No, naturalmente, ancora nessuno pensa ad arrendersi. Anzi.
Con i pochissimi aviatori esperti rimasti si forma un gruppo di kamikaze d’èlite, il Gruppo Speciale Azusa, formato da 24 caccia e 9 ricognitori. La loro missione è quella di arrivare alla base americana di Ulithi dove sono in riparazione alcune portaerei. Il progetto è praticamente irrealizzabile visto che la distanza da percorrere da Kyushu è di oltre 3.000 chilometri. Non si possono utilizzare, quindi, gli Zero. Così per la prima volta vengono messi nelle mani dei piloti i moderni Ginga, armati con bombe da 80 chilogrammi. La speranza è che almeno la metà di quelle bombe esploda dove deve esplodere: i danni, in quel caso, sarebbero ingenti.
Il gruppo Azusa decolla alle 7 del mattino dell’11 marzo e punta a sud. Il cielo è limpido, l’oceano increspato da una leggera e piacevole brezza. Primi imprevisti: il funzionamento di alcuni motori è imperfetto e alcuni devono rientrare.
Intanto le condizioni atmosferiche, all’improvviso, peggiorano. Sulla verticale dell’isola di Okinatori Shima gli aerei vengono investiti da furiose raffiche di vento, mentre all’orizzonte si formano banchi di nuvole gravide di pioggia. I piloti si consultano. Andare avanti o desistere? Andare avanti, naturalmente.
Si decide di allungare il percorso per evitare l’occhio del ciclone, ma è inutile: i Ginga finiscono nel bel mezzo della tempesta e, per ore, ne rimangono in balia. Alle 14,30 i ricognitori gettano la spugna e tornano indietro. I kamikaze vanno avanti soli. Alcuni si inabissano, privi di carburante. Ne rimangono 11 che sono riusciti a risparmiare miracolosamente il carburante con un’abilità aviatoria incredibile. Vengono premiati: dopo quasi dodici ore di volo si apre davanti a loro uno squarcio di terra, si intravvedono le luci di una base. E’Ulithi. Ce l’hanno fatta. Gli Americani, certi di non correre pericoli, hanno mandato a donne di facili costumi tutte le precauzioni e le norme di oscuramento.
I kamikaze sentono i motori dei loro aerei tossire, la riserva di carburante è terminata. Uno a uno, i Ginga si inabissano. Tranne uno. Come un aliante pilotato da un dio dell’aria scivola silenzioso sulle navi americane ferme nella baia e punta sulla Randolph, centrandola in pieno. I marinai americani sono riuniti a guardare un film poliziesco e si accorgono solo all’ultimo di essere stati colpiti. A bordo divampa un grosso incendio, ma nulla più.
La missione è stata un fallimento. Ha solo dato conferma agli Americani della tenacia, del fanatismo e della pazzia dei “musi gialli”.
Non migliore fortuna hanno le “bombe volanti”, chiamate Okha, cioè Fiore di Ciliegio. Sono razzi pilotati (piuttosto simili ai MAS) che devono essere trasportati fino in prossimità dell’obiettivo da un bombardiere-madre. La loro prima missione avviene a 590 miglia da Kyushu. Il responsabile di questa formazione di pazzi è Matome Ugaki, convinto che quei trabiccoli siano il mezzo più adatto a far vincere la guerra: grazie alle loro dimensioni ridotte e alla altissima velocità di caduta (800 chilometri orari) difficilmente potranno essere centrati dal fuoco della contraerea. Basta che un Okha arrivi alla portaerei e saranno guai per gli yankees. Almeno in teoria.
Appunto, in teoria. L’attacco parte il 21 marzo e l’imponente formazione di bombardieri arriva in quota circondata dagli Zero. Fino alle due del pomeriggio, tutto perfetto. Poi, quando i Giapponesi arrivano a 100 chilometri dalle portaerei, ecco profilarsi uno stormo di 50 Hellcats. I bombardieri, impacciati dal peso degli Okha, vengono falciati in meno di un minuto. Gli Zero, in numero troppo esiguo, non riescono ad abbattere nemmeno un aereo americano. La missione si risolve in una carneficina. Nessun pilota riesce a tornare alla base. Ugaki scoppia a piangere come un bambino.
