Amico mio, - Fu per rispetto della tua opinione, rinforzata dalla mia predisposizione, e dai ripetuti consigli di altri amici, che mi risolsi ad intraprendere
il mio viaggio per l’Italia. Posso chiaramente percepire dall’ansioso zelo e dalle pressanti esortazioni contenute nelle lettere che avevo ricevuto dai miei corrispondenti in Gran Bretagna, che tutti voi disperavate della mia guarigione. Mi avevate raccomandato un pellegrinaggio tra le Alpi, ed il consiglio era ottimo. Scalando quelle montagne avrei beneficiato dell’esercizio fisico, ed al contempo avrei respirato aria pura, salubre, la quale, con tutta probabilità, avrebbe eliminato la febbre che continuava ad attanagliarmi a causa del calore del clima. Tuttavia, volevo un compagno di viaggio, la cui conversazione e compagnia avrebbero alleviato gli orrori della solitudine. Inoltre, non ero abbastanza forte per affrontare la mancanza di comodità, o addirittura di beni primari a cui sarei senz’altro stato esposto nel corso di una tale spedizione. Il mio buon amico Dr. A. - mi ha pregato assiduamente di provare il viaggio via mare, che tu sai essere davvero d’un efficacia prodigiosa in casi di tisi.
Dopo alcune considerazioni, aderii al suo programma, che ora ho felicemente portato a termine. Avevo un’impaziente curiosità di vedere le antichità di Firenze e Roma: ero smanioso di ammirare quei mirabili edifici, quelle statue, quegli scorci, che così spesso avevo venerato solo nei dipinti e nelle descrizioni. Sentivo un ardore entusiastico di camminare su quel terreno classico che è stato palcoscenico di così grandiose imprese; non avrei sopportato di tornare in Inghilterra, dopo esser stato così vicino all’Italia, senza aver visitato la capitale di quella celeberrima nazione. Per la cura della mia salute, avrei potuto gestire i miei affari godendomi tutti i benefici del viaggio via mare, e del viaggio via terra,
insieme naturalmente ad un cambio climatico.
Roma dista dalle quattro alle cinquecento miglia da Nizza, ed almeno metà del tragitto m’ero deciso a percorrerlo via mare. E davvero non v’è altro modo di arrivare a Genova, se non a dorso di mulo, scalando le montagne alla velocità di due miglia all’ora, con il rischio di romperti il collo ogni singolo minuto. Le montagne dell’Appennino, che sono una continuazione delle Alpi marittime, formano una quasi ininterrotta parete scoscesa da Villefranche a Lerici, lontana quasi quarantacinque miglia rispetto all’altro lato di Genova;
e siccome questi lati sono sempre bagnati dal mare, non vi sono spiagge o lidi, e di conseguenza la strada si dipana tra le rocce, salvo in pochi punti, occupati da cittadine o da villaggi. Ma, dal momento che le strade per i muli o per i viaggiatori a piedi ci sono, queste saranno di certo allargate o migliorate per renderle praticabili da carrozze o da altri mezzi di trasporto, e un dazio in questo caso potrà essere preteso, che in breve tempo farebbe rientrare della spesa: poiché sicuramente nessuno che arriva in Italia, da Inghilterra, Olanda, Francia o Spagna, intraprenderebbe mai un difficile circuito per passar le Alpi dalla Savoia e dal Piemonte, quando potrà usufruire della convenienza di prendere la via di Aix, Antibes e Nizza, lungo le sponde del Mediterraneo, attraverso la Riviera di Genova, che invero dal mare offre il più gradevole e favoloso panorama che abbia mai veduto. E’un peccato che non possano ripristinare la famosa Via Aurelia, menzionata nell’Itinerarium di Antonino, che si estende da Roma, attraversa questa regione ed arriva sino ad Arles sopra il Rodano. Si dice che sia stata realizzata dall’imperatore Marco Aurelio; e alcune vestigia possono ancora essere osservate in Provenza. La verità è che i nobili di Genova, tutti mercanti, con la loro infima, egoista e assurda politica, usano tutti i metodi per tenere i loro sudditi della Riviera in povertà e in loro dipendenza. Seguendo questa tesi, essi evitano come la peste tutte le innovazioni che potrebbero rendere la zona accessibile via terra; nel contempo scoraggiano anche il commercio via mare, per paura che questo possa interferire con la mercatura della loro capitale, dove hanno i loro interessi.
