Capitolo Primo - Tra Roma e Costantinopoli

Odoacre, appena preso il potere, dovette affrontare il primo e più importante problema del suo dominio: cosa fare del piccolo Romolo Augustolo. Oreste, il padre, era stato ammazzato senza pietà insieme ai suoi commilitoni, e nessuno, né ad Oriente né in Italia, ebbe niente da dire.

Si trattava di una guerra interna a due eserciti barbari, e la morte del perdente era una necessaria e accettata condicio sine qua non per voltare pagina. Tuttavia, il ragazzino era, appunto, solo un ragazzino, e l’imperatore d’Occidente in carica. Si poneva dunque il dilemma se farlo fuori (cosa a cui Odoacre pensò immediatamente) o lasciarlo in vita. Nella prima ipotesi il capo degli Eruli avrebbe rischiato di inimicarsi Zenone e la Chiesa di Roma, che alle apparenze (solo a quelle) ci tenevano parecchio. Nella seconda ipotesi avrebbe rischiato di mantenere vivo un possibile avversario nel futuro prossimo, l’erede legittimo al trono ravennate.
Quest’ultima affermazione non era del tutto vera. O meglio, era opinabile. In Dalmazia risiedeva colui che poteva, a ben diritto, essere considerato come il nuovo imperatore dopo la deposizione di Romolo, cioè Giulio Nepote, il quale in Italia regnò sino al 475, anno in cui Oreste (con il suo esercito di mercenari goti) si ribellò, lo depose e lo cacciò dalla penisola. In linea teorica, dunque, era lui il successore al trono d’Occidente.
Odoacre, mantenendo in vita il fanciullo, avrebbe avuto, in seguito, ben due nemici e pretendenti all’Impero. Per questo decise di consultarsi con i suoi due più fidati consiglieri, che erano romani: Lucio Calpurnio e Remisto.
Il primo, discendente di una delle famiglie nobili più antiche di Roma, era giunto a Ravenna al seguito del nonno quasi trent’anni prima al seguito del grande Maggioriano, ed aveva completato tutto il cursus honorum ritagliandosi pian piano un posto di rilievo a corte. Quando Oreste prese il potere, venne messo da parte e, per un certo periodo, ebbe persino timore di perdere la vita. Con abilità diplomatica e soprattutto perché il capo barbaro aveva altro da fare, si salvò ritirandosi in una tenuta nella campagna ravennate. Alla caduta del suo nemico potè tornare in città e saldare una forte alleanza con Odoacre tramite il suo consigliere più intimo, Remisto.
Come suggerisce il nome, Remisto era di chiara origine visigota. Un suo parente ottenne l’incarico (primo barbaro a ricoprirlo) di magister militum dall’imperatore Avito nel 456: purtroppo per lui durò pochissimo dal momento che Ricimero, il creatore di imperatori, lo uccise dopo aver assediato e catturato la città di Ravenna in nome del Senato Romano. Il nostro Remisto imparò la lezione poiché, all’epoca, egli aveva venticinque anni e un gran istinto alla sopravvivenza. Lo dimostrò salvandosi dalle purghe degli anni successivi grazie all’incarico di ambasciatore che ricopriva. Fu proprio durante una di queste ambasciate che conobbe, in Pannonia, il capo degli Eruli, Odoacre. Il quale, in quanto a sensibilità ed intuito, era tutt’altro che un barbaro rozzo e grossolano. Intuì che quel mezzo romano poteva essergli utile e propose a Remisto di seguirlo con la sua armata. La risposta affermativa coincise con un accordo solennizzato dal matrimonio di quest’ultimo con la figlia di uno dei generali eruli (Ildigaro), che si chiamava IIderica. Nel 470, quando l’armata di Odoacre arrivò in Italia, Remisto era il braccio destro del capo, l’uomo a cui tutti si rivolgevano inchinandosi e prostrandosi al suolo.
Dunque, i due consiglieri del nuovo dominus d’Italia dovevano decidere della vita di Romolo Augustolo. Fu Lucio a suggerire di mandarlo in esilio da qualche parte, aggiungendo che il suo cadavere innocente “avrebbe impuzzato tutta la penisola e il suo lezzo sarebbe arrivato sino a Costantinopoli”. Remisto fu sostanzialmente d’accordo anche se impose la sua volontà di dare al fanciullo una rendita annuale di seimila soldi, la qual cosa non fece per nulla piacere ad Odoacre, che avrebbe dovuto tirarli fuori di tasca propria, o meglio dalle tasche dei cittadini romani. Il consigliere di origine germanica disse che grazie a questo specie di vitalizio l’esilio del ragazzino sarebbe stato più simile ad una villeggiatura dorata che ad una prigionia, scongiurando in tal modo le sue future velleità di riprendere il potere.



