Nizza, 30 Marzo 1765
Caro Signore, - non immaginarti che io abbia visto metà delle statue e dei dipinti di Roma; c’è una tale vastità di capolavori e
di opere d’arte in questa capitale, che trascorrendo un intero anno qui avrei potuto dare solo una fugace occhiata d’insieme a queste antichità; e comunque tralascerei sempre qualcosa. Le opere più celebrate, comunque, le ho viste; e perciò la mia curiosità è soddisfatta.
Forse, se avessi avuto l’acume e la raffinata sensibilità di un vero conoscitore, questo sguardo superficiale sarebbe servito solamente a stimolare il mio appetito, ed a trattenermi per l’intero inverno a Roma. Nella mia visita in Vaticano, mi piacque in particolare la Scuola di Atene, di Raffaello, un’opera che ha sofferto molto dell’umidità dell’aria. I quattro ragazzi che assistono alla dimostrazione del matematico mostrano espressioni mirabilmente varie. La critica di Mr. Webb su questo artista è certamente esatta. Fu forse il maggiore pittore morale che il mondo abbia mai prodotto. Nessun uomo riuscì ad esprimere i sentimenti in modo così azzeccato, nel viso, nelle pose, nei gesti: ma sembra un po’ troppo freddo nelle grandi passioni, e non riesce spesso a raggiungere il sublime. Possiede la serenità di Virgilio, ma manca del fuoco di Omero. Nulla nel suo Parnasso mi ha emozionato, eccetto la comica indecenza di Apollo che suona la lira per intrattenere le nove muse. [Devo ritrattare questa censura perché mi son informato meglio; esisteva davvero uno Strumento Musicale che veniva usato dagli Antichi, uguale a quello che appare in questa Figura, anche visibile nella Collezione Fiorentina].
Il Giudizio Universale, di Buonarroti, nella cappella di Sisto IV, provocò nel mio sguardo la stessa confusione che sbalordisce il mio orecchio ad un grande concerto dove suonano insieme moltissimi strumenti: o meglio, quando un gran numero di persone si mette a parlare all’unisono. Mi piacque la forza dell’espressione, esibita dalle singole figure: ma l’insieme costituisce una accozzaglia disordinata e in costante fermento. Un pittore dovrebbe evitare tutti i soggetti che richiedono una molteplicità di gruppi e di figure; perché non quell’arte non ha il potere di unire un grande numero di soggetti in un solo punto di vista.
Michelangelo, con tutta la sua conoscenza anatomica, la sua esattezza di disegno, la sua stupenda composizione, il suo fuoco, la sua forza d’espressione, sembra aver avuto poca idea della raffinatezza. Ci si potrebbe immaginare che abbia scelto i suoi re, eroi, cardinali e prelati in mezzo ai facchini di Roma: che il Gesù sulla Croce sia la copia di qualche volgare assassino Agonizzante; pare che gli originali dei suoi Bambini e delle loro madri siano state letteralmente rinvenute in una stalla. Nella Sala Regia, dalla quale la Cappella Sistina è staccata, vediamo, in mezzo ad altre imprese di eroi cattolici, una rappresentazione del massacro dei protestati a Parigi, a Tolosa e in altre parti della Francia, la sera di San Bartolomeo, così descritta nella Descrizione di Roma, “Nella prima pittura, esprime Giorgio Vasari l’istoria del Coligni, grand’ammiraglio, di Francia, che come capo de ribelli, e degl’ugonotti, fu ucciso; e nell’altra vicina, la strage fatta in Parigi, e nel regno, de ribelli, e degl’ Ugonotti”. “Nel primo dipinto, Giorgio Vasari raffigura la storia di Coligni, grandammiraglio della Francia, che come capo dei ribelli e degli ugonotti venne ucciso; e nell’altro vicino, il massacro dei ribelli e degli ugonotti a Parigi e in altre parti del
regno”. In questo modo la corte di Roma impiegava i suoi artisti per celebrare e perpetuare come un’azione meritoria, il più perfido, crudele e infame eccidio che mai disonorò gli annali di ogni nazione.