Coloro che non possono viaggiare via mare e sono anche riluttanti a cavalcare a dorso di mulo, si possono accomodare su semplici sedie provviste di pedana, e trasportati sulle schiene di uomini addetti a tale servizio: questo è il metodo delle signore di Nizza, quando si recano a Torino via montagna; ma è noioso e costoso, visto che gli uomini devono essere sostituiti spesso. Il più amabile mezzo di trasporto da qui a Genova è la feluca, o barca aperta, con un equipaggio di dieci o dodici robusti marinai. Sebbene nessuna di queste imbarcazioni appartenga a Nizza, se ne possono trovare molte ogni giorno nel nostro porto, in attesa di partire per Genova; se ne vedono passare e ripassare di continuo, piene di merci o di passeggeri, fra Marsiglia, Antibes, e i territori di Genova. Una feluca è larga abbastanza per accogliere una diligenza; c’è un telone sulle vele di poppa, sotto il quale i turisti si siedono per proteggersi dalla pioggia: tra i sedili troviamo anche un comodo materasso, spesso fornito dal capitano. Ogni uomo in buona salute vi può trovare tutto ciò di cui abbisogna; tuttavia avviso i malaticci di provvedere per conto loro a sedia, materasso e biancheria, altrimenti passeranno un bel po’ di tempo scomodi.
Se siete un semplice passeggero in una feluca, pagherete un luigi d’oro, e dovrete stare agli ordini del capitano, il quale, mentre sarete in mare, terrà la sua rotta sia di notte sia di giorno, e vi esporrà a parecchi inconvenienti: ma per otto zecchini, o quattro luigi d’oro, noleggerete un’intera feluca solo per voi, da Nizza a Genova, e il comandante sarà obbligato ad effettuare una sosta a riva ogni sera. Se poi vorrete altro equipaggio ai vostri ordini, lo potrete affittar a giornate, ed in questo caso ammarare quando volete, e rimanere sulla costa quanto volete. E’questo il metodo che consiglio, poiché il costo è abbastanza ridotto, e il tragitto decisamente più confortevole.
La distanza tra questo luogo e Genova, misurato sulla carta, non eccede le novanta miglia: ma i marinai delle feluche insistono nel sostenere che sia centoventi. Nel caso in cui questi striscino tra gli anfratti di tutte le baie, questo computo potrebbe essere realistico: ma, eccetto quando il mare è in tempesta, essi vanno diretti da un capo all’altro, e perfino quando il vento è contrario, o con poco vento, compiono la traversata in due giorni e mezzo, mentre quando il vento è favorevole, percorrono il tragitto facilmente in ventiquattro ore.
Un uomo che non ha altro in mente se non la sua impresa, può andare con un corriere, fornito sempre di una barca più leggera, e ben disposto ad accogliere un viaggiatore in ragione di una ragionevole gratificazione. Conosco un gentiluomo Inglese che viaggia sempre con un corriere in Italia, via mare e via terra. Alle stazioni di posta, è sempre sicuro di trovare un buon calesse, e i migliori cavalli a disposizione; e siccome la spesa di entrambi (calesse e cavalli) è a carico dello stato, non ha altro costo se non un regalo per il compagno, così spendendo un quarto di quello che avrebbe dovuto sborsare viaggiando da solo. L’Italia offre molte opportunità di questo tipo.
Per quanto mi riguarda, ho affittato una gondola per Genova. Si tratta di una imbarcazione più piccola della feluca, con un equipaggio di quattro rematori, guidata da un capitano; il prezzo ammontava a nove zecchini, poco più di quanto avrei pagato una feluca di dieci vogatori. Mi assicurarono che essendo molto leggera, ci avremmo messo meno; ed il capo equipaggio mi fu particolarmente raccomandato, come uomo onesto e abile marinaio. Fui accompagnato da mia moglie, da Miss C. e Mr. R., un nativo di Nizza, che avevo coinvolto nel viaggio, con la speranza che egli fosse ben addentro agli usi della nazione e dei diversi modi di spostarsi al suo interno, evitandoci così problemi ed eccessive spese: tuttavia non ne ero felice. A Nizza alcune persone scommettevano che egli sarebbe tornato da solo dall’Italia; e di questo non ne sarebbero state felici.
