La politica di Liutprando era stata improntata sull’espansionismo e sulla affermazione della supremazia regia sul Papato.
L’Italia godeva da ormai tre decenni di una relativa stabilità, dovuta alla crescita della popolazione, all’aumento dei commerci e alla fusione tra elemento longobardo e italico. Furono consentiti i matrimoni tra Longobarde libere e Italici liberi, in tal modo favorendo la nascita di generazioni di Italici veri e propri.
Durante il regno di Liutprando, come dice benissimo Jorg Jarnut, “l’abisso religioso tra le due popolazioni fu colmato dalla quasi completa conversione al cattolicesimo dei Longobardi e il processo di livellamento sociale tra i due popoli fece considerevoli progressi”. Le generazioni dell’VIII secolo possono essere finalmente, a tutti gli effetti, chiamate italiche. Caratteristiche peculiari: la conservazione dell’eredità romana, la commistione con l’elemento barbarico-germanico e la fortissima presenza della Chiesa.
L’aristocrazia terriera dell’ultimo Impero Romano era stata quasi completamente distrutta. Le pochissime famiglie di stirpe romana che erano sopravvissute alle guerre e alle invasioni si erano rifugiate nei loro castelli e cercavano di sopravvivere integrandosi con i Longobardi, dei quali presero molti usi e costumi, pur conservando le proprie tradizioni. E’sbagliatissimo, quindi, affermare che tutta la stirpe romana sia stata spazzata via. Certo, sopravvivevano pochissime famiglie. Ma c’erano. Dobbiamo considerare, infatti, che la parte bizantina non aveva cambiato la propria società. Città come Napoli, Venezia, Ravenna e Roma vivevano ancora in modo simile al V secolo. Conservavano le istituzioni imperiale, anche se molto deboli.
Dobbiamo anche andare per logica: se i Longobardi che avevano invaso l’Italia erano circa trecentomila, come avrebbero potuto distruggere interamente una popolazione di quattro milioni di abitanti? O come avrebbero potuto distruggere un’intera classe sociale? Tanto più che, nel tempo, i duchi longobardi avevano bisogno di appoggi nelle amministrazioni pubbliche e nelle città occupate.
E’vero che fino all’epoca di Liutprando le due razze avevano fatto fatica ad integrarsi. Ma dall’VIII secolo nacque un nuovo ceto sociale formato dalla commistione dell’elemento longobardo-barbarico con l’elemento romano. Nasceva cioè una nobiltà di latifondisti profondamente cattolica, attaccata al proprio feudo, poco incline ai commerci e sfavorevole alle guerre. Quest’ultima caratteristica differenzia quei nobili italici con i nobili franchi o germanici. In Francia la stirpe dei Franchi dominava da almeno trecento anni, quindi si era radicata. I guerrieri franchi erano diventati dei professionisti della guerra: lo dimostra il fatto che erano stati loro a vincere gli Arabi. Per questa ragione in Italia non si sviluppò mai un ceto di cavalieri di cappa e spada, di quelli raccontati nelle Chansons de Rolande o quelli cantati nel Romanticismo.
Secondo Ruffolo, in questi anni si provoca la prima spaccatura tra nord e sud Italia: “un sentimento che diventerà una radice avvelenata del carattere nazionale, e che sta in aperto contrasto sia con la grande tradizione romana, sia con le esperienze che in quello stesso tempo accumulano negli altri paesi un patrimonio prezioso di coesione collettiva”. Più che una spaccatura tra settentrione e meridione, nella nostra penisola non si era formato uno “stato” neppure a livello embrionale. I ducati rimasero sempre molto indipendenti e spesso provocavano guerre interne. Questo fatto rese la dominazione longobarda molto fragile, ma nel contempo conservò le differenze tra i vari territori e le varie città, che poi saranno la fortuna dei Comuni a partire dall’anno Mille. Certo, neppure Liutprando riuscì a unire una confederazione di ducati: anche a causa della presenza del Papa.