Non ho bisogno di citare le due statue equestri di Costantino il Grande e di Carlomagno, che sono collocate ai due opposti del grande portico della chiesa di San Pietro; perché non c’è nulla in esse che abbia attirato la mia attenzione. La Cleopatra dormiente, posta nella corte del Belvedere, in Vaticano, è molto ammirata; ma io preferii di gran lunga l’Apollo, che ritengo la più bella statua che sia mai stata plasmata. Il Nilo, nel cortile, supportato da bambini, ha meriti infiniti; ma è molto danneggiato, e completamente ignorato.
Se davvero sia lo stesso descritto da Plinio, che fu collocato da Vespasiano nel Tempio della
Pace, non so. I sedici bambini che giocano intorno denotano il Nilo in piena, ma che non superava i sedici subiti. Il gruppo di Laocoonte superò tutte le mie aspettative. Non senza ragione Buonarroti lo definì un capolavoro portentoso; e Plinio non ha fatto altro che render giustizia definendolo la più eccelsa opera mai intagliata nel marmo; eppure il famoso Fulvio Ursini ritiene che non sia la stessa statua descritta da Plinio. Ecco le sue ragioni, menzionate da Montfaucon. Le statue descritte da Plinio erano formate da una sola pietra; queste no. Antonioli, l’antiquario, è in possesso di pezzi dei serpenti di Laocoonte, che erano stati rinvenuti al suolo, dove attualmente sorgono le terme di Tito,
ed è d’accordo con Plinio, che dice che queste statue erano poste nelle costruzioni di Tito. Sia come sia, l’opera che ora vediamo rende onore all’antico. Visto che hai guardato innumerevoli copie e plagi di esso, in marmo, gesso, rame, grafite, pitture, dipinti, e letto la descrizione in Keysler, e in altri venti libri di viaggi, non dirò nulla sul soggetto; ma non si può dire molto di più in sua lode. Sicuramente è formata da un solo pezzo. In questo particolare Plinio sembra essersi sbagliato. “Opus omnibus et picturae, et statuariae artis praeponendum. Ex uno lapide eum et Liberos draconumque mirabiles nexus de consilii sententia fecere succubi artifices”. “Un’opera preferibile a tutti gli altri Lavori di Pittura e Statuaria. I più eccellenti artisti unirono i loro Talenti per creare il Padre e i suoi Figli, con
l’ammirevole avvinghiamento di Serpenti, e modellare un solo Blocco”.
Buonarroti scoprì i giuntaggi, sebbene questi fossero così astutamente nascosti da sembrare invisibili. Questo splendido gruppo è opera di tre scultori Rodiensi, Agesandro, Polidoro, e Atenodoro, e venne ritrovato nelle terme di Tito Vespasiano, sempre presupponendo che sia l’originale antico. Non ho avuto tempo di esaminare il torso, o tronco mutilato della statua, chiamato scuola di Michelangelo; non ho avuto neppure abbastanza raffinatezza per percepire le sue magie a prima vista. I famosi cavalli di Monte Cavallo, davanti al palazzo del papa, che si dice siano stati eseguiti emulando Fidia e Prassitele, come le statue di Castore e Polluce; ma quella che mi piacque di più di tutte le altre opere messe insieme, è stata la stutua equestre di ottone Corinzio che è collocata nel mezzo di questa Piazza cioè nel Capitolo) che si dice rappresenti l’imperatore Marco Aurelio. Altri ritengono invece raffiguri Lucio Vero; altri ancora propendono per Lucio Settimio Severo; ed infine un altro gruppo di critici credono fermamente che l’uomo a cavallo sia Costantino poiché era posta nella Piazza del palazzo Laterano, costruito da quell’imperatore, dalla quale papa Paolo III la rimosse e la portò nel Capitolo. Ritenni il trionfo di Mario un’opera curiosa, ed ammirai le due sfingi al fondo della scalinata che conduce a questa Piazza, come gli unici ottimi esemplari che abbia veduto dell’arte Egizia: visto che i due idoli di quella nazione, che rimangono al piano terra del Museo del Capitolo, e invero tutte le statue Egizie nella Camera Aegyptiaca di questo edificio, costituiscono tali mostruose rappresentazioni della natura, che non avrebbero mai potuto ottenere un posto fra le statue di Roma, se non come rarità di una superstizione esotica, plasmate con materiali come basalto, porfido o granito orientale. Alla fine del cortile di questo Mausoleo, di fronte all’ entrata, c’è una bellissima fontana con la statua di una divinità fluviale che si appoggia sulla sua urna; non è che il celebre Marforio, così chiamato perché è stato rinvenuto in Martis Fore. E’notevole solo perché fu il mezzo di trasporto delle risposte dei
satiri che sono stati trovati incollati su Pasquino, un’altra statua mutilata, che rimane all’angolo della strada.