Ci imbarcammo all’inizio di Settembre, accompagnati da un solo servo. I calori, che rendono pericoloso viaggiare in Italia, cominciano a smorzarsi in questa stagione. Il clima era estremamente favorevole; se avessi posticipato il mio viaggio ancora un poco, non sarei di certo riuscito a ritornare prima dell’inverno: in questo caso avrei trovato un mare davvero brutto ed un clima troppo rigido per un viaggio di centotrentacinque miglia su una imbarcazione aperta.
Essendomi attrezzato di un lasciapassare, firmato e sigillato dal nostro console, insieme alle sue lettere di raccomandazione dirette ai consoli di Genova e di Livorno, precauzione che consiglio a tutti i viaggiatori, nel caso s’incontrino imprevisti lungo la strada, salimmo
sulla barca verso le dieci di mattina, ci fermammo circa un’ora presso la residenza di un amico nella baia di St. Hospice, e a mezzodì entrammo nel porto di Monaco, dove il capitano era obbligato a pagare dazio, in accordo con il regolamento che ho spiegato in una delle mie precedenti lettere. Questa cittadina, dove abitano circa otto o novecento anime, oltre alla guarnigione, sorge su una rocca che si proietta a picco sul mare, con un panorama davvero invidiabile.
Il palazzo del principe si eleva nella parte più ben in vista, a cui si arriva da un vialetto. Gli alloggi sono arredati con eleganza e forniti di bei dipinti. Le fortificazioni sono in buono stato ed il luogo è presidiato da due battaglioni Francesi. L’attuale principe è un Francese, figlio del duca di Matignon, e aveva sposato l’ereditiera di Monaco, una Grimaldi. Il porto è ben riparato dal vento ma non abbastanza profondo per permettere l’ingresso di vascelli di grossa stazza. A nord, i territori del Re di Sardegna si estendono entro un miglio dalle porte; il principe di Monaco può spingersi lungo la costa per circa cinque o sei miglia verso est, sino a Mentone, un'altra cittadina, che gli appartiene, ed è situata sulla riva del mare. Si calcola che le sue entrate ammontino ad un milione di livree Francesi, equivalenti a poco più di quarantacinquemila sterline: ma la municipalità di Monaco, formata da tre piccole cittadine e da un irrilevante tratto di rocce infruttifere, non rende neppure settemila sterline l’anno; il resto proviene dai patrimoni fondiari situati in Francia. Cioè dal ducato di Matignon e dal ducato di Valentinois, donati agli antenati dell’attuale principe di Monaco nell’anno 1640 dal re Francese per compensare la perdita di alcune Terre del regno di Napoli che erano state confiscate quando egli scacciò la guarnigione Spagnola da Monaco, e si buttò tra le braccia della Francia: così é diventato duca di Valentinois e duca di Matignon. Il principe vive quasi sempre in Francia, ed ha preso il nome e gli stemmi dei Grimaldi.
Il territorio Genovese comincia a Ventimiglia, un’altra città che sorge sulla costa a venti miglia di distanza da Nizza, e da questo fatto prende il nome. Dopo aver passato le città di Monaco, Mentone, Ventimiglia e molte altri luoghi di minor importanza che si trovano sulla costa, arrivammo al promontorio di San Martino con il vento favorevole, ed avremmo potuto procedere per altre venti miglia prima di sera: invece le donne cominciarono ad essere stanche e impaurite dall’inclemenza del mare; Mr. R - che era così turbato che chiese di essere lasciato a San Remo, con la scusa che non avremmo trovato una locanda accettabile in altro luogo tra quest’ultimo e Noli, lontano quaranta miglia. Così sbarcammo e ci recammo al fermo posta, che il nostro gondoliere ci assicurò esser il miglior albergo dell’intera Riviera di Genova.
Completamente al buio salimmo una scala stretta e ripida, ed entrammo in una specie di stanzone, con un lungo tavolo e delle panche, così sudice e miserevoli, che avrebbero disonorato la peggiore birreria d’Inghilterra. Neppure un’anima ci apparve a riceverci. Questa è un’usanza da non aspettarsi in Francia; ancor meno in Italia. Il capitano andò in cucina e chiese se potevamo alloggiare nella casa; uno gli replicò che “non poteva rispondere: il padrone non c’era”. Quando chiese dove fosse il padrone, questi ribatté, “è andato a prendere una boccata d’aria”. E’andato a passeggiare.