Ma perché questi Longobardi erano così riottosi a formare una nazione? In Francia i Franchi ci erano quasi riusciti. Semplice: perché i Longobardi non erano mai venuti a contatti con i Romani, quindi non avevano alcuna concezione di autorità cui obbedire a parte il proprio sovrano, se era abbastanza forte. Appena potevano, i duchi riaffermavano la loro vocazione di capitribù. Per almeno due secoli, d’altra parte, rimasero chiusi nelle loro fare. I Franchi, al contrario, in Gallia ci abitavano già dall’inizio dal 350 d.C. Molti dei loro antenati, l’abbiamo già detto ma è opportuno ripeterlo, avevano servito l’Impero Romano. Voleva dire molto essere inquadrati in una disciplina che i Longobardi, purtroppo per loro, non ebbero mai.
NUOVI PADRONI
Liutprando morì nel gennaio del 744 lasciando il regno al nipote Ildebrando, che però venne deposto dopo soli otto mesi. Il successore, Ratchis, ex duca del Friuli, rappresentava una figura più forte. In primis, cercò l’intesa con papa Zaccaria, che fu ben lieto di stipulare una tregua di vent’anni. Poi sposò la nobile romana Tassia (a dimostrazione che qualche nobildonna di sangue romano esisteva ancora) per dimostrare in modo clamoroso la sua vicinanza ai sudditi di stirpe non longobarda. Rinunziò infine al titolo di rex gentis Langobardorum per prendersi quello più accettabile di princeps. Come afferma Jornut egli diventava in questo modo “una figura di sovrano in grado di favorire l’integrazione tra i due popoli”. Era quello di cui abbisognava l’Italia, ma le cose non andarono nel verso giusto.
I duchi, soprattutto quelli del nord, cominciarono a rumoreggiare. Questo loro atteggiamento ci riporta indietro al periodo post-Teodorico, quando Amalasunta cercò di integrarsi con i Romani. Se, però, gli Ostrogoti erano in Italia da tre decenni, i Longobardi avevano colonizzato la penisola quasi trecento anni prima: era ora che si integrassero pienamente. E invece, per la ragione spiegata prima, Ratchis trovò una fortissima opposizione interna, cui dovette piegarsi. Per dimostrare di essere ancora un guerriero barbaro, invase la Pentapoli e assediò Perugia, ma quando papa Zaccaria gli intimò di rinfoderare la spada, lui cedette senza fiatare.
I duchi ne ebbero abbastanza e gli diedero il benservito sostituendolo con Astolfo, un uomo prepotente, ambizioso e poco calcolatore: l’esatto contrario di quello che serviva. Riprese il titolo di re dei Longobardi e nel 751 mosse guerra all’Esarcato conquistando facilmente Ravenna. Poi mise gli occhi sul bersaglio grosso, cioè Roma. A cingere la tiara era Stefano II, un pontefice molto più energico di Zaccaria. Capì che i Longobardi erano fuori controllo e che il suo potere stava per subire uno scacco matto. Fece, dunque, la stessa cosa che aveva tentato il suo predecessore: chiamò in soccorso il maior dei Franchi, Pipino. E qui dobbiamo aprire una parentesi per parlare di questo popolo che sta continuamente rimbalzando nel nostro racconto. Sarà utile perché capiremo meglio la ragione per cui questi “maior” stavano diventando campioni di cristianità.
