Lettera XXXI

NIZZA, 5 Marzo 1765

Caro Signore, - Nella mia ultima missiva diedi la mia libera opinione riguardo ai moderni palazzi Italiani. Azzarderò ora le

mie considerazioni sui giardini di questa nazione, che gli
abitanti esaltano con tutte le iperboli di ammirazione e di lode. Debbo confessare che non ho visto le famose ville di Frascati e di Tivoli, che sono celebrate per i loro giardini e i loro giuochi d’ acqua. Avevo intenzione di visitare tali luoghi; ma venni ostacolato da un’inaspettata mutazione del tempo, la quale mi scoraggiò dal viaggiare.

Nell’ultimo giorno di Settembre i monti di Palestrina vennero coperti di neve; l’aria diventò così gelida a Roma, che fui costretto a indossare gli abiti invernali. Questa avversità continuò sino a che ritenni necessario ripartire per Firenze. Tuttavia ebbi il tempo di visitare i giardini del Poggio Imperiale, del Palazzo de Pitti di Firenze, e quelli del Vaticano, del palazzo papale di Monte Cavallo, delle Ville Ludovisia, Medicea e Pinciana, a Roma; così ritengo di avere qualche diritto di giudicare il gusto Italiano nel giardinaggio.

Tra quelle che ho citato, i giardino della Villa Pinciana sono i più ammirevoli, i più ampi, visto che sono compresi in uno spazio di tre miglia, sono vicini alle mura di Roma, contengono una grande varietà di luoghi diversi, che favoriscono i più variegati abbellimenti naturali che ci si aspetta di trovare in un giardino, e sfoggiano una molteplicità di nobili vedute della città e di tutta la regione circostante.

In un bel parco o giardino, un Inglese si aspetta di ammirare un gran numero di boschetti e radure, frammischiati con una piacevole negligenza, che riproduce l’effetto casuale della natura. Egli cerca viali ombreggiati ricoperti di ghiaia; prati ricoperti di vegetazione liscia come il velluto, ma più vivace e deliziosa; laghetti, canali, bacini, cascate e corsi d’acqua scroscianti; tronchi d’albero, foreste, e territori incolti, contenuti in squisite vallette, profumati di caprifoglio e rosa canina, risuonanti di tutte le melodie degli uccelli del paradiso; aiuole fiorite per rinfrescare i sensi e deliziare la mente; pergolati, grotte, eremitaggi, templi e alcove dove ripararsi dal sole e godere della contemplazione e del riposo; ancora, egli si aspetta di trovare cespugli, boschi, viali, prati mantenuti nel più perfetto ordine. Colui che ama le bellezze della natura incontaminata, e gli incanti dell’eleganza vagherà invano alla loro ricerca tra i giardini d’Italia. Nel parco della Villa Pinciana, dove si trova un albereto di quattrocento pini, che gli Italiani guardano con rapimento e ammirazione c’è anche un lungo vialone che si distende dalla porta d’ingresso del palazzo; ed è abbondante d’ombra, con vialetti e arbusti in moltitudine: tuttavia i boschi sono trascurati; i viali cosparsi solo da comune terriccio o sabbia, sporchi e polverosi; i cespugli sono alti, scarni e striminziti; gli alberi rachitici; il terreno, marrone e riarso dal sole, non mostra quasi nessuna sembianza di vegetazione. I vialetti di sempreverdi sono modellati in fantastiche figure; i giardini fioriti sono abbelliti con immagini e simboli, mentre i fiori crescono in vasi di terracotta, e il suolo sembra scuro come se fosse ricoperto dalle ceneri di una forgia di un fabbro.