La bara marmorea, che si suppone abbia contenuto le ceneri di Alessandro Severo, che troviamo in uno di questi alloggi, è una rarità curiosa, preziosa per la sua scultura in basso rilievo, in special modo per le figure sul coperchio, rappresentanti quell’ imperatore e sua madre Giulia Mammea.
Mi dispiacque non aver tempo per esaminare l’antica pianta di Roma, disposta in sei ordini, sulla scalinata di questo Mausoleo, che venne portata qui da un tempio che rimaneva nel Forum Boarium, ora chiamato Campo vaccine.
Sarebbe per me ridicolo entrare nei dettagli della amplissima collezione di marmi, bassorilievi, iscrizioni, urne, busti, e statue, che sono poste negli appartamenti ai piani nobili di quest’edificio. Vidi ciascun oggetto una sola volta, e mi colpirono i seguenti particolari. Una baccanale ubriaca; un Giove e una Leda uguali a quelli nella galleria di Firenze; una vecchia prefica, o donna pagata per piangere, molto rassomigliante a quelle rugose streghe diffusissime in Irlanda e nelle Highlands della Scozia, che cantano i coronach ai funerali, in lode del morto; il famoso Antinoo, una figura elegante, che Poussin
studiò come canone di simmetria; i due fauni; e sopratutti il mirmillione, o gladiatore morente; la posa del corpo, la sua espressione, l’eleganza delle membra, e il rigonfiamento realistico della muscolatura, in questa statua, sono universalmente ammirati; ma l’esecuzione della schiena è incredibilmente raffinata. L’andamento dei muscoli denominati longissimi dorsi è così naturalmente marcata e soavemente eseguita, che il marmo emula perfettamente la morbidezza della carne; potreste contare tutte le colonne vertebrali che sollevano la pelle come in un corpo vivente; tuttavia questa statua, pur con i suoi meriti, sembra inferiore al celebrato gladiatore morente di Ctesila, come descritto da Plinio, il quale afferma che l’espressione era tale da apparire incredibilmente somigliante al vero.
