Capitolo Quarto

All’una e 37 di Tinian – le 0,37 del Giappone – si alzano in volo i tre aerei ricognitori. Dopo un’ora stacca le ruote dalla pista Enola Gay. La missione Dimples comincia.

Sulla Superfortezza B-29 ci sono dodici persone, dodici esseri umani inconsapevoli di dar l’inizio all’era nucleare. Al comando c’è Tibbets, tranquillo e senza remore. Beser, l’ebreo che odia i Tedeschi ma non i Giapponesi. Un operatore radar, Stiborik, che non vede l’ora di finire quella guerra e tornare a casa dalla moglie Helen, nell’Oregon, a cui ha scritto la sera prima. Richard Nelson, marconista, diciannove anni e una paura impossibile da nascondere, sfoglia un libro che denuncia gli imbrogli del mondo della boxe. Poi c’è Parsons, ufficiosamente il secondo uomo più importante della missione perché conosce in dettaglio il Progetto Manhattan e perché ha assistito di persona all’esplosione nel deserto del New Mexico il 16 luglio del ’45. Lui ha una sola, colossale, paura: di cadere prigioniero dei Giapponesi, che si solito torturano i prigionieri con le più crudeli tecniche. Per questa ragione si è portato dietro una pistola per spararsi alla tempia in caso di cattura.
Tutti e dodici, comunque, sono inconsapevoli di cosa stanno andando a fare. Probabilmente solo Parsons è consapevole che quella bomba non è come tutte le altre. Ma sicuramente non sa quanto sia più letale delle altre.

Alle 4,52 Enola Gay sorvola l’isola di Iwo Jima. Da quella sperduta macchia nel Pacifico era iniziata anni prima la conquista giapponese dell’oceano. A bordo della Superfortezza si cominciano a fare delle congetture sulla bomba. Tutti sanno che la missione non è quella solita che saprebbero portare a termine tutti. E’insolito anche il carico, e anche questo si capisce bene. Ma in cosa consista di preciso lo sa solo Parsons, e neanche troppo bene. Tibbets conversa con il mitragliere Bob Caron: “Bob, tu sei un veterano. Quanti aerei tedeschi hai abbattuto in Europa”?
“Non so, comandante, forse quindici. Anzi, io ne avrei contati più di trenta, ma quando si vola in formazione capita spesso di credere di avere colpito un nemico, e invece l’ha beccato un tuo compagno”.
Tibbets guarda fisso negli occhi Caron e con un tono diverso di voce gli chiede: “Hai un’idea sulla natura della missione”?
“No, credo di non avere idee. Quando si è nell’esercito pensare serve solo a tirarsi addosso delle rogne”.
“Bè, adesso puoi pensare quello che vuoi: sei in ballo ormai, e non c’è nessuno del Servizio Segreto che ti sente”.
“Bene, allora dirò la mia: penso che in questo affare della superbomba ci sia qualcosa che ha a che fare con la fisica”.
Tibbets si stupisce che quel soldato abbia capito moltissimo e si sia avvicinato alla verità.
Poi Caron rincara la dose, perché il suo pensiero è finalmente libero: “Comandante, è vero che spaccheremo l’atomo”?
Tibbets in quel momento, forse, si ferma a pensare almeno per un secondo alle possibili conseguenze? Può darsi. E’un duro, uno yankee forgiato nel ferro, un vero servitore della Grande America. Ma è pur sempre un uomo. “Sì, Bob, è esattamente come hai detto tu. Spaccheremo l’atomo”. Non sa cosa significa, ma ora ne è consapevole. Spaccheranno l’atomo.
Stiborik ha sentito la conversazione e irrompe: “Atomo o no, purchè questa maledetta guerra finisca!”

Alle 6,30 Parsons va nel vano-bomba a verificare che tutto sia a posto. Quando rientra Tibbets annuncia che sono saliti sopra quota 9000 metri. Entra in funzione l’impianto di pressurizzazione e tutti si mettono le maschere per l’ossigeno. Caron spara qualche colpo con la mitragliatrice, nel vuoto, sia per saggiare il funzionamento sia (soprattutto) per stemperare la tensione. Van Kirk, l’ufficiale di rotta, conferma che stanno arrivando su Shikoku, la prima grande isola del territorio nipponico.
Alle 7.03 la sirena della difesa antiaerea di Hiroshima suona. Viene avvistato un piccolo ricognitore. Si tratta dello Straight Flush pilotato da Claude Eatherly. La visibilità è buona. Nel contempo gli altri due ricognitori su Nagasaki e Kokura avvertono che la loro visibilità è insufficiente. Questo significa una sola cosa: il bombardamento avverrà solo su Hiroshima.
Tibbets e il suo equipaggio captano il messaggio di conferma della possibilità procedere alle 7,20. Eatherly ha lanciato quel messaggio radio qualche minuto prima. Si è accertato, sorvolando due volte Hiroshima, della fattibilità della missione. Ne è certo.

Hiroshima. La vittima. Eccola, finalmente. E’una grande città, una piccola metropoli. In quel 6 agosto 1945 ci sono circa trecentocinquantamila persone, ma gli abitanti effettivi sono quasi 500.000. Moltissimi però sono stati richiamati alle armi e molti l’hanno abbandonata per spostarsi in luoghi più sicuri, nelle campagne.
Le case sono fatte di legno e carta di riso, come quasi tutte quelle del Giappone di quel periodo. Poche sono costruite in mattoni e calce. Pochissime in cemento armato. Ci sono delle industrie, alcune di armi pesanti. Nessuno, probabilmente, è consapevole che quell’allarme mattutino potrebbe essere foriero di distruzione. Il popolo giapponese è coraggioso, paziente, laborioso, umile e con una fiducia smisurata nel suo imperatore. Non ha mai conosciuto la sconfitta, lo ribadiamo perché è importante. Che poi pensino di vincere contro gli yankee, questo non è vero. Probabilmente la maggior parte della popolazione senziente sa che prima o poi vinceranno loro. Ma, appunto, prima o poi. Non quel 6 agosto 1945.

