NIZZA, Febbraio 28, 1765
Caro Signore, - Nulla può essere più gradevole agli occhi di uno straniero, specialmente nelle calure d’estate, del gran
numero di fontane pubbliche che appaiono in ogni angolo di
Roma, abbellite da tutti gli ornamenti della scultura, e che riversano prodigiose quantità di fresca e deliziosa acqua, qui portata tramite gl’acquedotti dai laghi, dai fiumi e dalle fonti,
anche molto distanti dalla città. Queste opere sono le rovine della munificenza e dell’industriosità degli antichi Romani, che erano estremamente raffinati in fatto di acqua: ma, comunque, grande plauso dev’essere tributato a quei caritatevoli papi che hanno speso molto denaro per restaurare e riparare questi nobili canali di vita, piacere e comodità.
Questa grandiosa abbondanza d’acqua, però, non ha indotto i Romani ad essere amanti della pulizia. Le loro strade, e anche i loro palazzi, sono disonorati dal sudiciume. La nobile Piazza Navona è ornata da tre o quattro fonate, una delle quali è forse la più stupenda tra tutte quelle d’Europa, e dispensano enormi getti di acqua; eppure, nonostante questa fornitura, la piazza è sporca quasi come West Smithfield, il luogo dove a Londra si vende il
bestiame. I corridoi, le arcate e perfino le scalinate dei palazzi più raffinati sono depositi di sporcizia, e soprattutto in estate puzzano di ammoniaca liquida.
Mi son fatto l’idea che i loro antenati non fossero molto più puliti. Se consideriamo che
la città e i suburbi di Roma, nel regno di Claudio, ospitavano circa sette milioni di abitanti, un numero equivalente almeno alla somma totale di tutte le anime d’ Inghilterra; che quella grandiosa parte dell’antica Roma era destinata ai templi, ai portici, alle basiliche, ai teatri, alle terme, ai circhi, ai viali ed ai giardini pubblici, dove un numero esiguo di abitanti era alloggiato; che la gran parte di questi abitanti erano schiavi e poveri, che non godevano delle comodità della vita; e che l’uso del lino era scarsamente praticato; dobbiamo concludere che i cittadini romani erano stranamente stipati, e che costituivano una popolazione maleodorante. Il fatto che fossero tutti accalcati insieme appare evidente dall’altezza delle loro case, che il poeta Rutilio paragonava a torri costruite per scalare il cielo. Allo scopo di rimediare a questo inconveniente, Augusto Cesare emise un decreto con cui si stabiliva che per il futuro nessuna costruzione avrebbe dovuto superare i settanta piedi d’altezza (circa sei piani). Ma ciò che sembra essere la prova definitiva che gli antichi Romani erano creature laide, son questi due particolari. Vespasiano introdusse una tassa sull’ orina e sulla sozzura, con la scusa che pulire le strade da queste seccature comportava una grande spesa pubblica; tale imposta ammontava a circa quattordici pence all’anno per ogni individuo; e quando Eliogabalo ordinò di raccogliere tutte le ragnatele della città, si scoprì che il loro peso arrivava a diecimila libbre.
Questa è la dimostrazione del grande numero di abitanti della città ma anche della loro eccezionale lordura, ancor più che della loro popolosità. Posso anche aggiungere il raffinato costume di vomitare durante le cene, o durante i pranzi, tanto che devono addirittura preparare i loro stomaci per ingozzarsi a dismisura: una prova bestiale dell’ indecenza e della ghiottoneria di questi Romani. Orazio, nella sua descrizione del banchetto di Nasiedeno, dice che quando il baldacchino sotto cui sedevano veniva fatto cadere, raccoglieva tanta sporcizia quanta ne avrebbe raccattata un soffio di vento.
- trahentia pulveris atri,
quantum non aquilo Campanis excitat agris.
Tante nuvole di polvere mulinano al suo seguito
quante Borea ne fa turbinare lungo la pianura.
Posso aggiungere che le strade erano spesso ostacolate dalle carcasse in putrefazione dei criminali che erano stati trascinati per i talloni e fatti precipitare dalle Scalae Gemoniea, o Rupe Tarpea, prima di essere gettati dentro al Tevere, che era il ricettacolo della cloaca massima e di tutte le sporcizie di Roma: inoltre seguivano lo stesso destino i suicidi senza sufficiente causa; coloro che erano condannati per sacrilegio, o coloro che erano stati uccisi
da un tuono, venivano invece lasciati insepolti per terra.