Nella corte, al lato opposto del Capitolo, c’è una mirabile statua d’un leone che divora un cavallo, ritrovata alle porte di Ostia, accanto alla piramide di Caio Cestio; e qui sul lato sinistro, sotto una colonnata, si trova ciò che qui chiaman Columna Rostrata, eretta in onore di Caio Duilio, che per primo trinfò sui Cartaginesi per mare. E’però una colonna moderna con una iscrizione antica, così sfregiata da non essere più leggibile. Tra i dipinti nella galleria e nel salone di sopra ciò che mi piacque di più furono il Bacco e l’Ariadne di Guido Reni; e la lupa che allatta Romolo e Remo di Rubens. Il cortile del Palazzo Farnese è circondato da statue antiche, tra le quali le più famose sono la Flora, con un delicatissimo drappeggio; il gladiatore che porta in spalla un ragazzo morto; l’Ercole, con le spoglie del leone di Nemea, ma quello che tutti i critici d’arte stimano il migliore è l’Ercole di Glico, che anche tu ben conosci, grazie alla infinita grandiosa reputazione che ha acquistato. Questa eccezionale statua è stata trovata senza le gambe: queste furono stupendamente sostituite da Gulielmo de la Porta in modo così perfetto che quando furono scoperte quelle originali, Michelangelo preferì comunque quelle dell’artista moderno, per la loro leggiadria e proporzione; e perciò furon mantenute. In una casetta, o capanno, dietro al cortile, vien conservato il meraviglioso gruppo di Dirce, comunemente chiamato il Toro Farnese, qui portato dalle terme di Caracalla. C’è un tale spirito, un tal ferocia, una tale indignata resistenza in questo toro, alle cui corna Dirce è legata per la chioma, che io non avevo mai visto nulla di simile. Le statue dei due fratelli che si sforzano di gettarlo nel mare sono delle belle figure, elegantemente contrapposte; e la corda, che uno di quelli stringe in una sorta di bobina sciolta, è così sorprendentemente cesellata, che si crede a stento sia di pietra. Quanto a Dirce, sembra un personaggio secondario; c’è un cane sulle sue gambe superiori che abbaia al toro, che è molto ammirato. Questo emozionante gruppo è stato realizzato da
Apollonio e Taurisco, due scultori di Rodi; ed è menzionato da Plinio nel trentaseiesimo libro della sua Storia Naturale.
Tutti i preziosi monumenti dell’arte, che ci sono stati tramandati dall’antichità sono produzioni di artisti Greci. I Romani avevano abbastanza buon gusto per venerare le arti della Grecia, come chiaramente appare dalle grandi collezioni di dipinti e statue, oltre che ai loro canoni di architettura e alla musica: ma non ricordo di aver letto di alcun Romano che sia stato un grande pittore o scultore. Non mi soddisfa affermare che quelle professioni non erano onorevoli a Roma, perché la pittura, la scultura e la musica, perfino la retorica, la fisica, e la filosofia erano praticate e insegnate dagli schiavi. Le arti erano sempre onorate e riverite a Roma, anche quando i loro professori erano degli schiavi, divenuti tali per le sfortune e l’iniquità del fato. Il commercio di pitture e sculture era così redditizio che in una repubblica libera, come quella di Roma, dovevano essere state avidamente intraprese da un gran numero di individui: ma, con tutta probabilità, il suolo Romano non
produsse alcun genio in queste arti. Come gl’Inglesi di oggi, erano ferrati in poesia, storia, etica; ma non raggiunsero mai le vette dell’eccellenza nella scultura, nell’architettura e della musica.
Nel Palazzo Picchini vidi tre belle figure, le famose statue di Meleagro, del verro e del cane; insieme ad un lupo, eccellente fattura. La famosa statua di Mosé, opera di Michelangelo, nella chiesa di San Pietro in Vincula, ammirai con piacere; come quella del Cristo, dello stesso autore, nella Chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Il piede destro, ricoperto di bronzo, dorato, è molto baciato dai devoti. Suppongo che sia visto come un rimedio infallibile per il mal di denti, perché vidi un cavaliere piuttosto avanti con gl’anni, e una vecchia donna che strofinavano le loro gengive contro di questo.
Non dubitare: sono andato nella chiesa di San Pietro in Montorio, ad ammirare la celeberrima Trasfigurazione, di Raffaello, che se fosse di mia proprietà, taglierei in due parti. Le tre figure in aria attirano così tanto lo sguardo, che poca o nulla attenzione viene rivolta a coloro che stanno sotto la montagna. Capisco che la natura del soggetto non ammette quella dipendenza, che dovrebbe essere mantenuta nella disposizione delle luci e delle ombre nel dipinto. I gruppi sembrano essere completamente indipendenti l’uno dall’altro.