I FRANCHI
Nel 481 la Gallia nord-occidentale, pressappoco corrispondente al Belgio, alla Piccardia e all’Artois, era di proprietà esclusiva dei Salii, una tribù germanica (come al solito) particolarmente bellicosa. Il suo re, Clodoveo, era figlio di Childerico, un ufficiale barbaro federato dell’Impero Romano. Anche i suoi antenati avevano combattuto sotto le insegne delle aquile imperiali, come il resto della popolazione dei Franchi, di cui i Salii facevano parte. Il bisnonno, Meroveo (fondatore della dinastia, cioè i Merovingi), aveva combattuto con Ezio ai Campi Cataluni contro gli Unni. Clodoveo riuscì a sconfiggere gli Alamanni ed i Visigoti di Aquitania, annettendosi gran parte della Gallia. Si convertì al cristianesimo, primo re barbaro a farlo, per le ragioni che abbiamo già detto nel capitolo dedicato ai missionari cristiani. Occupava un territorio pieno di città grandi e prosperose: Metz, Parigi, Colonia, Orleans, Tournai. Il commercio non si era stoppato, era semplicemente inaridito. La Chiesa aveva accumulato enormi ricchezze. Non c’era un Impero Bizantino a reclamare diritti. Soprattutto, i Merovingi riuscirono a mantenersi al potere per molti secoli: furono la dinastia più longeva dell’Alto Medioevo. Portavano i capelli lunghi e coloro che venivano deposti o sconfitti subivano il taglio della chioma, la tonsura, un simbolo della perdita del loro rango nobiliare.
I Franchi riuscirono a mettere le mani sugli immensi tesori accumulati nel corso delle generazioni dai grandi latifondisti galli, a quanto pare più “risparmiatori” degli italici. Ogni sovrano possedeva amplissimi feudi, ma anche gli altri nobili non scherzavano. Ogni signorotto aveva il proprio esercito, i propri castelli, gestiva le proprie città. Sempre, beninteso, in piena sintonia con la Chiesa locale, meno maneggiona di quella romana. I vescovi venivano scelti e confermati dai nobili franchi, e da questi dipendevano in tutto e per tutto. Avevano poco da fare i furbi e infatti difficilmente si opponevano alle loro scelte.
Le lotte di potere furono frequenti, così come le guerre interne, ma nell’VIII secolo i Franchi erano riusciti a mettere insieme una nazione molto forte ed unita. Negli ultimi decenni, però, i sovrani merovingi conservarono solo formalmente l’autorità, che venne presa dai maggiordomi di palazzo, o maior. Carlo Martello era uno dei questi. Una volta assunta la carica riuscì a fermare l’invasione araba a Poitiers, riprese l’Alsazia e l’Aquitania e conquistò anche la Frisia. Nel 737, quando morì re Teodorico IV, Carlo decise di mantenere il potere nelle sue mani e di non acconsentire alla nomina di un successore. Oltre ad essere un grande guerriero, era anche un accorto politico: grazie al potere di cui disponeva regalò ai nobili e agli ecclesiastici che gli erano fedeli grandi appezzamenti di terreno in cambio del loro appoggio. Dal punto di vista formale, il suo era stato un vero e proprio colpo di stato. La legittima dinastia, i Merovingi, era stata esautorata.
Anche se gli ultimi sovrani erano degli inetti, tanto da essersi guadagnati l’appellativo di “re fannulloni”, possedevano comunque un titolo nobiliare che invece mancava a Carlo Martello. Perciò alla sua morte, avvenuta nel 740, scoppiarono grandi rivolte sedate solo tre anni dopo grazie alla rielezione di un merovingio, Childerico III.
I maggiordomi di palazzo erano i figli di Carlo Martello, Pipino e Carlomanno. Quest’ultimo decise di ritirarsi a vita monastica (non si sa quanto spontaneamente) sul monte Soratte con la benedizione di papa Zaccaria lasciando al fratello più giovane tutto il potere. La decisione di Carlomanno era stata probabilmente progettata a tavolino dalla Chiesa romana, in accordo con quella francese, che aveva scelto il proprio campione in Pipino. Gli effetti di questa decisione si vedranno tra poco, ma certamente già nel 746 il papa aveva in mente di sovvertire il regno longobardo pianificando un’alleanza con i Franchi e con chi, tra loro, deteneva il comando effettivo.