Io credo che i moderni Romani conservino molti degli usi degli antichi Romani. Quando vidi per la prima volta gli infanti dell’enfans trouves di Parigi, così avvolti nei bendaggi, tanto che la loro vista mi riempì gli occhi di lacrime, pensai che la prescrizione degli antichi Francesi avrebbe potuto essere difesa, pur se scioccante ed assurda: ma nel Capitolo di Roma, mi imbattei in una statua antica di un bimbo avvolto in fasce nella stessa maniera, arrotolato come una mummia egizia dai piedi alla testa. La circolazione del sangue, in questo caso, credo che venga ostruita nell’intera superficie del corpicino; e nulla viene lasciato fuori eccetto la testa, che poi sarebbe l’unica parte che potrebbe essere confinata. Non è sorprendente che il senso comune non debba prendersi la briga di far notare, anche alla persona più ignorante, che questi bendaggi portano il piccolo a contrarre la febbre, ad impacciare l’azione dei muscoli e delle giunture, così necessari alla salute e alla nutrizione; e che mentre il sangue refluo viene ostruito nelle vene, che scorrono sulla superficie del corpo, le arterie, che invece scorrono all’interno, senza la compressione, continuano a portare sangue alla testa, dove questo non trova resistenza? I vasi del cervello sono naturalmente molli, e le stesse suture del cranio sono aperte. Quali sono le conseguenze di questo crudele avvolgimento nelle fasce? Le membra vengono rovinate, le giunture si sviluppano rachitiche, il cervello viene compresso, e quindi si forma un idrocefalo, con la testa grande e gli occhi piagati. Ritengo questa abominevole pratica la causa principale delle gambe storte, dei fisici minuti e delle teste grosse che si trovano nel sud della Francia e in Italia.
Non fui meno sorpreso di trovare la moderna moda di arricciare i capelli, presa in prestito dai damerini e dalle civette dell’antichità. Vidi infatti un busto di Nerone nella galleria di Firenze con i capelli riccioli come un petit-maitre Francese, corrispondente alla descrizione fatta da Svetonio. Circa cultum adeo pudendum, ut coman semper in gradus formatam peregrinatione achaica, etiam pene verticem sumpserit, Così sofisticato nel suo abito, che egli modellava la sua chioma secondo la moda Greca, arricciata sino alla cima della testa. Fui dispiaciuto di scoprire che questa frivolezza veniva dalla Grecia. Come Ottone, egli vestiva un galericulum, o galerino, per assottigliare i capelli, propter raritatem capilorum. Non aveva egli nessun diritto di imitare l’ esempio di Giulio Cesare, che nascondeva il suo capo pelato con una ghirlanda di lauro. Ma c’è un busto nel Capitolo di Giulia Pia, seconda moglie di Settimio Severo, con una parrucca, con la sola differenza che non era arricciata in nessuna parte; né c’erano tracce di pomatum e cipria. Di questi miglioramenti del bel mondo siamo debitori dei nativi del Capo di Buona Speranza.
La moderna Roma non ricopre più di un terzo dello spazio all’interno delle mura; e quelle parti che erano più frequentate nei tempi antichi oggi sono completamente abbandonati. Dal Capitolo al Colosseo, compresi il Foro Romano e Boario, non v’è nulla d’integro eccetto una o due chiese costruite con frammenti di antichi edifici. Discendete dal Capitolo tra i pilastri ancora in piedi di due templi, mentre i piedistalli e altre parti sono sprofondati nei rifiuti: poi passate attraverso l’arco di trionfo di Settimio Severo, proseguite lungo i piedi del Monte Palatino, che rimane alla vostra destra, abbastanza ricoperto dalle rovine dell’antico palazzo appartenente agli imperatori Romani, con ai piedi bellissime colonne ancora in piedi e intatte. Sulla sinistra vedrete le vestigia del Tempio della Pace, che pare esser stato il più ampio e splendido tra tutti i templi di Roma. Era stato costruito e voluto dall’imperatore Vespasiano, che lo riempì di tutti di tutti i tesori e i vasi preziosi che aveva trovato nel tempio di Gerusalemme. Inoltre le colonne del portico che aveva rimosso dalla casa aurea di Nerone.
Questo tempio era famosissimo anche per la sua biblioteca menzionata da Aulo Gellio. Più avanti troverete l’arco di Costantino sulla destra, un nobilissimo pezzo d’architettura, quasi integro; di fronte ad esso le rovine del Meta Sudans; di fronte a voi, i signorili resti di quel
vasto anfiteatro chiamato Colossaeum, ora Colosseo, che era stato smantellato e demolito dai papi gotici e dai principi della moderna Roma per costruire i loro palazzi patrizi. Dietro all’anfiteatro si trovavano le terme dello stesso imperatore Tito Vespasiano. Nel medesimo quartiere v’era il Circo Massimo; e tutto lo spazio da qui sino alle mura, equivalente a circa il doppio del territorio della città moderna, è quasi ricoperto da monumenti dell’ antichità.