Odoacre comunicò mediante un’ambasciata a Costantinopoli che intendeva salvare la vita di Romolo e nel contempo mantenere il potere in Italia con il titolo di patricius. Si badi bene: le sue erano determinazioni, non richieste o tantomeno suppliche. Zenone, quando i dignitari eruli si presentarono a palazzo con questa missiva, pensò di farli giustiziare all’istante. Non che gli importasse del trono di Roma o di Ravenna o di qualunque barbara città dell’Occidente, ma perché gli stavano mancando di rispetto. Era lui, il signore del mondo conosciuto, che doveva decidere. Tuttavia, siccome era un abile stratega e un calcolatore, si prese un paio di giorni per pensarci.
Non aveva consiglieri di cui fidarsi, al contrario di Odoacre. Prendeva le sue decisioni da solo, nel chiuso della sua stanza. Considerò che vi erano due imperatori ad Occidente: Romolo, che era un fanciullo, e Nepote, che era seguito dagli Illirici, la parte migliore dell’esercito romano (o meglio, di ciò che ne rimaneva). Non fu difficile capire chi avrebbe dovuto sostenere.
Ma non in quel momento. I Sasanidi avevano sfondato la prima linea nella zona di Palmira, distruggendo due armate di quasi cinquemila uomini con un urto formidabile e del tutto imprevedibile. In più nella capitale molti edifici puzzavano ancora del fumo degli incendi appiccati durante la rivolta di Basilisco. Tutto faceva presagire che le finanze imperiali e i soldati sarebbero serviti in patria, non lontano da essa.
Dopo i canonici due giorni, Zenone rispose all’ambasciata erula concedendo il permesso di esiliare Romolo alle condizioni previste. Quanto al titolo di patricius, Odoacre poteva tenerselo, ma solo sino a quando gradito dall’imperatore d’Oriente, che si ergeva quindi a “protettore” dell’Italia pro tempore.
La corte di Costantinopoli, che in quel momento non aveva particolari elementi di spicco, fu sostanzialmente d’accordo con questa decisione. Ravenna, Roma e l’Occidente venivano visti come dei problemi minori, molto lontani.
Quando l’ambasciata erula fece ritorno a Ravenna, all’inizio di dicembre del 476, fu grande la gioia nella città. Il Natale di quell’anno sarebbe stato festeggiato anche dai soldati barbari.



