Il 12 aprile 1945 muore Franklin Delano Roosvelt, 32° presidente degli Stati Uniti d’America. La Seconda Guerra Mondiale è ormai al crepuscolo.
In quella primavera del 1945 in Italia si combatte una guerra fratricida tra il nord, occupato dai repubblichini di Salò e dai nazisti, ed il centro-sud, conquistato in pochi mesi dagli Alleati. La Germania tenta una disperata ma vana resistenza che in quei mesi primaverili del ’45 miete centinaia di migliaia di inutili vittime, soprattutto ragazzini giovanissimi e anziani richiamati al servizio per evitare l’onta di un’altra sconfitta e la fine del sogno utopistico e mostruoso di Adolf Hitler.
Rimane il Giappone, l’Impero del Sol Levante, che non ha mai perso una guerra nella sua storia millenaria e che sta sperimentando da un paio d’anni la disperata tattica dei kamikaze (di cui parleremo in una sezione apposita). Nel corso del dopoguerra si è dibattuto fino alla morte su quale fosse la vera situazione giapponese. O meglio, la situazione si sapeva. Gli Americani avevano ripreso in due anni ciò che avevano perso dopo Pearl Harbour nel ’41, e puntavano dritti su Tokyo. Gli aerei giapponesi, i mitici “Zero” (vedi un articolo in “Racconti di Storia”), venivano dati in mano a pivellini con una decina di ore di volo sulle spalle, che automaticamente diventavano dei kamikaze anche se non lo volevano. Le portaerei erano in realtà una decina di bagnarole inutilizzabili. Il colosso yankee sembrava un enorme trattore che arava senza pietà le piccole formiche del Sol Levante.
La guerra, lo avrebbe capito anche un pazzo, era persa. E si capisce bene nella sezione dedicata ai kamikaze nella “Storia degli Orrori”. Purtroppo il governo e le alte sfere militari non la pensavano così. E paradossalmente furono proprio gli alti ufficiali nipponici i principali alleati degli Americani. Furono loro i pretesti per il lancio dell’atomica.
Winston Churchill, nel discorso alla Camera dei Comuni del 16 agosto 1945, qualche giorno dopo lo sgancio dell’atomica, disse: “Nel nostro Paese (la Gran Bretagna, nda) si è affermato che quest’arma non avrebbe dovuto essere utilizzata. Mi dispiace, ma non posso condividere questa opinione. L’esperienza di sei anni di guerra mi ha convinto che se i Giapponesi o i Tedeschi avessero avuto la possibilità di annientarci, avrebbero fatto del loro meglio”. Vero. Altrettanto vero, e Churchill stesso lo ammise senza problemi, che gli accordi con Stalin prevedevano “l’entrata in guerra russa contro il Giappone tre mesi dopo la resa della Germania. Questo perché erano necessari tre mesi al loro esercito per raggiungere la Manciuria. I Tedeschi si arresero l’8 di maggio e i Russi dichiararono guerra al Giappone l’8 agosto: un esempio ulteriore della puntualità con cui le valorose armate di Stalin hanno sempre tenuto fede ai loro impegni militari”.
Il premio Nobel e direttore del laboratorio metallurgico associato al “Progetto Manhattan” (quello che ideò la bomba atomica, di cui parleremo fra poco), Arthur Compton, affermò una decina d’anni dopo lo sgancio dell’atomica: “l’impiego di quella terribile arma aveva consentito ai Giapponesi di arrendersi con onore. Nonostante l’immenso danno causato, ero convinto che avrebbe evitato la morte di altri Americani e di altri Giapponesi”.
Da queste due dichiarazioni, che prendiamo come riferimento (anche se ce ne sarebbero moltissime altre altrettanto interessanti) per spiegare il punto di vista degli Americani e dei Britannici, si evince quasi che l’atomica sia stata un “favore” da parte degli Alleati verso il popolo nipponico, governato da dei pazzi che volevano continuare a oltranza una carneficina inutile. Questo “favore” si tradusse in una carneficina di poveri innocenti bombardati senza preavviso a Hiroshima e poi a Nagasaki. E, nei decenni successivi, in chissà quanti poveri innocenti morti o resi deformi a causa di quel “favore”.
La realtà accertata dai fatti della Storia è molto diversa, e la diciamo subito prima di addentrarci finalmente nella mera cronaca dei fatti.
Stalin, nell’incontro di Potsdam, aveva effettivamente assicurato di attendere tre mesi dopo la dall’invio delle truppe in Manciuria e infatti tenne fede ai patti. Peccato che dell’atomica, anche se aveva avuto dei sentori, non sapesse praticamente nulla. Qui si entra in una fantapolitica secondo cui sarebbe accaduto tutto e il contrario di tutto in quei primi sei mesi del’45. La guerra, ormai, questo lo sapevano tutti compreso Hitler, era finita. Bisognava solo vedere chi sarebbe arrivato prima a Berlino a piantare la bandiera. E ci arrivarono primi i Russi.
Gli Americani non potevano permettersi che arrivassero primi anche a Tokyo. Su come e su quando le armate rosse sarebbero arrivate nella capitale giapponese questo è tutto da vedere. L’esercito russo non era una macchina perfetta come quella americana e soprattutto non arrivava dal mare. Già dalla fine della primavera gli aerei yankee cominciarono a martoriare Tokyo e certamente a settembre ci sarebbe stato lo sbarco definitivo. Difficile pensare che i Russi sarebbero arrivati a Tokyo prima degli Americani. Però il rischio c’era. Se pensiamo che l’Armata Rossa arrivò il 24 agosto ad occupare tutta la Manciuria è razionale pensare che in un mese avrebbe potuto trasferire abbastanza truppe per tentare di conquistare la parte preponderante del Giappone. In pericolosa coabitazione bellica con gli Stati Uniti.
Certo, gli yankee avrebbero affrettato le operazioni intensificando i bombardamenti e programmando degli sbarchi in modo più “forzato”. In fin dei conti, erano quasi di fronte al nemico, con un esercito formato da truppe motivate e ben addestrate, un arsenale primo al mondo e con un’aviazione padrona dei cieli orientali. I Russi disponevano di ben altra flotta e ben altra aviazione. Forse gli Americani sarebbero potuti arrivare prima dei Russi a Tokyo. Forse.
Bene, quel forse non stava nel dizionario di Harry Truman.
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