Suppongo che sottoterra si celi ancora più bellezza di quanta ne appare sopra. Le case dei plebei, e perfino le pareti delle abitazioni, sono realizzate con materiali preziosi. Voglio dire: capitelli e colonne di marmo, teste, braccia, gambe e tronchi mutilati di statue. E’un peccato che in mezzo a tutte le vestigia di Roma non vi sia rimasta una sola pensione dell’antichità. Mi piacerebbe sapere dove venivano alloggiati tutti i senatori di Roma. Voglio essere meglio informato riguardo alla cava aedium, al focus, all’ara deorum penatum, ai conclavia, ai triclinia, ai caenationes, agli atria dove risiedevano le donne e dove venivano impiegate nella manifattura della lana, ai praetoria (così spaziosi da diventare una seccatura durante il regno di Augusto, e la Xysta, il camminamento che procede tra due portici, dove gli uomini si esercitavano in inverno. Sono disgustato dal gusto moderno dell’architettura, sebbene non sia un critico d’ arte. Le chiese ed i palazzi di oggi sono affollati da ornamenti carini che distraggono lo sguardo, ma che, rompendo il disegno generale in una moltitudine di piccole parti, distruggono l’effetto d’insieme. Ogni porta e ogni finestra ha delle decorazioni separate, come le cornici, i fregi e il timpano; da ciò ne consegue un tale assemblaggio di inutili festoni, colonne, pilastri, con i loro architravi, trabeazioni e altri oggetti, che non rimane nulla di grandioso o uniforme da appagare la vista; ed invano noi cerchiamo la semplicità della grandeur, quelle grandi masse di luce e di ombre, e l’inesprimibile EUSUINOPTON, che caratterizza gli edifici degli antichi. Un grande palazzo, per avere questo effetto, dovrebbe essere isolato, o separato da tutti gli altri, con un grande spazio intorno ad esso: invece i palazzi di Roma, e invero di tutte le altre città d’Italia che io ho visto, sono così innestati in mezzo ad altre case, che la loro bellezza e magnificenza sono in grande misura nascoste.
Perfino quelli che affacciano su strade e piazze hanno la vista aperta solo sul davanti. Gli altri sono oscurati dalla vicinanza degli edifici ordinari, e le loro vedute sono ostacolate da oggetti orribili e sgradevoli. Dentro la corte di solito si trova una nobile colonnata ed un ampio corridoio, mentre le scale sono solitamente strette, ripide e scomode; la mancanza di finestre scorrevoli, lo squallore dei loro piccoli vetri losangati, i polverosi pavimenti di mattoni, ed i pensili cremisi ornati d’oro, contribuiscono a conferire un’aria tetra agli alloggi. A ciò si aggiunga un gran numero di Quadri raffiguranti soggetti malinconici, antiche statue mutilate, busti, bassorilievi, urne e pietre sepolcrali, che adornano le loro stanze. Sono concesse, tuttavia, alcune eccezioni. La villa del cardinale Alessandro Albani è piena di luce, allegra e ariosa; tuttavia le camere sono troppo piccole, e troppo decorate con sculture e oggetti dorati, ornamenti a mio modo di vedere troppo appariscenti. Gli appartamenti di uno dei principi Borghese sono ammobiliati secondo il gusto Inglese; e nel palazzo dei Colonna Connestabile c’è un salone, che per proporzioni, luci, mobilio, è la stanza più nobile ed elegante che abbia mai veduto.
E’divertente ascoltare tutti gli Italiani che si diffondono in tutta la grandezza della moderna Roma. Vi diranno che in città ci sono più di trecento palazzi; che ci sono pochi principi Romani la cui rendita non supera le duecentomila corone; e che Roma produce non solo gli uomini più colti, ma anche i più raffinati politici dell’universo. Ad uno che mi diceva queste cose, io replicai che il numero di palazzi non era di trecento, e che non oltrepassava gli ottanta; che mi era stato riferito, con buona autorità, che non c’erano neppure sei uomini a Roma con una rendita uguale a quattromila corone all’anno, cioè all’
incirca diecimila sterline; e che asserire che i loro principi erano così ricchi, e i loro politici così raffinati, costituiva solo una dura satira riguardo ad essi, la qual cosa non portava alcun vantaggio in termini di benessere e di talento alla loro nazione.