Quando la notizia dell’imprimatur imperiale al dominio di Odoacre in Italia arrivò anche in Dalmazia, Giulio Nepote non fece una piega. Era un uomo duro, molto diverso dagli ultimi inetti che sedettero sul trono che fu di Augusto. Di alta statura, dai capelli biondi come un goto e dagli occhi neri e penetranti come quelli di un unno, ragionava, sì, ma ragionava da barbaro. Sapeva che la legittimazione di Zenone valeva quel che valeva, cioè nulla. In un primo tempo la sua corte, formata tutta da fedeli soldati dell’Illiria, aveva sperato in un gesto da parte dell’imperatore d’Oriente che legittimasse le pretese di Nepote. Solo quando a Salona arrivò l’ambasciata che comunicava l’esatto contrario riuscì ad aprire gli occhi.
In tutte le principali città dalmate, nei mesi successivi, i vari senati si riunirono per decidere se appoggiare una rivolta oppure se soprassedere. La volontà dominante fu la prima. Giulio Nepote si limitò a constatare che il suo popolo, il fiero popolo dell’Illiria, voleva riconquistare l’Italia.
Sapeva, però, che aveva bisogno di molti uomini. Non sapeva, invece, quanti soldati potesse contare Odoacre. Il contingente ufficiale era di circa 20.000 guerrieri di varie stirpi barbariche, le quali risultavano abbastanza fedeli al capo. A questa somma bisognava aggiungere un numero cangiante di irregolari e di coscritti. Difficilmente si sarebbe arrivati a 30.000 unità, ma il numero suppergiù era quello.
Nepote poteva contare su tre grandi bacini di arruolamento: Salona, Spalato e l’entroterra dalmata. Quasi tutti i centri dell’Illiria avevano dato la loro disponibilità a chiamare la quasi totalità delle proprie truppe, ma il numero totale non arrivava a 20.000. Senza contare che per radunarsi ci sarebbero voluti quantomeno tre mesi. Aggiungiamo poi la traversata via mare con destinazione un porto molto a sud di Ravenna ed il quadro delle difficoltà oggettive dell’impresa è tratteggiato. Impossibile considerare il passaggio dal nord-est della penisola, soprattutto in quel periodo dell’anno. Serviva per forza un alleato.
Nella notte di Natale del 476 Nepote riunì il consiglio di guerra formato da Lucilliano e Marcellino, entrambi di origine liburna, quindi dalmati e illirici fino al midollo. Erano gli unici uomini di cui si fidava. Sotto ai loro occhi si estendeva una cartina dell’Impero d’Occidente dalla loro patria sino alla Hispania. Il loro sguardo cadde sulla catena delle Alpi. A nord c’erano i regni dei Rugi, degli Alamanni e dei Burgundi. Ad ovest i Visigoti. A est dell’Illiria adocchiarono gli Ostrogoti.
“E’qui che dobbiamo guardare ora” sentenziò Nepote. “E’necessario innanzitutto stipulare una pace duratura con Teodorico, magari concedendogli delle terre”.
Marcellino rispose affermativamente. Lucilliano era dubbioso sulla tenuta dell’accordo, ma convenne che delle terre da occupare rendono sempre più tranquilli i barbari.
“Bisogna” aggiunse Nepote “considerare anche quali possono essere i popoli da interpellare per sostenerci nella guerra contro Odoacre”.
“I Rugi” disse Marcellino, “sono i nostri vicini e siamo in ottimi rapporti. In più loro potrebbero attaccare da nord, mentre noi risalire la penisola dal centro”.
“A mio parere bisogna mandare le ambasciate a tutti e tre” sentenziò Lucilliano.
“Con il rischio che tutti vengano a sapere le nostre mosse” ribattè Nepote.
“E con il rischio di mostrare la nostra debolezza” rincarò Marcellino. “Bisogna mandare una sola ambasciata, sia quel che sia. Se non accetteranno, provvederemo ad elaborare un altro piano”.
Nepote si trovò d’accordo col parere di Marcellino. Era necessario però sondare il terreno direttamente in loco, anzi nei rispettivi luoghi. Per fortuna il sistema di spie e informatori degl’Illirici era quasi pari a quello bizantino, e molto più raffinato di quello barbaro.
In Burgundia, in Rugia e in Allemania vennero sguinzagliate diecine di delatori con il compito di capire l’opinione della popolazione e, se possibile, delle autorità, riguardo ad Odoacre e al suo nascente regno d’Italia.