Pipino aveva ottenuto una implicita investitura papale ed ora poteva presentarsi davanti al concilio dei nobili franchi forte di questa protezione. Nel 751 i tempi erano maturi per un definitivo cambio al vertice. All’insaputa del povero Childerico, il potente maggiordomo di palazzo mandò a Roma una delegazione di vescovi, tra cui San Burcardo e Fulrado, abate di Saint Denis, col compito di porre al pontefice il seguente quesito: “è re chi possiede il titolo ma non esercita il potere, o colui che esercita il potere ma non detiene il titolo”? Zaccaria rispose naturalmente: “il re è colui che comanda”. L’investitura era completa. Dopo pochi giorni Pipino venne incoronato sovrano dei Franchi. Childerico venne rapato e mandato in convento.
La nobiltà franca non aspettava altro. Ormai i Merovingi venivano sopportati più che rispettati. Serviva una nuova dinastia che avesse un appoggio “dall’alto”. E chi più in alto del papa di Roma? Il concilio nobiliare, sebbene non proprio contento di farsi comandare da un uomo alto un metro e cinquanta come Pipino (che infatti era soprannominato “il Breve”), capiva che la protezione della Chiesa era davvero importante anche per i loro interessi personali. Tutti dovevano interfacciarsi con i vescovi del proprio territorio o della propria città. Tutti dovevano vivere in un mondo nel quale quell’entità sovrastatale contava davvero parecchio.
LA CALATA IN ITALIA
Astolfo guardava a queste manovre politiche con sfavore. Pur essendo alleato dei Franchi, temeva giustamente che una intesa tra Pipino e Zaccaria potesse isolarlo. La maggior parte dei duchi longobardi, però, spingeva per conquistare gli ultimi territori bizantini, con o senza l’approvazione del papa. L’Esarcato era stato ormai abbandonato da Costantinopoli, dove regnava Costantino V, figlio di quel Leone III Isaurico che aveva iniziato la lotta iconoclasta. Le fonti lo descrivono come crudele al massimo grado, fanatico, sofferente di ipertensione e probabilmente mezzo pazzo. A differenza del padre, lui nell’Iconoclastia ci vedeva una ragione di vita e di morte. Il patriarca Anastasio, sfavorevole a quella insensata lotta alle immagini sacre, fu fatto sfilare nell’Ippodromo a cavalcioni di un asino mentre il pubblico delirante lo insultava. Ma fu anche un soldato coraggioso e geniale. Vinse gli Arabi a Germanicea, in Siria, e nel mare di Cipro durante una memorabile battaglia dove distrusse la flotta musulmana. Ma il suo capolavoro lo ottenne quando invase la Mesopotamia e l’Armenia espugnando le due città maggiori, Teodosiopoli e Malitene. L’Impero Bizantino, grazie a Costantino V, era tornato all’offensiva contro gli Arabi.
Giocoforza l’Italia venne lasciata al suo destino. Astolfo conquistò Ravenna nel 751 e fece subito coniare delle monete con la sua effigie, chiaro segnale che voleva sostituirsi all’imperatore bizantino. Venezia stavolta non mandò alcuna flotta e Napoli diede sostanzialmente il suo favore al nuovo corso imperiale. Solamente a Roma il papa tergiversava.
Nel 752 al soglio pontificio era salito Stefano II, che esprimeva il partito più avverso ai Longobardi. Nell’Urbe si era arrivati a quest’elezione dopo un concilio burrascoso. I vescovi avevano un grande timore di inimicarsi Astolfo, ma nel contempo speravano in una protezione efficace da parte di Pipino.
Stefano prima tentò una trattativa con il re longobardo affinchè restituisse Ravenna all’Impero Bizantino: il 14 ottobre del 753 partì da Roma alla volta di Pavia insieme ad alcuni dignitari di Costantinopoli. Astolfo, nonostante lo sforzo conciliatorio del pontefice, non aveva però la minima intenzione di recedere dalle sue posizioni. Forse in quel momento il dissidio avrebbe potuto essere ancora sanato. Nessun papa aveva mai fatto un tentativo del genere: recarsi ai piedi del re e chiedere una pace umiliante, dal punto di vista politico, era già una vittoria per i Longobardi. I quali, però, di politica non ne capivano niente.