L’acqua, di cui v’è grande abbondanza, invece di essere raccolta in grandi contenitori, o convogliata in piccoli rivoli e ruscelli per ristorare l’humus assetato, o condotta in modo da plasmare deliziose cascatelle, viene schizzata dalle fontane in diverse parti del giardino, attraverso dei tubi poco più grandi di un clistere. Dev’essere invero riconosciuto che le fontane trovano il loro vanto nella scultura e nell’architettura; e che un gran numero di statue merita attenzione: ma tutti questi oggetti servono solamente a ingombrare il terreno, e distruggere quindi quell’effetto di semplicità rurale che i nostri parchi sono invece progettati per produrre. In una parola, qui vediamo una moltitudine di viali, boschetti, fontane, un albereto di quattrocento pini, un recinto con pochi macilenti caprioli, un giardino fiorito, un’uccelliera, una grotta, una vasca dei pesci; e, nonostante questi particolari, rimane un parco disprezzabile se confrontato con quello di Stowe in Buckinghamshire, o perfino con quelli di Kensington e Richmond. Gli Italiani capiscono,
perché le studiano, le eccellenze dell’arte; ma non hanno idea delle bellezze della natura. Questa Villa Pinciana, che appartiene alla famiglia Borghese, costituirebbe un’accademia
di scultura e pittura, specialmente grazie ai suoi marmi; proprio per il fatto che vi è dovizia di statue e busti, e grazie alla vasta collezione racchiusa negli alloggi, quasi l’intero esterno della casa è ricoperto da curiosi pezzi, bassorilievi e altorilievi. Il più magistrale è quello di Curzio sul dorso del cavallo che si lancia nel golfo o nell’apertura della terra, che si dice si sia richiusa dopo aver ricevuto il suo sacrificio. In mezzo a questa esibizione di arte all’interno del palazzo, fui molto colpito da un Bacco e dalla morte di Meleagro. Qui si trova anche una mirabile statua di Sileno con il piccolo Bacco in braccio; un bellissimo gladiatore; un curioso Moro di marmo nero con una camicia di bianco alabastro; un raffinatamente proporzionato toro di marmo nero sopra un tavolo di alabastro; una zingara con testa, mani e piedi d’ottone; ed il famoso ermafrodito, che rivaleggia con quello di Firenze: eppure il più curioso tra le rarità sia il matraccio eseguito da Bernini, con tale arte e destrezza che a vederlo pare gareggiare con la leggerezza della lana, e sembra trattenere in sé i segni di pressione, secondo la figura della sovrastante statua. Riconosciamo anche che, per l’onore dei moderni, lo stesso artista ha prodotto due belle statue che troviamo tra gli ornamenti di questa villa, cioè un David con la fionda, ritratto
nell’atto di lanciare la pietra al gigante Golia; ed una Dafne che si trasforma in alloro all’arrivo di Apollo. Sulla base di quest’effigie vi sono due versi elegantissimi, scritti da papa Urbano VIII nei suoi anni giovanili.

Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae,
fronde manus implet, baccas vel carpit amaras.

Colui che anela la fugace Bellezza, l’insegue invano!
Otterà sterili Foglie, o amari frutti.

Non devo dimenticare anche due squisite statue di Venere, lo schiavo piangente e il giovane che si estrae una spina dal piede. Non ho la pretesa di fornire una descrizione dettagliata di tutte le curiosità di Roma: sono state descritte da molti autori, che erano molto più qualificati di me a parlarne: tu otterrai quelle osservazioni che ho ritenuto maggiormente rimarchevoli sugli oggetti, scritte senza però alcun metodo, come mi vengono alla mente; e reclamo come mie e solo mie tutte le osservazioni: cosicché se meritano encomi, me ne prendo il merito; se invece sono impertinenti, mi accontento di prendermi tutto il biasimo.

La piazza della chiesa di San Pietro è davvero sublime. La colonnata doppia che si snoda sui due lati formando una curva semi-circolare, lo stupendo obelisco Egizio, le due fontane, il portico, e l’ammirevole facciata della chiesa, compongono una tale adunata di oggetti magnifici, che non può non impressionare la mente con timore reverenziale ed ammirazione: ma la chiesa avrebbe potuto produrre un effetto ancor più grandioso se fosse stata staccata completamente dalle altre costruzioni del Vaticano. Sarebbe stata un capolavoro di architettura, completa in ogni sua parte, perfetta: e invece, non è nulla più di una parte attaccata ad una immensa, indigesta ed irregolare fila di fabbricati. Sull’architettura di questo celebre tempio, non ho nulla da dire; né pretendo di descrivere tutti gli ornamenti interni. Il grande Mosaico, e quello che raffigura l’imbarcazione di San Pietro scossa dalla tempesta, che appare sopra la porta della chiesa, sebbene rozzi a confronto delle moderne opere, sono senza dubbio stupende rarità, se consideriamo che le opere di Giotto risalgono all’inizio del XIV secolo. Il suo maestro fu Cimabue, che a sua volta imparò la pittura e l’architettura dagli artisti Greci che venivano da Costantinopoli e per primi resuscitarono queste arti in Italia.