In tutto il 475 Odoacre ebbe il suo daffare per puntellare e cementare il suo dominio in Italia. In particolare i suoi obiettivi furono i seguenti:
1- armonizzare la burocrazia romana con quella militare riservata ai Goti;
2- costruire un’alleanza forte con la Chiesa Romana sia a livello centrale sia a livello locale;
3- riorganizzare l’esercito in modo da inglobare anche elementi non di origine barbara;
4- stabilizzare gli accordi di pace con i propri “vicini di casa”.
Punto 1. Nelle grandi città dell’Italia l’amministrazione e la burocrazia dovevano rimanere nelle mani dei Romani, questo Odoacre lo capiva. Troppo netta la differenza di cultura e in generale di visione delle cose tra gli autoctoni e gli invasori. Ma doveva, nel contempo, porre al vertice degli uomini di sua fiducia. Li trovò nell’elite guerriera che aveva preso il controllo ormai da un secolo dell’esercito. Scelse personalmente o tramite i suoi consiglieri almeno un centinaio di Goti di varie etnie, di provata fedeltà, da sguinzagliare nelle varie città della penisola, garantendo loro un castello dove esercitare il loro potere e una guardia imperiale che li proteggesse. Con la raccomandazione che il loro governo dovesse poggiare saldamente sull’elemento romano e che la tassazione fosse ridotta il più possibile. In tal modo soddisfaceva anche la fame di terre che i soldati barbari manifestavano già da parecchi anni e che aveva portato alla ribellione contro il miope Oreste.
Punto 2. Per arrivare ad ingraziarsi l’altro centro di potere italico, cioè la Chiesa Romana, serviva un collante, un intermediario fidatissimo: Severino. Questi, nato nel 410, di nobilissima famiglia romana, fu dapprima monaco in Oriente e successivamente “missionario” nelle terre conquistate dai Rugi nella provincia romana del Noricum, dove fondò diversi nuclei monastici (alcuni destinati a divenire monasteri veri e propri). Odoacre l’aveva conosciuto nel 470 sulle sponde del lago Balaton. Severino gli aveva preannunciato la vittoria. Quale, il capotribù degli Eruli, non sapeva. Ma a lui bastava così. Lo ritroviamo in Italia, sette anni dopo, ambasciatore ufficioso a Roma con il compito di stipulare una sorta di alleanza con papa Simplicio. Il quale, da buon calcolatore qual era, sapeva che Odoacre al potere in Italia significava la gestione delle anime ma anche dei corpi di buona parte della popolazione italica. E, soprattutto, Costantinopoli sempre più lontana. L’accordo di non belligeranza, anzi l’amicizia, tra Chiesa ed Eruli serviva ad entrambi.
Punto 3. L’esercito italico era formato quasi tutto da barbari di diverse etnie. Convivevano Visigoti, Eruli, Rugi, Alamanni, Ostrogoti, Unni, Gepidi. Molti di questi si erano mischiati tra di loro e tra gli autoctoni. L’elemento barbaro era imprescindibile perché i cittadini romani si erano disabituati alla leva militare nel I secolo d.C. Odoacre non pretendeva di far ritornare loro la voglia di combattere (men che meno per un invasore, quale comunque veniva visto), ma almeno di rimpolpare le armate imperiali con degli effettivi in più. A questo scopo indisse una coscrizione semi-obbligatoria nelle varie città d’Italia e lasciando ai singoli amministratori locali l’onere di scegliere quanti uomini chiamare e per quanto tempo dovesse durare l’addestramento. Nel 477 il meccanismo fu alquanto farraginoso, ma i primi risultati cominciarono ad arrivare. I primi dati parlavano di quasi 4.000 nuove reclute perlopiù concentrate nel nord-ovest dell’Italia.
Punto 4. Infine, Odoacre doveva puntellare i suoi confini. Lucio Calpurnio venne mandato personalmente in Gallia per trattare con Visigoti e Burgundi, mentre Remisto fece lo stesso dagli Alamanni, dai Rugi e dagli Ostrogoti. Giulio Nepote e la sua Illiria vennero, volutamente, lasciate fuori dalle trattative di pace perché nessuno voleva considerarli dei soggetti di diritto. Il loro stato, anzi la loro congregazione, non doveva essere legittima, e perciò non potevano avere alcuna pretesa. Era già tanto che il patricius d’Italia li lasciasse in vita. In linea generale i regni barbarici confinanti furono d’accordo sul mantenere le posizioni, anche perché un po’ tutti stavano tirando il fiato dopo decenni di migrazioni e battaglie.
Questa dunque la situazione in Italia nell’anno 477, il secondo della dominazione di Odoacre in Italia. Con abilità ed intelligenza il patricius aveva appaltato la macchina burocratica ai Romani, armonizzato la convivenza con la Chiesa e stabilizzato i confini. Un ottimo lavoro.