Dopo un mese di chiacchiere a vuoto, Stefano partì da Pavia alla volta della Francia. L’ultima possibilità era chiedere aiuto a Pipino, il quale non avrebbe potuto dirgli di no. Solo che il problema non era il suo assenso, ma quello del suo esercito.
Durante il viaggio, secondo il Liber Pontificalis, il pontefice vide una palla di fuoco sfrecciare nel cielo: in quel meteorite tutti videro simboleggiato Pipino che si schiantava con la sua potenza sugli odiati Longobardi. Stefano si incontrò con il sovrano franco nel suo palazzo di Ponthion, dove strinsero un patto di alleanza con il quale i Franchi scendevano in guerra contro Astolfo per proteggere il seggio di San Pietro.
Pipino aveva deciso di testa sua, senza chieder nulla al concilio nobiliare. Il 14 aprile, a Quierzy, si trovò subito davanti ad un muro perché molti cavalieri non volevano rischiare denaro, uomini e terre per una causa apparentemente lontana da loro. Non dimentichiamo, infatti, che non avevano alcun debito di riconoscenza verso il papa, a differenza del loro sovrano. Non avevano alcun interesse a rimetterci del loro per appoggiare una guerra contro un alleato, quale era Astolfo, per di più molto potente. Volevano una garanzia di vittoria.
Pipino ne mise sul tavolo una. Qui ci addentriamo in una storia abbastanza nebulosa. Le nostre fonti dicono solamente che il sovrano franco riuscì a convincere tutti con una prova di coraggio. Ma la realtà, a nostro parere, è diversa. Il fronte longobardo era molto forte a nord, ma molto debole dalla Toscana in giù. Il ducato di Spoleto, nel 751 era stato “commissariato” da Astolfo, che aveva assunto direttamente la carica di duca togliendo agli Spoletini la possibilità di scegliersi la propria guida: quest’azione non si era tradotta in una ribellione aperta, ma l’odio verso quel sovrano dilagava. Benevento invece era sempre stata calamitata verso Roma. Quindi i ducati di Spoleto e Benevento erano vicinissimi al papa e parecchio inclini al tradimento. Probabilmente Stefano aveva spiegato a Pipino che quei due ducati non sarebbero entrati in guerra se non marginalmente, e Astolfo avrebbe potuto contare solo sul nord a lui fedelissimo. Al contrario, i Franchi sarebbero intervenuti con tutto l’esercito. Ripetiamo, è solo una congettura. Ma l’andamento della guerra la confermerà.
Nel 755 Pipino entrò in Italia dalle chiuse delle Val Susa, un complesso di fortificazioni formate da cinte murarie incastonate tra le montagne. Non erano grandi opere architettoniche, ma dovevano servire come prima difesa. I Franchi, stando alle nostre fonti (Fredegario e gli Annales Regni Francorum in primis), le valicarono senza trovare resistenza. Astolfo, giunto in ritardo e con un esercito raffazzonato, subì una dura sconfitta. Fuggito come un codardo a Pavia dovette accettare una pace umiliante che consisteva nel cedere una gran parte dei territori in precedenza conquistati tra cui quelli appartenenti al papa.
L’anno seguente, a gennaio, Astolfo stracciò il trattato e, stavolta alla guida di tre potenti armate, mise sotto assedio Roma. Probabilmente in questo caso intervennero anche i ducati di Spoleto e Benevento. Pipino, richiamato da Stefano, dovette tornare nella penisola, sconfiggere di nuovo il nemico e assurgere a paladino della Chiesa. Gabriele Pepe, con la consueta empatia che lo coinvolgeva al popolo longobardo: “anche questa volta Pipino vinse rapidamente le truppe dei Longobardi che potevano incutere timore ai meschini presidi bizantini e alla quasi indifesa Roma, ma non ad un esercito poderoso com’era quello franco”. Il trattato di pace che ne seguì fu ancora più duro del precedente: Astolfo dovette restituire varie città del centro Italia e pagare un cospicuo tributo ai vincitori (che era la condizione più dura da accettare).
