i papi le facevano la guerra senza esclusione di colpi. Il monaco irlandese, che in mente aveva solo un percorso di santità e preghiera, tuonò contro quelle divisioni spesso inutili e dannose.
Siccome Colombano era un grande predicatore e non andava tanto per il sottile, la gente lo capiva e lo seguiva. Nell’autunno del 614 cominciò i lavori di ristrutturazione dell’antica chiesa di san Pietro a Bobbio, un villaggio di poche centinaia di anime vicino a Piacenza. Quel rudere divenne un’abbazia destinata a divenire il cuore culturale dell’Italia altomedievale. Si fece anche un nemico piuttosto in alto: il vescovo di Tortona, che cercò di porre sotto la sua giurisdizione l’abbazia, allettato dalle ricchezze che provenivano dalle numerose donazioni, ma non riuscì nel suo intento.
Il monastero rivestirà un’importanza decisiva per la Chiesa italica nei rapporti con i Longobardi. Il pezzo di terra su cui sorse infatti l’abbazia, era stato donato a Colombano direttamente dal re Agilulfo. Nello stesso anno, il 614, re Clotario II dei Franchi lo pregava di tornare in Gallia. Era diventato ambitissimo da due dei principali popoli barbarici d’Europa: anzi, ex-barbarici. Con Bobbio si apre una nuova pagina della storia cristiana perché quel piccolo centro diviene il simbolo della civilizzazione dei barbari. In essa verranno custoditi innumerevoli manoscritti e diverrà fucina di altri monaci che negli anni e nei secoli a venire si spargeranno in Europa per diffondere la parola di Dio. Anche la Chiesa romana, che dapprima aveva avversato Colombano, dovette accettare la sua supremazia culturale. Solo qualche secolo dopo Cluny gliela contenderà. Ma le riconoscerà di esserne discendente diretta.
LA FRANCIA
Nell’antica Gallia il proselitismo cristiano non si era mai fermato. Gli abitanti, alla caduta dell’Impero, erano stati inglobati dai Franchi, ma non avevano mai smesso di professare la propria religione. Gl’invasori erano stati abbastanza miti nel concedere una libertà di culto che non ledesse il potere politico della loro elite guerriera. Solo in poche occasioni si erano dimostrati dei barbari sanguinari, a differenza dei Visigoti e dei Burgundi. A partire dal III secolo, moltissimi ufficiali romani avevano origine franca: erano considerati validissimi generali, ottimi soldati e soprattutto dotati di lealtà e senso dell’onore. Gli esempi di Nevitta, Cariobaude e Mallobaude valgano per tutti. Quindi, in Gallia, il passaggio dall’Impero al regno romano-barbarico non fu certo indolore ma fu meno traumatico dell’Italia o della Spagna.
L’opera di cristianizzazione venne facilitata dall’accordo tra Clodoveo I, il primo grande sovrano franco, e la chiesa galla. Gregorio di Tours, nostra fonte principale, diventa il paladino dei Franchi, esaltandoli come eroi. La ragione di questa conciliazione sta nel fatto che le proprietà ecclesiastiche in Francia erano molto estese, come documentato da numerosi ritrovamenti archeologici ed iscrizioni in tutta la Provenza: il potere politico l’avevano già in mano i chierici, e i Franchi si inserivano come “custodi” della pace.
Clodoveo si fece battezzare a Reims il 24 dicembre del 496 e passò la sua vita a concedere privilegi e proteggere i cristiani. Non cercò mai di forzare la mano per convertire i suoi compatrioti, ma la religione pagana ormai non era ben accetta. Anche quando, nel 507, invase il regno dei Visigoti, sconfiggendoli, ebbe rispetto delle proprietà ecclesiastiche e dei monaci. La popolazione ariana venne “invitata” a convertirsi al vero credo: ed infatti si convertì in massa.
Per molti versi Clodoveo fu il primo sovrano “paladino” del cristianesimo. Grazie a questo connubio potè porre sotto la stessa corona popoli con tradizioni simili ma che erano rimasti soggetti a regni diversi. Da molti viene considerato il vero fondatore della dinastia merovingia, che si manterrà alla guida della Francia sino all’avvento di Carlo Magno.
LA SPAGNA
L’altro grande territorio romano che era andato perduto era la Spagna, la terra di nascita di Teodosio il Grande e Traiano. I primi a penetrarvi furono gli Svevi, un popolo molto numeroso che aveva conquistato una certa autonomia nel ceppo germanico. In origine alleati con i Vandali e gli Alamanni, la loro migrazione li aveva portati nell’odierna Galizia, dove avevano stabilito un regno abbastanza forte e coeso. Il primo re, Ermerico, nel 433 utilizzò per la prima volta come ambasciatore un vescovo locale, Sinfosio: questo dimostra la già avvenuta intesa tra il potere ecclesiastico e quello barbarico. In origine la loro religione era quella cristiana ortodossa, ma verso la fine del secolo V prevalse l’Arianesimo. Fu solo grazie all’intervento di Martino, vescovo di Braga, che re Teodemaro riportò i suoi sudditi sulla retta via (come racconta entusiasta Gregorio di Tours). Dopo aver raggiunto la loro massima estensione territoriale, gli Svevi non furono in grado di far fronte alla valanga dei Visigoti che li travolse ricacciandoli in un angolo della Galizia sulla sponda nord-occidentale della penisola iberica, affacciati sull’oceano e lontanissimi dalle rotte commerciali che contavano.
All’inizio i Visigoti mantennero un atteggiamento di ostilità verso il clero, ma poi capirono che dovevano allinearsi con le tendenze europee. I loro vicini, i Franchi, costituivano un pericolo costante, ed erano diventati cristiani. Per questo i sovrano visigoti intrapresero una politica di riconciliazione sempre più efficace culminata con la conversione in massa decretata da Recaredo nel 587. Da segnalare che in Spagna, a differenza di Francia e Britannia, viveva una forte minoranza etnica ebrea, che subì, nel corso dei secoli di dominazione visigota, molte persecuzioni, alcune davvero crudeli.

Con questa carrellata sulle principali realtà europee che passavano sotto il segno della Croce di Cristo possiamo terminare e tornare alla nostra storia principale da dove l’avevamo lasciata. Cioè all’inizio dell’VIII secolo.

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A vostra disposizione le mie pubblicazioni, buona lettura!

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