Nel frattempo, fummo costretti a metterci seduti in quello stanzone tra barcaioli e mulattieri. Alla fine il locandiere arrivò e ci fece credere che ci avrebbe fatto accomodare nelle camere. Dove stavo io, c’era posto solo per due letti, senza tendine o lettiere, un vecchio tavolo marcio coperto da fichi secchi, ed una coppia di sedie traballanti. Le pareti un tempo furono lavate: ma ora erano piene di ragnatele, e chiazzate di lordura d’ogni tipo; e credo che il pavimento di mattoni non fosse pulito da mezzo secolo. Cenammo in un locale esterno del tutto adeguato al resto dell’edificio, e mangiammo in modo indegno. Le cibarie erano sciatte e servite nella maniera più trasandata possibile. Non aspettatevi pulizia o comodità di alcun tipo in questa nazione. Per questa sistemazione pagai la stessa somma che avrei pagato se avessi alloggiato nel miglior albergo di Francia o d’Italia.
Il giorno successivo, il vento era così forte che non potemmo proseguire il nostro viaggio, cosicchè fummo obbligati a passare altre ventiquattr’ore in questa comoda condizione. Fortunatamente Mr. R – incontrò due conoscenti in questo luogo: un Francescano, uomo gioviale; ed un maestro di capella, che aveva spedito un cembalo alla locanda, che ci intrattenne con la sua voce e la sua musica, arti nelle quali eccelleva. Il padre era di buon umore, così ci favorì una lettera di raccomandazione da dare ad un suo amico, professore
all’università di Pisa. Avreste riso nel sentire le iperboliche parole con cui descriveva il tuo umile servo: l’Italia è la patria dell’iperbole.
San Remo è una cittadina abbastanza notevole, ben costruita sul pendio di una ridente collina, e il suo porto è in grado di accogliere piccoli vascelli, un buon numero dei quali era realizzato sulla spiaggia: invece le navi di ogni stazza erano costrette a gettare l’ancora nella baia, tutt’altro che sicura. San Remo è una piccola repubblica, soggetta a Genova.
La popolazione godette di particolari privilegi sino all’anno 1753, quando dopo l’approvazione di una nuova gabella sul sale, si ribellò: questo afflato di libertà non ebbe successo. Furono presto soggiogati dai Genovesi che li privarono di tutti i privilegi, e costruirono un forte sul mare, che assolve la doppia funzione di difendere il porto ed intimidire la città. La guarnigione attualmente non supera i duecento uomini. Si dice che gli abitanti abbiano ultimamente mandato una delegazione a Ratisbona per implorare la
protezione della dieta dell’impero. Nelle vicinanze si trova una pianura poco estesa, ma le colline sono coperte di aranceti, limoni, melograni, ed olivi, che garantiscono un notevole commercio di ottima frutta ed eccellente olio.
Le donne di San Remo sono molto più belle e con un carattere migliore di quelle della Provenza. Generalmente hanno begli occhi, dall’espressione ingenua. I loro abiti, davvero notevoli, non li saprei descrivere: mi fanno ricordano alcuni dipinti che rappresentavano le donne di Georgia e Mingrelia.
Il terzo giorno, diminuita la pioggia, sebbene il tempo ancora sfavorevole, ci reimbarcammo e navigammo lungo la costa, passando davanti a Porto Maurizio e Oneglia; poi superammo il promontorio chiamato Capo di Mele, procedemmo per Albenga, Finale e molti altri luoghi di importanza secondaria.
Porto Maurizio è ubicato su una rocca bagnata dal mare, non fortificata, con un porto senza importanza, dove nessuna imbarcazione è in grado di entrare, a parte piccoli velieri. Due miglia verso est comincia Oneglia, cittadina fortificata, estesa sulla spiaggia, appartenente al re di Sardegna. Questo stretto territorio abbonda di piante d’olivo, che producono una considerevole quantità di olio, considerato il migliore dell’intera Riviera. Albenga è una piccola città, sede di un vescovato, suffraganeo dell’arcivescovo di Genova. Si estende sul mare, e vi si produce una gran quantità di canapa. Finale è la capitale di un marchesato appartenente ai Genovesi, e fonte di moltissimi problemi per la repubblica; difatti è stata l’unica causa della frattura col re di Sardegna e la casa d’Austria nell’anno 1745. La città è abbastanza ben costruita; ma il porto è basso, aperto e poco sicuro; ciononostante, i Finalesi hanno fabbricato un buon numero di tartans e altri vascelli sulla spiaggia ed il territorio abbonda di olio e frutta, in particolare delle mele davvero eccellenti chiamate pomi carli, già menzionate in precedenza.