Ma, tornando a San Pietro, non fui del tutto deliziato dalla famosa statua del Cristo morto nelle braccia della madre, di Michelangelo. La figura del Cristo è così emaciata che egli sembra essere morto di tisi: inoltre, c’è qualcosa di grossolano, per non dire di indecente, nella posa e del corpo dell’uomo, completamente nudo, sulle ginocchia della donna.

Ci sono qui delle bellissime pitture, o meglio dovrei dire copie di bellissime pitture, realizzate con i Mosaici; in particolare un San Sebastiano di Domenichino, e un Michele Arcangelo preso da un quadro di Guido Reni. Personalmente sono innamorato di questo artista. Trovo una tale delicatezza e dolcezza nella sua maniera; e le sue figure sono sempre squisitamente belle, sebbene le sue espressioni siano spesso sbagliate nel contesto, e le sue pose spesso affettate e non naturali. L’arcangelo ha tutta l’aria di un maestro di danza Francese; e ho visto una Madonna dello stesso artista, penso nel Palazzo di Barberini, che,
sebbene la rappresentazione pittorica sia incantevole, la Vergine viene raffigurata mentre tiene sollevato il drappeggio dell’ infante con la ridicola prosopopea d’un cantante sul palco di un’ opera Italiana.

Dal mio punto di vista non paragonerei le produzioni la matita alle opere mosaicali, sebbene portate a un livello meraviglioso, e mirabilmente adatte alle chiese, la cui naturale umidità è pericolosa per i colori della tavolozza. La vetrosità (se mi si consente d’usare quest’espressione) della superficie, getta, secondo me, una luce artefatta su talune parti della pittura; e quando ci si avvicina, i giuntaggi delle opere paiono come delle crepe su tele dipinte. Inoltre, questo metodo è estremamente noioso e costoso.

Sono andato a vedere dei mosaicisti al lavoro, in un edificio che rimane vicino alla chiesa,
dove rimasi piacevolmente colpito dall’ingegnosità del processo; e non poco sorpreso dal grande numero di colori e di tinte, tutte tenute separate in diversi cassetti, segnati con numeri fino a diciassettemila. Per una sola testa realizzata con la tecnica del Mosaico, mi chiesero cinquanta zecchini.

Ma torniamo alla chiesa. L’altare del coro di San Pietro, nonostante tutti gli abbellimenti che sono stati elargiti su di esso, non è null’altro che un cumulo di splendore puerile, meglio adatto ad una pagoda Indiana più che un tempio innalzato seguendo i dettami dell’architettura Greca. Le quattro colossali figure che supportano il coro sono entrambe sgraziate e sproporzionate. Il drappeggio delle statue, sia quello d’ottone sia quello in pietra, appaiono pesanti e sgradevoli allo sguardo e per questa ragione gli antichi imitarono sempre i panneggi di lino, che invece mostrano la forma delle membra e offrono molteplicità di pose, dando impressione di leggerezza, soavità e duttilità.

Queste due statue pesano 116,257 libbre, e visto che non reggono null’altro eccetto l’altare, sono anch’esse fuori proporzione, dal momento che gli oggetti che supportano dovrebbero essere adeguati all’oggetto supportato. Qui invece ci sono quattro giganti che tengono su la vecchia seggiola dell’apostolo Pietro, stando al libro De Identitate Cathedrae Romanae, Dell’Identità della Sedia Romana. I mobili della superstizione papesca, come le reliquie di presunti santi, guglie asimmetriche, e la nauseante ripetizione della croce, che in sé è un oggetto davvero meschino e poco piacevole, buono solo per le prigioni dei criminali condannati, hanno contribuito ad introdurre un gusto perverso nell’architettura esterna, e anche negli ornamenti interni dei nostri templi.

Tutte le chiese cono costruite in forma di croce, la qual cosa evita allo sguardo di perdere tempo a guardare l’edificio; e di conseguenza priva la costruzione del suo effetto proprio. Il palazzo dell’Escurial in Spagna ha la forma di una graticola, perché il convento era stato costruito in conseguenza di un voto a San Lorenzo, che era stato arrostito come un maiale cotto alla brace.