Chiesi perché i loro cardinali e i loro principi non incoraggiano i loro industriosi sudditi a sistemare e coltivare la Campania di Roma, che è un deserto. Perché non si impegnano a bonificare le paludi adiacenti alla città, così migliorando l’aria, che è resa estremamente malsana in estate a causa delle putride esalazioni provenienti da quei pantani? Gli domandai perché non contribuiscano con la loro ricchezza e con le loro raffinatissime arti politiche ad incrementare le forze armate di terra o di mare per difesa della nazione; perché non diano aiuti al commercio e alla manifattura visto che non c’è nessun altro Stato in Europa così tranquillo e sicuro.
Espressi il desiderio di sapere che cosa se ne fanno di tutte quelle somme di denaro, in quanto a Roma circolano miserrime quantità di oro e di argento, e gli stessi banchieri che
si occupano delle transazioni con gli stranieri, fanno pagare loro gli interessi emessi dalla banca di Spirito Santo.
E visto che stiamo parlando di questo, non può essere inopportuno osservare che io ero stranamente fuorviato da tutti i libri riguardanti la valuta corrente d’Italia. In Toscana, e nello Stato Ecclesiastico, non si vede altro che zecchini d’oro e pezzi da due paoli, un paolo, mezzo paolo, d’argento. Oltre a questi, c’è una moneta di rame che gira a Roma, il bajocco e il mezzo bajocco. Dieci bajocchi fanno un paolo: dieci paoli fanno uno scudo: due scudi fanno uno zecchino; e un loui’dore Francese vale due zecchini e due paoli.
Roma non ha nulla da temere dalle potenze cattoliche, che la rispettano con una venerazione superstiziosa come la sede metropolitana della loro religione: ma i papi faranno bene ad evitare malintesi con gli stati marittimi protestanti, specialmente l’Inghilterra, che essendo la padrona del Mediterraneo, e in possesso di Minorca, la tengono in pugno, e in ogni momento possono piombare con le loro truppe a quattro leghe da Roma stessa e catturare la città senza opposizioni.
Roma è circondata dalle vecchie mura, ma è comunque incapace di difendersi. O anche se lo fosse, il circuito delle mura è così esteso che ci vorrebbe una guarnigione di ventimila uomini. La sola parvenza di fortificazione è il castello di Sant’Angelo, situato sulla sponda più lontana del Tevere, alla quale si accede da un bellissimo ponte: ma questo castello, che
anticamente era la Mole Adrianorum, non potrebbe resistere mezza giornata contro una batteria di dieci pezzi di cannone appropriatamente diretti. La conversione di una antica tomba in cittadella è stata un’idea dei Romani moderni. Potrebbe però servire solamente come rifugio temporaneo per il papa in momenti di sommossa popolare o altre emergenze; questo accadde a papa Clemente VII quando le truppe dell’imperatore misero sotto assedio la città.
Sant’Angelo non potrà più servire a questo scopo, visto che il pontefice ora vive a Monte Cavallo, dall’altra parte della metropoli. Il castello di Sant’Angelo, comunque ridicolo come fortezza, appare stimabile come nobile monumento antico, e sebbene si trovi in un luogo infelice, è uno dei primi edifici che attirano lo sguardo di uno straniero. Sul lato opposto del fiume si trovano le squallide vestigia del Mausoleo di Augusto, che era splendido. Parti delle mura sono ancora in piedi, mentre i terrazzi sono stati convertiti in giardini. Nell’ammirare queste rovine, mi ricordai della patetica descrizione Virgiliana di Marcello, che è qui sepolto.
Quantos ille virum, magnum mavortis ad urbem.
Campus aget gemitus, vel que Tyberine, videbis
funera, cum tumulum, preter labere recentem.
Lungo i suoi Argini udirai gemere il Tevere,
e allora vedrai apparire la tomba!
La bellissima poesia di Ovidio De Consolatione ad Liviam, scritta sulle ceneri di Augusto e del nipote Marcello, di Germanico, Agrippa e Druso, furono depositate in questo mausoleo, e si concludevano con questi versi, che sono d’una tenerezza estrema:
Claudite jam Parcae nimium reserata sepulchra;
claudite, plus justo, jam domus ista patet!
Ah! Chiudete queste profonde Tombe, voi sorelle Parche!
Troppo a lungo sono rimaste spalancate queste terribili Porte!
Ciò che l’autore disse del monumento, sarai tentato di dire di questa lettera, che perciò io concluderò in vecchio stile, assicurandoti che io sono sempre – Tuo affezionato.
Nizza, 15 Gennaio 1765
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NIZZA, 28 Gennaio, 1765
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Nizza, 2 Aprile 1765
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