Nel frattempo gli Americani preparano l’attacco a Okinawa: il passo successivo sarà lo sbarco su una spiaggia del Giappone. Per gli alti comandi nipponici, Okinawa non deve cadere: come non dovevano cadere Iwo Jima, le Filippine, le Marianne. Si cambia tattica. Stavolta i kamikaze saranno la maggioranza degli aerei. Niente più speranza di battere gli apparecchi americani in modo convenzionale, quindi. E’la strategia più fanatica e inutile che si possa mettere in atto. Si affidano a novellini dei mezzi praticamente inutilizzabili, difficilissimi da manovrare e con dei grossi problemi al motore e alle eliche. Praticamente dei novizi devono pilotare degli aerei che neppure i più esperti riuscirebbero a tenere in aria in modo dignitoso. Invece quei pazzi li devono addirittura usare per combattere, anche se l’obiettivo è quello di schiantarsi sull’obiettivo.
Il lettore si starà chiedendo perché quello stillicidio continui. Anche leggendo le mie righe si capisce benissimo che ogni sforzo è totalmente vano. Non si riesce a capire come gli ufficiali nipponici non siano in grado di valutare la strapotenza americana, che continua a sfornare aerei e navi. E’un semplice esercizio mentale che però probabilmente la mentalità giapponese si rifiuta di compiere. Il fanatismo ormai è arrivato a vette impossibili e continua a mietere vittime innocenti.
Dunque, la battaglia di Okinawa vedrà l’utilizzo preponderante di attacchi suicidi. La sua difesa di terra è affidata alla 32° armata comandata dal generale Mitsuru Ushijima, forte di 100.000 uomini: un numero impressionante. Fondamentale sarà quindi l’apporto delle squadre di kamikaze e di un altro corpo speciale creato ad hoc: i Kikusui, cioè Crisantemi Galleggianti (ironia della sorte, per i Nipponici il crisantemo non è un fiore cimiteriale).
Arrivano alle basi decine e decine di aerei praticamente inservibili: Zero rimessi a posto in fretta e furia, velivoli di vecchia generazione, rottami solamente in grado di reggersi in volo. In più gli aviatori esperti ormai sono quasi tutti morti e l’aviazione viene affidata praticamente solo a novellini. In questo il Giappone ha sbagliato: doveva fin dal principio fare economia di piloti validi, senza mandarli allo sbaraglio in missioni impossibili. Forse loro, con l’adeguata preparazione, avrebbero potuto pilotare meglio gli Zero, evitando il fuoco di sbarramento e arrivando direttamente sui bersagli. Invece si è deciso di scialacquare risorse umane, soldi e aerei buttando nella mischia ragazzi inesperti.
Ormai, a Okinawa, il dado è tratto. Ci si arrangia come si può e infatti le cose si mettono subito malissimo. Il 18 marzo vanno al macello una cinquantina di kamikaze con l’unico risultato di danneggiare gravemente la Intrepid. Il giorno dopo è ancora peggio: nessun danno agli obiettivi. Il 20 marzo va un po’ meglio: vengono colpiti un cacciatorpediniere e un sottomarino.
Il 26 i marines mettono piede su un atollo vicino ad Okinawa: lo sbarco sta cominciando e il tempo, per i Giapponesi, stringe. Ugaki ordina ai suoi: “Dovete affondare o danneggiare in modo grave almeno 20 corazzate o portaerei pesanti, in modo da ristabilire l’equilibrio strategico tra il Giappone e gli Stati Uniti”. Da questo ordine si vede la totale miopia degli alti comandi nipponici: anzi, la totale lontananza dalla realtà che non si percepisce oppure non si vuole percepire. L’impossibilità di conseguire un simile obiettivo è palese, lo capirebbe anche un pazzo. Poi l’affermazione “in modo da ristabilire l’equilibrio strategico” è semplicemente un delirio di un pazzo.
Si potrebbe obiettare che gli ufficiali abbiano mandato a morire consapevolmente i loro uomini senza avere speranze. Ecco, questo è sbagliato. Tutti, dall’imperatore all’ultimo dei Giapponesi, hanno la certezza di poter ancora vincere questa guerra. Ripeto, probabilmente credevano in un rivolgimento della situazione in Europa: questa è un’ipotesi molto dibattuta tra gli storici. Altra ipotesi è quella secondo la quale i Nipponici speravano che prima o poi le riserve americane si esaurissero: in effetti gli yankees avevano messo in campo una flotta incredibile dal punto di vista numerico, con l’appoggio di un’aviazione straordinaria. Le portaerei sembravano continuare a nascere dalle profondità del mare e gli aerei parevano uscire dalle nuvole del cielo: il numero di unità militari era davvero impressionate. Probabilmente contro qualunque altra potenza mondiale, anche la Gran Bretagna, il Giappone avrebbe vinto la guerra nel Pacifico. Ma non contro gli Stati Uniti.