Il peccato è proprio che le fatiche della pittura siano state così tanto impiegate su scioccanti soggetti del martirologio. E poi innumerevoli quadri della flagellazione, della crocifissione, della deposizione dalla croce; e poi Giuditta con la testa di Oloferne, Erode con la testa di Giovanni il Battista, Giaele che assassina Sisera nel sonno, Pietro che si contorce sulla croce, Stefano lapidato con le pietre, Sebastiano crivellato da frecce, Lorenzo che frigge sulle braci, Bartolomeo scuoiato vivo, e un centinaio di altri dipinti egualmente spaventosi, che possono servire solo a riempire la mente di idee cupe, e incoraggiare lo spirito al fanatismo religioso, che ha sempre portato cattive conseguenze in tutte le comunità dove ha dominato.

La tribuna del grande altare, consistente di quattro pilastri d’ottone intrecciati e dorati, che sostengono un baldacchino, è senza dubbio magnifica, se non fosse sovraccarica di sculture, scanalature, fogliame, festoni, e figure di ragazzi e angeli che, grazie alle centoventidue lampade d’argento sempre accese servono ad accecare lo sguardo e infiammare la devozione del volgo ignorante, più che a suscitare ammirazione.

Non c’è nulla, io credo, in questa celeberrima struttura, così degno di lode, come la mirabile simmetria e proporzione delle sue parti. Nonostante tutte le sculture, le dorature, i bassorilievi, i medaglioni, le urne, le statue, le colonne e i quadri di cui abbonda, non sembra, nell’insieme, apparire sovraffollato di ornamenti. Quando entrate per la prima volta, il vostro occhio viene colmato così regolarmente e in egual modo, che nulla sembra stupendo; la chiesa appare considerevolmente più piccola di quanto in realtà sia.

Le statue dei bambini che sostengono le sorgenti dell’acqua santa sembrano a grandezza
naturale; ma appena vi avvicinate, vi accorgete che sono gigantesche. Allo stesso modo, le figure delle colombe con i rami d’olivo nel becco, che sono raffigurati sulla parete, vi sembrano alla vostra portata; ma quando vi accostate, si allontanano verso l’alto, come se volassero via.

Fui molto deluso dalla vista del Pantheon, che, ben ricordando tutto ciò che è stato detto al riguardo, sembra un enorme abitacolo per galli, aperto alla sommità. Il portico che Agrippa
aggiunse a questa costruzione è indubbiamente molto nobile, sebbene secondo me, non si inserisce bene nella semplicità dell’ edificio. Pur con tutta la mia venerazione per gl’antichi, non riesco a vedere in cosa consiste la bellezza della rotonda. Non è altro che un semplice cilindro, o muro circolare, con due listelli e una cornice, dotato di tetto a volta o cupola, aperto al centro. Qui intendo la costruzione originale, senza considerare il vestibolo di Agrippa. Ha l’aria di un mausoleo. E’stata questa sembianza, che, con tutta probabilità, suggerì il pensiero a Bonifacio IV di trasportare qui ottantadue carri pieni di ossa vecchie e putride, dissepolte da diversi cimiteri, e quindi renderlo una chiesa dedicata alla Vergine e ai martiri. Non sono tra quelli che ritiene che sia ben illuminato dal foro in cima, che misura circa nove piedi e venti di diametro, sebbene l’autore del Grand Tour dica solo nove. Lo stesso scrittore afferma che vi sia una discesa di undici scalini all’interno di esso, che è alta e larga centoquarantaquattro piedi; che era ricoperta di rame, poi eliminato e fuso dentro ai quattro pilastri supportanti il baldacchino dell’altare della chiesa di San Pietro per volere di papa Urbano VIII.