Lo straordinario merito di quest’opera, immagino, consiste, non solamente nell’espressione di divinità sul volto di Cristo, ma anche nella sorprendente luminosità della figura, che si libra come uno splendido respiro nell’aria. Nella chiesa di San Luca non venni colpito del tutto dalla pittura del santo che dipinge il ritratto della Vergine Maria, sebbene sia ammirato come uno dei capolavori di Raffaello. Invero mi ha emozionato pochissimo, che non ricordo neppure la disposizione dei personaggi. L’altare, di Andrea Sacchi, nella chiesa di San Romoldo, avrebbe più merito, se la figura del santo avesse più
importanza, e fosse raffigurato in una luce più forte. Nel Palazzo Borghese, ammirai principalmente le seguenti opere: una Venere con due ninfe; ed un’altra con Cupido, entrambi di Tiziano: un’eccellente Pietà Romana di Leonardo da Vinci; e la celebre Musa di Domenichino, una figura vivace, bella e prosperosa.
Nel palazzo di Colorina Connestabile fui incantato dall’Erodiade di Guido Reni; da un giovine Cristo; e da una Madonna di Raffaello; e da quattro paesaggi, due di Claude Lorraine, gli altri due di Salvator Rosa. Nel palazzetto, o casa di campagna del Palazzo Rospigliosi ebbi la soddisfazione di contemplare l’Aurora di Guido, i cui colori mantengono una altissima perfezione, nonostante la diceria comune che l’opera venga consumata dall’umidità dell’appartamento. La copia di questo quadro, di Freij, con tutti i suoi meriti, trasmette solo una idea imperfetta della bellezza dell’originale.
Nel Palazzo Barberini si trova una grande collezione di marmi e dipinti: fui attratto soprattutto dalla splendida statua di Venere; da un fauno dormiente, di curiosa lavorazione; da un incantevole Bacco che giace su un’antica scultura; e dal famoso Narciso. Tra i dipinti, mi deliziarono in special modo la Maddalena di Guido, infinitamente superiore a quella di Le Brun nella chiesa delle Carmelitane di Parigi; la Vergine di Tiziano; una Madonna di Raffaello, ma non comparabile a quella che si trova in Palazzo de Pitti a Firenze; e la morte di Germanico, di Poussin, che ritengo uno dei capolavori di questa grandiosa collezione.
Nel Palazzo Falconeri c’è una bellissima Santa Cecilia di Guercino; una santa famiglia di Raffaello; ed una elegante ed espressiva raffigurazione di San Pietro in lagrime, di Domenichino. Nel Palazzo Altieri ammirai una pittura di Carlo Maratti che rappresenta un santo che evoca un fulmine dal cielo per ammazzare i blasfemi. In particolare venerai la figura del santo. Gli altri personaggi e le altre composizioni del quadro eran piuttosto insulse: forse sono state di proposito tenute in secondo piano per rimarcare la figura principale. Immagino che Salvator Rosa avrebbe disposto diversamente il tutto: che in mezzo all’oscurità di una tempesta avrebbe illuminato il blasfemo con lo sfavillio di un fulmine con il quale sarebbe stato incenerito: questo avrebbe gettato uno sprazzo lugubre sulla sua espressione, alterata dall’orrore della sua situazione e degli effetti del fuoco; e avrebbe reso la scena terribilmente bizzarra.
Nello stesso palazzo vidi la famosa famiglia sacra di Correggio, che non terminò, e nessun altro artista accettò di finire; per qual ragione non so. Qui si trova anche un giudizio di Parigi, di Tiziano, riconosciuto come opera notevole. Nel Palazzo Odescalchi si conserva una famiglia sacra di Buonarroti e un’altra di Raffaello, entrambi considerate eccellenti, sebbene realizzate in stili diversi dai due grandi artisti rivali.
Se non fossi abbastanza stanco di questa parata, continuerei a menzionare centinaia di marmi e di pitture che ebbi la ventura di vedere a Roma; e poi potrei enumerare anche tutte quelle opere che non vidi: ma non mi sembra il caso di farlo; e ti assicuro, sul mio onore, che ho descritto solo ciò che è caduto sotto il mio sguardo.
Per quanto concerne le mie critiche, ho paura che tu le riterrai troppo superficiali e capricciose da appartenere a qualunque altra persona eccetto – Il Tuo umile servo.
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