Alle 7,52 Tibbets prende in mano il microfono e sillaba: “Comandante a equipaggio. Da questo momento il sergente Beser azionerà un registratore e tutto quello che direte passerà alla storia. Perciò moderate il vostro linguaggio. Andiamo all’attacco. Stiamo per lanciare la bomba atomica”. Poi, rivolto al suo secondo, Lewis: “Ora, qualunque cosa accada, dobbiamo farcela”!
Alle 8.09 Enola Gay penetra nello squarcio di cielo sovrastante Hiroshima. Tutti guardano in giù la vittima inconsapevole della sua prossima morte. E’una mattina bella, il sole getta i suoi ultimi raggi sul creato e l’aria comincia a scaldarsi. Non è una bella mattina per morire.
Tibbets grida all’equipaggio: “Ragazzi, è quasi l’ora. Mettevi gli occhiali di protezione sulla fronte e state pronti a portarli agli occhi non appena vi darò il segnale. Poi, fino a mezzo minuto dallo scoppio, tenetevi bene saldi ad un punto di appoggio e non staccatevene per nessuna ragione. L’onda d’urto sarà fortissima. In bocca al lupo, ragazzi”!
Tutti estraggono i loro occhiali protettivi color verde lucertola. Sono la sola salvezza contro la cecità nucleare. A cento chilometri da Alamogordo, quando esplose una delle prime bombe sperimentali, una ragazza cieca dalla nascita esclamò: “Ho visto la luce! Ho visto la luce”!
Ore 8,11. Tibbets fa compiere a Enola Gay una virata di 90 gradi da est verso ovest. E’l’ultima virata, poi il bombardiere si porta rabbiosamente sulla rotta di attacco, perché il bersaglio è dritto a prua. Non ci saranno più diversioni. L’obiettivo e basta. L’aereo che trasporta l’arma più terribile della Storia (sino a quel momento) passa in pochi secondi da 470 km/h a 528 km/h e arriva a quota 9630 metri.
Tibbets ordina “Occhiali” e tutti sentono un brivido freddo correre lungo le vene. Forse a qualcuno, in quell’attimo, viene in mente che quella bomba sarà diversa dalle altre. Forse qualcuno, in quell’attimo, si pente di essere lì su quell’aereo. Forse qualcuno, in quell’attimo, vorrebbe tornare indietro.
Il grande ponte del fiume Ota, che corrisponde quasi esattamente al centro della città di Hiroshima e che per questo motivo è stato scelto come punto di mira, appare nel mirino. Si aprono i portelloni. Sotto si apre la terra pronta ad accogliere l’atomica e la nuova era nucleare. Anche se in realtà la terra non è pronta.

Ore otto, quindici minuti, diciassette secondi. Little Boy, la bomba atomica, comincia il suo viaggio di morte verso la povera vittima sacrificale e tutti gli umani che contiene entro i suoi confini. Trascinata in avanti dalla forza di inerzia, la bomba sembra dapprima voler seguire l’aereo-madre, ma presto assume un aspetto diverso: la punta tende verso il basso, la coda pinnata si solleva e la forza di gravità ha ragione della spinta inerziale.
Sgravata dalle quattro tonnellate e mezzo del suo carico, Enola Gay compie un balzo repentino verso l’alto. Tibbets al comando fa uno sforzo sovrumano per tenere la rotta. Gli uomini aggrappati a tutto ciò che trovano sono atterriti, ma anche consapevoli che stanno vivendo dei momenti unici nelle loro vite. Qualcosa dice loro che sta per accadere un fatto storico.

Capitoli

Capitolo Primo

Un avvenimento come lo scoppio della bomba atomica a Hiroshima non può essere certamente analizzato solo con i freddi numeri. Leggi tutto »


Capitolo Secondo

Il 12 aprile 1945 muore Franklin Delano Roosvelt, 32° presidente degli Stati Uniti d’America. La Seconda Guerra Mondiale è ormai al crepuscolo. Leggi tutto »


Capitolo Terzo

Harry Truman, l’uomo che passò alla Storia perché prese la “tragica decisione” era nato l’8 maggio del 1884 da una famiglia contadina di origini irlandesi e olandesi. Un uomo duro, ostinato, a tratti cinico. Leggi tutto »


Capitolo Quarto

All’una e 37 di Tinian – le 0,37 del Giappone – si alzano in volo i tre aerei ricognitori. Dopo un’ora stacca le ruote dalla pista Enola Gay. La missione Dimples comincia. Leggi tutto »


Capitolo Quinto

Su Enola Gay si attende con frenesia e impazienza lo scoppio della bomba. Il tenente Jeppson, addetto ai controlli elettronici di Little Boy, esclama: “Ma perché non scoppia”? Leggi tutto »


Capitolo Sesto

Un quarto d’ora dopo il terribile scoppio Keisuke Hiroki, comandante della base navale di Kure, a una ventina di chilometri da Hiroshima, telefona a Tokyo, al quartier generale: “Alle 8,16 abbiamo osservato un lampo di incredibile luminosità su Hiroshima, e subito dopo una altissima colonna di fumo con in cima un largo pennacchio. Leggi tutto »


Capitolo Settimo

Ci vorrà un’altra bomba, un’altra immane tragedia, per costringere i Giapponesi ad accettare la resa. La mannaia americana cala ancora alle 11,01 del 9 agosto del 1945, stavolta sulla città di Nagasaki. Leggi tutto »


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