La verità è che, prima del papato di Alessandro VII, la terra si era così sollevata da ricoprire parte del tempio, e che vi era una discesa di alcuni gradini nella loggia: ma quel pontefice ordinò che ogni piedistallo o base del portico venisse portata a livello della strada, in modo così da eliminare ogni scalino. L’altezza è di duecento palmi, la larghezza di duecentodiciotto; calcolando che cinque palmi corrispondono a nove pollici, l’ altezza è di centocinquanta e la larghezza di centosessantatré piedi. Urbano VIII non rimosse tutto il rame, ma solo le grandi travi che sorreggevano il tetto del portico. Essi pesavano 186,392
libbre; e fornirono abbastanza metallo non solo per i pilastri della chiesa di San Pietro, ma anche per molti pezzi d’artiglieria che si trovano attualmente nel castello di Sant’Angelo. La cosa più straordinaria è che la doratura di queste colonne si dice essere costata quattromila corone d’oro: mai cifra fu spesa in modo peggiore. Urbano VIII aggiunse due campanili alla rotunda; e mi meraviglio che non abbia coperto il buco centrale con del vetro, visto che dev’essere molto antipatico e seccante per coloro che stanno al di sotto di esso essere esposti alla pioggia, che altresì rende tutta la chiesa umida e malsana. La visitai molte volte, e di volta in volta mi apparve sempre più scura e dall’aspetto sepolcrale. Lo sfarzo dei Romani non era così vistoso nei loro templi come invece lo era nei loro teatri, anfiteatri, circhi, naumachie, acquedotti, archi di trionfo, portici, basiliche, ma specialmente nelle loro terme. Tantissimi dei loro templi erano piccoli e insignificanti; non uno di essi era paragonabile per dimensioni e sontuosità alla moderna chiesa di San Pietro del Vaticano. Il famoso tempio di Giove Capitolino non era lungo e largo neppure la metà di quello: misurava solo duecento piedi di lunghezza e centottantacinque di larghezza; San Pietro invece si estende per seicentotrentotto piedi, e si allarga per più di cinquecento. Di larghezza è quasi il doppio del tempio di Giove Olimpo in Grecia, che viene considerato come una delle sette meraviglie del mondo. Avrò un’altra opportunità di descrivere secondo il mio gusto le antichità di questa metropoli; in quel caso scenderò maggiormente (e forse impertinentemente) nei particolari. Quando comincerò a divenire incontrollabile, sarai autorizzato a biasimarmi. Sarà sufficiente la più velata allusione. Certamente tuo.

Capitoli

Lettera XXVI

Nizza, 15 Gennaio 1765

CARO SIGNORE, - Non senza ragione Genova viene chiamata La Superba. La città è imponente al massimo grado; i nobili sono Leggi tutto »


Capitolo XXVII

NIZZA, 28 Gennaio, 1765

CARO SIGNORE, - Pisa è una città bellissima e antica che ispira la stessa venerazione della vista di un tempio classico recante i Leggi tutto »


Lettera XXVIII

NIZZA, 5 Febbraio 1765

Caro Signore, - La tua bellissima lettera del cinque di questo mese è stata un dono generoso e gradevole: ma i tuoi sospetti sono infondati. Ti assicuro, sul mio onore, Leggi tutto »


Lettera XXIX

NIZZA, 20 Febbraio 1765

Caro Signore, - Dopo aver visto tutte le attrattive di Firenze, ed affittato una buona carrozza per sette settimane, al prezzo di sette zecchini, qualcosa meno di Leggi tutto »


Lettera XXX

NIZZA, Febbraio 28, 1765

Caro Signore, - Nulla può essere più gradevole agli occhi di uno straniero, specialmente nelle calure d’estate, del gran Leggi tutto »


Lettera XXXI

NIZZA, 5 Marzo 1765

Caro Signore, - Nella mia ultima missiva diedi la mia libera opinione riguardo ai moderni palazzi Italiani. Azzarderò ora le Leggi tutto »


Lettera XXXII

NIZZA, 10 Marzo 1765

Caro Signore, - Il Colossaeum o anfiteatro costruito da Flavio Vespasiano è l’opera monumentale più stupenda del suo genere mai prodotta nell’antichità. Rimane in piedi Leggi tutto »


Lettera XXXIII

Nizza, 30 Marzo 1765

Caro Signore, - non immaginarti che io abbia visto metà delle statue e dei dipinti di Roma; c’è una tale vastità di capolavori e Leggi tutto »


Lettera XXXIV

Nizza, 2 Aprile 1765

Caro Signore, - Non ho nulla da comunicare riguardo la libreria del Vaticano, che, con rispetto agli appartamenti e ai loro Leggi tutto »


Lettera XXXV

NIZZA, 20 Marzo 1765

Caro Signore, - Essendo ormai la stagione molto avanzata, ed essendo il tempo divenuto tempestoso, rimasi poco tempo a Firenze, e Leggi tutto »


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