Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un’animazione insolita regna nell’aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai Giapponesi.
Il personale di terra lavora senza sosta attorno agli apparecchi lungo le piste e nei capannoni per oliare e verificare i motori, per fare il pieno di carburante e caricare le bombe.
Il contrammiraglio Masabumi Arima è il comandante della flotta aerea: ha ottenuto in via eccezionale dall’Esercito di concedergli tutti gli aerei in grado di combattere. L’attacco è programmato contro la squadra navale americana di Ralph Davison, e si svolgerà in due ondate.
Arima in persona scende sul terreno con gli altri aviatori. Indossa una tuta senza mostrine e una strana luce brilla nei suoi occhi. Dice: “Comanderò io la seconda ondata”. I suoi uomini lo supplicano di non partecipare a quella che sarà, probabilmente, l’ennesima carneficina. Lui risponde seccamente: “Non si discute. Vengo con voi”.
Già da qualche settimana Arima è cambiato. Si raccoglie molto spesso in isolamento, prega e medita in modo quasi estatico. Ha lasciato la sua lussuosa villa per vivere insieme ai soldati più umili, nutrirsi del loro stesso cibo, condividere con loro le ristrettezze.
La seconda ondata parte a mezzogiorno e Arima la guida con il suo bombardiere Suisei. Gli Zero, i formidabili caccia nipponici, proteggono i bombardieri. Nel primo pomeriggio il Task Group 38/4 di Davison localizza la flotta aerea nemica e lancia le squadriglie di Hellcats per intercettare gli Zero: sarà l’ennesima battaglia tra questi due splendidi apparecchi?
Presto il cielo si riempie di luci e righe di proiettili, dando vita a un altro scontro epico. E’la controffensiva americana che miete le prime, usuali, vittime tra gli Zero, manovrabilissimi ma leggerissimi. I bombardieri Suisei, meno veloci, non riescono neanche a raggiungere le posizioni dalle quali tentare di attaccare in picchiata sulle portaerei. Cadono come mosche. Tutti, tranne uno. E’quello di Arima. Il suo bombardiere non è fuggito, si è semplicemente nascosto dietro una nuvola per cogliere di sorpresa la portaerei Franklin. D’improvviso esce dal suo nascondiglio etereo e si getta dritto per dritto verso la portaerei Franklin. Il bagliore rosso-arancio e una nuvola di denso fumo nero dimostrano che l’ammiraglio si è schiantato deliberatamente sulla nave nemica con il suo carico di tre quintali di bombe. I suoi uomini, da lassù nel cielo, hanno guardato con un misto di angoscia e di gioia fanatica il supremo sacrificio del loro comandante.
Sulla portaerei colpita si sussegue una serie di deflagrazioni: l’incendio provocato dalle bombe e dai serbatoi del bombardiere ha raggiunto un deposito di munizioni. Le squadre di soccorso americane intervengono per tempo e spengono il rogo, ma la Franklin esce dal conflitto a fuoco malconcia, piegata su un fianco e costretta ritirarsi dal palcoscenico della guerra.
Arima è il primo kamikaze ufficiale della Storia. L’attacco suicida “paga” evidentemente di più rispetto a quello convenzionale. Purchè, naturalmente, venga sferrata al momento giusto e sul bersaglio giusto. Intendiamoci. “Paga” perché per l’esercito nipponico mettere fuori uso una portaerei yankee ormai costituisce una piccola vittoria. Nessuno griderebbe “hurrà” per una vittoria di tal genere: tranne loro, i “bastardi musi gialli”.
L’idea di una strategica kamikaze serpeggia già da mesi nell’ambiente militare nipponico. Nemmeno gli ufficiali più fanatici si vogliono prendere la responsabilità di creare un reparto speciale di soldati che andranno incontro a sicura morte.
Fra il 18 e il 20 giugno la sconfitta nelle Marianne porta un capitano di vascello, Eiichiro Jo, comandante della portaerei Chiyoda, a stilare un drammatico report: “Non c’è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei nemiche, numericamente troppo superiori. Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche. Di questo corpo desidero assumere io il comando”.
E’il manifesto del guerriero kamikaze.
L’Alto Comando, a Tokyo, prende tempo. Poi, a ottobre, con la battaglia di Leyte, dovrà prendere atto che sono gli stessi soldati a volere diventare kamikaze.
Il 17 ottobre 1944, due giorni dopo il sacrificio di Arima, il vice-ammiraglio Takijiro Onishi, nominato comandante della Prima Flotta Aerea di Marina, arriva a Manila. Ha carta bianca per condurre la difesa delle Filippine. L’ultima difesa.
E’uno dei più valorosi e celebri generali dell’esercito nipponico. E’stato il primo a praticare paracadutismo, ha partecipato a pianificare l’attacco a Pearl Harbour ed è sempre stato in prima linea, come la stragrande maggioranza degli ufficiali giapponesi.
Nel pomeriggio del 19 ottobre si fa condurre in auto nel campo di aviazione di Mabalacat e chiede di recarsi dal comandante della 201° squadra aerea. La flotta americana è alle porte e la situazione sembra disperata.
Nella palazzina di comando si incontrano Onishi, il suo ufficiale d’ordinanza Chikanori Moji, il capitano di fregata Asaichi Tamai, il sottocapo della flotta aerea Rikihei Inoguchi e due comandanti di squadriglie, Yokoyama e Ibusuki. L’atmosfera si fa tesa quando Onishi prende la parola in modo solenne: “Purtroppo noi non siamo più abbastanza forti per poterci misurare con il nemico nei combattimenti aerei. Ci resta tuttavia una carta da giocare. Dovremo impedire agli apparecchi americani di decollare dalle portaerei almeno per la prossima settimana. Sono persuaso che l’unico mezzo per conseguire questo scopo sia quello di caricare delle bombe da 250 chilogrammi sotto ai nostri caccia e di mandarli a fracassarsi direttamente sugli obiettivi. Che ne pensate, signori”?
Per la prima volta nella Storia un comandante chiede un suicidio certo ai suoi uomini. Ci sono stati, naturalmente, tantissimi attacchi frontali destinati a sicura carneficina nel corso della Storia (uno su tutti i Trecento di Leonida). Ci sono stati attacchi-suicidi anche tra gli stessi marines. Lo stesso Arima ha scelto deliberatamente di mettere in atto il sacrificio estremo. Ma questo è diverso. Qui si tratta di mettere in atto una strategia di guerra deliberatamente improntata al suicidio. Si tratta di creare un corpo speciale di uomini destinati sicuramente a perdere la vita. E’una responsabilità immane.
A rompere il silenzio ci pensa Asaichi Tamai: “Quali effetti pratrici possono avere su una portaerei l’impatto di un piccolo caccia e l’esplosione di una bomba da 250 chilogrammi”?
La risposta la dà Yoshioka: “La portaerei non affonderà, è quasi certo. Ma la si può mettere fuori combattimento per qualche giorni, forse per più settimane. E comunque se riusciamo a colpirla prima che i suoi apparecchi siano decollati, questi non potranno più alzarsi in volo”.
La decisione è presa, anche se qualunque esercito razionale capirebbe che un sacrificio di quel genere porterebbe dei benefici quasi ridicoli. Onishi è commosso fino alle lacrime, tutti sono profondamente scossi ma ansiosi di morire per l’imperatore. D’ora in poi i suicidi saranno pianificati nell’ambito di una strategia di difesa ben precisa. Gli uomini che faranno parte di questo corpo saranno certamente certi della morte. Addirittura, lo sapranno in anticipo di settimane. Saranno volontari, è vero, ma quale soldato giapponese rifiuterebbe?
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