La popolarità del re longobardo era ai minimi storici. Nel dicembre del 756, e non ci stupiamo, morì misteriosamente durante una battuta di caccia. L’Italia rimaneva padrona di papa Stefano ma soprattutto di Pipino, il quale ora aveva messo d’accordo tutti i nobili franchi incamerando grandi ricchezze che distribuì tra i suoi fedelissimi. Spoleto potè tornare ad eleggere il suo duca, nella persona di Alboino. A Costantinopoli l’imperatore benedì la spedizione dei Franchi, grazie alla quale conservava quella debolissima testa di ponte anche nella penisola.
L’ULTIMO RE
Nel 757 i Longobardi si scoprirono di nuovo uniti sotto un’unica corona. L’uomo che li mise d’accordo era di Brescia ma regnava sulla Toscana: Desiderio. In realtà una piccola opposizione c’era. Il vecchio re Ratchis aveva lasciato il monastero di Montecassino dove s’era ritirato anni prima e si era proclamato re con l’appoggio di una parte della nobiltà. Tuttavia quella corrente era troppo minoritaria per poter portare avanti questa investitura. Sotto le pressioni di Stefano, l’usurpatore fu costretto a riprendere la toga, stavolta definitivamente.
Pipino, ormai padrone dei destini italici, telecomandava anche i ducati di Spoleto e Benevento (quindi un buon cinquanta per cento dell’esercito longobardo). Il 26 aprile calava nella tomba papa Stefano, il suo principale sponsor, di cui ora poteva farne a meno. Aveva ottenuto la corona, molti denari e un prestigio inimmaginabile se fosse rimasto in Francia ad occuparsi degli affari di casa sua. Colse dunque il momento per radunare un altro esercito e muore guerre di conquista contro i Sassoni, gli Aquitani, i Burgundi e gli Arabi che avevano conquistato Narbona. Fu un altro decennio di successi costellati da paci vittoriose che accrebbero il regno franco in dimensioni ed importanza. Chi paragona Pipino a Carlo Magno dice giusto. Forse fu ancora più grande.
Nel 768, dopo venticinque anni di potere, morì il più grande sovrano dei Franchi. Sino a quel momento, si intende. La sua eredità passò ai due figli, Carlo e Carlomanno. Non è mai un bene quando il comando bisogna dividerselo. La regina madre, Bertrada, era una donna forte: partecipava ai consigli di guerra, controllava il bilancio dello stato, elargiva consigli ai pargoli. Difficilmente si ricorda, nell’Alto Medioevo, altra figura femminile più in vista.
In Italia le cose stavano precipitando. Desiderio dava segni di voler risvegliare i Longobardi, più che mai divisi e chiusi nei loro ducati gestiti come domini personali. Bertrada fece da tramite per riconciliare definitivamente i due popoli, un tempo amici ed alleati. Il risultato venne raggiunto grazie a due matrimoni: uno tra Ermengarda (figlia di Desiderio) e Carlo; l’altro tra Gisila (figlia di Pipino e Bertrada) e Adelchi (primogenito di Desiderio ed erede al trono). Papa Stefano III suggellò le unioni, soddisfatto della pace che poteva far cominciare un periodo finalmente tranquillo per l’Italia.
Le cose andarono, come prevedibile, diversamente. Ermengarda fu ripudiata dopo pochi mesi di matrimonio e rispedita dal padre, il quale andò su tutte le furie. Nel mentre Carlomanno moriva, a vent’anni, nelle solite circostanze misteriose. Il grande manovratore di queste vicende, ci scommettiamo, si trovava a Roma ed aveva un nome: Adriano, il nuovo pontefice. Romanissimo, era stato eletto dal partito anti-longobardo rappresentato dal nobile Cristoforo, che ebbe la meglio sul capostipite dei partito longobardo, cioè Paolo Afiarta. L’elezione fu tutt’altro che specchiata e ispirata dallo Spirito Santo. Nell’Urbe cominciava a dominare il denaro e l’opportunità politica.