Il 26 marzo dunque scatta l’attacco suicida coordinato alle portaerei americane. Più di cento aerei kamikaze partono da Kyushu e stavolta fanno davvero miracoli: colpiscono la corazzata Nevada, l’incrociatore Biloxi, quattro cacciatorpediniere, un posamine e un dragamine. Certo, il risultato è ben lontano dalle pazze speranze iniziali, però è già qualcosa. Il 29 marzo un kamikaze centra in pieno la corazzata pesante Indianapolis, la nave dell’ammiraglio Spruance, che è costretto a trasferirsi sulla New Mexico.
Il 6 aprile i Kikusui, i Crisantemi Galleggianti, vengono impiegati in un attacco dalle proporzioni enormi, almeno per le ormai limitate risorse giapponesi. Partono da Kanoya e Kushira ben 358 apparecchi, tra cui 80 kamikaze classici, 8 bombardieri muniti di Okha, 110 caccia di scorta e 160 aerei di copertura dell’esercito. Gli Americani sanno perfettamente di questo attacco di massa, anche perché riescono ormai da anni a decifrare molti messaggi in codice, e accolgono i nemici con la solita parata di Hellcats, Corsairs e caccia di ricognizione. Il cielo diventa ancora una volta una costellazione di lampi, rombi, sangue e ferro e ancora una volta i Giapponesi vengono distrutti. Solo 41 caccia di ricognizione rientrano alla base. Risultato: affondati due cacciatorpediniere e un posamine, danneggiato un incrociatore, 12 cacciatorpediniere, 1 posamine, 4 dragamine e 2 imbarcazioni minori.
Sono danni che fanno il solletico al gigante americano, ma obiettivamente, visto come si sono messe le cose, non si può chiedere di più ai Nipponici. Anzi, con gli attacchi suicidi si sono ottenuti risultati migliori rispetto alle missioni standard. Questo parziale successo fa alzare la testa agli alti comandi, che ormai puntano solo e soltanto sui kamikaze per cercare di rallentare l’avanzata yankee.
Il 7 aprile i piloti suicidi arrivano a danneggiare gravemente la corazzata Maryland e la portaerei Hancock. L’11 aprile stessa sorte tocca alla corazzata Missouri (una delle migliori) e la portaerei Enterprise (altra unità d’èlite). Sono risultati soddisfacenti. Certo, non decisivi per la battaglia di Okinawa, ma comunque migliori di quanto si sarebbe ottenuto con una tattica convenzionale.
Il 12 aprile Ugaki lancia quindi un'altra offensiva in grande stile: 143 kamikaze, 9 bombardieri provvisti di Okha, 196 caccia di scorta. Questi ultimi, in numero inusuale, servono a garantire la copertura ai kamikaze. Ci si aspetta, infatti, un fuoco di copertura spettacolare da parte degli Americani. Spettacolare dal punto di vista militare, si capisce.
E infatti la copertura arriva, anch’essa in grande stile. Un corteo di Hellcats si para davanti agli Zero. I caccia giapponesi sono inferiori ad essi, ma se la possono comunque giocare. Quando però arriva in parata uno stormo di Corsairs i Nipponici capiscono che non ci sarà storia. Sono i caccia americani di ultima generazione: maneggevoli, velocissimi, nel contempo robusti e quasi indistruttibili. Aggiungiamo che gli Zero in battaglia sono pilotati da eroi, ma inesperti. Trecentotrenta apparecchi nipponici vengono abbattuti: solo 18 tornano alle basi. I risultati stavolta sono inferiori alle aspettative: alcune corazzate danneggiate lievemente e due cacciatorpediniere affondati.
In meno di tre mesi a Okinawa vanno perduti 7.600 apparecchi giapponesi contro 763 americani, con un rapporto di 10 a uno. Le industrie nipponiche, in particolare la Mitsubishi, lavorano a ritmi serrati 24 ore su 24 producendo quello che gli Europei produrrebbero mettendoci il quadruplo del tempo. Solo quella nazione fanatizzata riuscirebbe a combattere ancora quella guerra: eppure, dal semplice operaio all’eroe kamikaze, tutti credono ancora nella vittoria. Anche in quella primavera del ’45, quando Okinawa viene invasa dagli Americani, si pensa che il millenario Giappone non cadrà.
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