A Costantinopoli il 477 fu un anno abbastanza difficile per Zenone. L’avanzata dei Sasanidi venne interrotta da una violenta ondata di invasioni unne e alane che penetrarono sino all’interno dell’ex impero persiano costringendo re Peroz a concludere un trattato di pace piuttosto frettoloso con l’Impero d’Oriente. In compenso, il pericolo maggiore per Zenone veniva dall’interno del palazzo.
La decisione di lasciar in vita Basilisco si rivelò uno sbaglio enorme. Mandato in esilio in Cappadocia, questi radunò nuovamente il suo esercito, forte di quasi 3.000 uomini, e si proclamò legittimo imperatore. In Costantinopoli la fazione degli Azzurri faceva apertamente il tifo per lui, e buona parte del popolo lo sosteneva, mal sopportando le politiche repressive e le tasse molto alte introdotte da Zenone.
Seguirono violente rivolte quasi ogni mese. In particolare a giugno e poi ad agosto si sfiorò la guerra civile a Nicea, che si era trasformata in un campo di battaglia a cielo aperto tra Verdi e Azzurri. L’atteggiamento ambiguo della Chiesa costantinopolitana non aiutava a chiarire quale tra i due contendenti avrebbe vinto.
Basilisco, ch’era molto più irrazionale ed istintivo del rivale, cercò l’alleanza con una parte degli Unni Bianchi, promettendo loro delle terre imperiali nella zona di Trebisonda. Non riuscendo ad ottenerla, cambiò obiettivo e virò sui Vandali, i quali furono contattati dai suoi dignitari al fine di indurli ad attaccare l’Egitto ed espandere i propri confini. Quando il vecchio Genserico gli rispose picche, Basilisco si buttò sulla terza scelta, ch’erano i Gepidi. Questi, contro ogni aspettativa, si dichiararono pronti a penetrare sino a Serdica e a colonizzare le città di Singidunum, Naissus e Novae. Basilisco ritenne quei territori sacrificabili e l’accordo venne concluso.
Nel maggio del 477 la Mesia venne messa a verro e a fuoco dai Gepidi. L’invasione durò sino a febbraio dell’anno successivo perché la popolazione non accettava gli invasori. L’esercito regolare bizantino dei limitanei tenne le città principali. Solamente Singidunum rischiò seriamente di cadere, ma dopo un assedio durato tre settimane un contingente di quasi tremila uomini proveniente da Naissus distrusse l’armata gepida.
Ecco, di quei tremila uomini almeno duemilanovecentocinquanta erano purissimi dalmati, nati e cresciuti con il mito di Costantino il Grande. La loro fedeltà all’Impero era assoluta, ma all’Impero d’Occidente, quello che non esisteva più, se non in Giulio Nepote. Lucilliano comandava quel contingente, e fu lui a spiccare la testa di Arismondo, il generale dei Gepidi che aveva condotto l’ultimo, disperato assalto a Singidunum.
Quando arrivò a Costantinopoli, alla fine di giugno del 477, Giulio Nepote venne accolto da Zenone senza neppure fare un secondo di anticamera. Era un buon segno.

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La guerra delle razze

Capitoli

Prologo

E’ sempre arduo porre un inizio ed una fine alle storie. Soprattutto se, in questo caso, affrontiamo quella dell’Impero Romano. Leggi tutto »


Capitolo Primo - Tra Roma e Costantinopoli

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Capitolo Secondo - L'Italia preda dei barbari

Le notizie provenienti da est, dalla parte marginale dell’Impero d’Oriente, atterrirono Odoacre. Il patricius vide nell’appoggio di Nepote a Zenone un pericolo incommensurabile alla sua leadership in Italia. In effetti, non credeva neppure che l’imperatore bizantino l’avrebbe lasciato regnare in tranquillità, ma pensava tuttavia di avere più tempo per organizzarsi. Leggi tutto »


Capitolo Terzo - Una speranza

Negl’anni successivi, dal 478 al 482, il quadro politico rimase pressappoco lo stesso. Leggi tutto »


Capitolo Quarto - Guerra

Odoacre, da buon stratega e ottimo amministratore qual era diventato, sapeva che bisognava garantirsi un piano d’emergenza. Per questa ragione aveva mandato agli Ostrogoti un ambasciatore con il compito di proporre loro un’alleanza separata: Teodorico avrebbe mantenuto una forte pressione sul nord della Dalmazia. Leggi tutto »


Capitolo Quinto - Costantinopoli

Visto che gli eventi a Costantinopoli precipitavano, urge ora dedicarsi principalmente a questi. Lasciamo dunque Odoacre e Sitta in Italia, pronti a scontrarsi fuori dalla città di Napoli, e dedichiamoci a riassumere ciò ch’era successo in Oriente negli ultimi mesi. Leggi tutto »


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Quando, il 10 di giugno, davanti a Sitta si presentò un ambasciatore erulo con le sue “offerte”, la Storia cambiò ancora volto. Leggi tutto »


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