Desiderio, che non era stupido, capì l’antifona e si mostrò debole. Mandò a Roma ben tre delegazioni per avviare buone relazioni con il papa, ma questi le respinse tutte in malo modo. Poi, di fronte ai vescovi riuniti, accusò il re longobardo di aver tradito i patti, cioè di non aver restituito alcun territorio. Formalmente era vero, praticamente no. Quei territori erano rimasti longobardi solo di nome, ma di fatto appartenevano già alla Chiesa. Che, ricordiamolo, non poteva detenerne nessuno visto che dipendeva ancora da Costantinopoli. E siccome i rapporti tra Longobardi e Bizantini erano, in quel periodo, buoni, non si vede cosa c’entrasse il papa in quei maneggi.
La realtà parla di un accordo già scritto tra Adriano e Carlo. In più, nel nord Italia cresceva il malcontento verso Desiderio. Il quale, visto che con le buone non otteneva niente, attaccò l’Esarcato e conquistò Faenza, Comacchio e Ferrara. Puntava diritto su Roma. Il papa chiamò in tutta fretta il suo alleato sperando che facesse in tempo a frenare quella marea di invasori.
Nella primavera del 773 Carlomagno (lo chiameremo così da adesso) radunò l’esercito a Ginevra e a tappe forzate penetrò in Italia dal valico alpino del Moncenisio. Divise l’esercito in due tronconi (e fu la sua salvezza): uno comandato da lui stesso, l’altro dallo zio Bernardo. In pianura padana dominava il panico e il tradimento. Molte città si erano arrese senza combattere, molti duchi eran passati dalla parte dei Franchi. Nonostante queste premesse Desiderio affrontò Carlo e lo sconfisse presso le chiuse della val di Susa costringendolo a chiedere una tregua.
Dall’altra parte della vallata, però, Bernardo aveva distrutto le forze longobarde comandate da Adelchi e puntava su Pavia. Quando la notizia giunse nel campo longobardo, Desiderio non potè contenere i suoi soldati, che lo costrinsero a una ritirata disonorevole nella capitale. I nobili spoletini, che non avevano mandato un soldato, corsero a Roma da papa Adriano e si fecero tagliare i capelli “alla romana” per farsi accettare come suoi sudditi. Le città di Fermo, Osimo e Ancona si sottomisero volontariamente all’Urbe.
Pavia cadde dopo otto mesi di assedio, Desiderio fu imprigionato e rinchiuso in convento insieme alla moglie. Era la fine del regno longobardo. Solamente Benevento resistette all’assalto dei Franchi, ma solo perché lontana e poco appetitosa per quell’esercito ormai sazio della conquista. Situato nel punto di intersezione tra le influenze romane e bizantine, quel ducato rimase indipendente sino alla metà del secolo XI.
I Longobardi pagavano a carissimo prezzo le divisioni di cui erano sempre stati vittime. Fino all’inizio del 700 non scontarono il dazio di questa innata tendenza al litigio. Poi però il potere papale era aumentato considerevolmente. Quando il pontefice dichiarò re dei Franchi Pipino, che era un parvenu, un “non nobile” si esplicitò un fatto fondamentale: quel vescovo di Roma poteva creare sovrani e influire sulle vicende politiche. Dalla Toscana in giù la sua influenza si fece sentire anche su Spoleto e Benevento, che (non ci stancheremo mai di dirlo) furono il vero ago della bilancia. Con un esercito completo a disposizione sia Astolfo che Desiderio avrebbero respinto i Franchi. Senza, dovettero capitolare. Le lacerazioni interne di un popolo che non aveva mai saputo creare una nazione vennero fuori tutte insieme nel momento più importante. Peccato, perché Liutprando aveva governato bene e messo le radici per una fusione definitiva tra Longobardi e Italici. Non aveva calcolato, però, che in Italia questa fusione era avversata dalla personalità più importante: il papa. Chiunque fosse.
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