Alla sera raggiungemmo il Capo di Noli, reputato molto pericoloso in caso di tempo avverso. Consta di una roccia perpendicolare gettata nel mare, sbocconcellata in diversi punti, così da formare un dedalo di grotte. Si estende per un paio di miglia, ed in alcune parti forma piccole insenature o baie, dove si sviluppa uno stretto lembo di spiaggia sabbiosa tra la terraferma e il mare. Quando si alza il vento, nessuna feluca si avventura tra queste insenature; anche in caso di brezza moderata, le onde che si infrangono sulle rocce e nelle cave, echeggiando i suoni, rimandano un rumore terribile e allo stesso tempo danno origine ad un mare così violento da causare un grande timore.
Da questo lato del Capo c’è un arenile bellissimo coltivato come un giardino; le piantagioni si allungano sulle sommità delle colline, intervallate da villaggi, castelli, chiese e ville. E in effetti l’intera Riviera è decorata alla stessa maniera, eccetto nei luoghi che non consentono costruzioni o coltivazioni.
Dopo aver oltrepassato il Capo, seguimmo le sinuosità della costa, ed arrivammo in una piccola baia, nella città di Noli, dove ci proponemmo di trascorrere la notte. Sarai sorpreso nel sapere che non andammo a riva presto per prendere qualche rinfresco; la verità è che avevamo a disposizione prosciutto, lingue, polli arrostiti, formaggio, pane, vino e frutta sulla feluca, dove ogni giorno consumavamo un leggero pasto verso l’una o le due del pomeriggio. Riporto questo come necessaria informazione per coloro che sono interessati ad effettuare lo stesso tragitto. Parimenti trovammo conveniente dotarci di acquavite, o brandy, da dividersi anche con i canottieri.
Nei giorni di magra, comunque, questi straccioni preferiscono morire di fame piuttosto che permettersi un solo boccone di carne. Spesso ho tentato questo esperimento, di spingerli a mangiare qualcosa di grasso, il Venerdì o il Sabato; ma tutti hanno sempre rifiutato con segni di ripugnanza e gridando, Dio me ne liberi! Dio me ne scampi! O con altre parole dello stesso tenore. Per di più notai che nessuno di questi lanciava mai un’imprecazione o una parola indecente. Non si mettevano mai in mare, prima di aver ascoltato messa; e quando il vento era sfavorevole, intonavano sempre un inno alla Vergine Maria, o a Sant’Elmo, tenendo il tempo con i remi mentre cantavano. Ho osservato questa pratica in tutta la nazione: se un uomo trasgredisce alle istituzioni della chiesa anche in tali affari di lieve importanza, è reputato molto più infame di colui che ha commesso i più efferati crimini contro natura o contro la morale. Un omicida, un adultero, ottengono facilmente l’assoluzione, e ritrovano anche il favore della comunità; ma un uomo che mangia un colombo di Sabato, senza espressa licenza, viene evitato ed aborrito come un mostro. Ho discusso con molte persone intelligenti sull’ argomento: e ho ragione di credere che un delinquente di questo tipo sia visto come un cattivo cattolico, di poco migliore di un eretico: e l’eresia è considerata il crimine peggiore.
Noli è una piccola repubblica di pescatori soggetta a Genova, eppure tenacemente legata ai propri privilegi. La città si sviluppa sulla spiaggia, è abbastanza ben edificata, difesa da un castello situato su una roccia; il porto è di secondaria importanza. L’albergo era tale da farci rimpiangere quello di San Remo. Dopo una zuppa molto strana, che non aspiro a descrivere, ci ritirammo nelle nostre stanze: non erano passati neanche cinque minuti, quando sentii qualcosa camminare su diverse parti del corpo, presi una lampada per guardare, e notai una dozzina di insetti. Saprai certamente che ho la stessa antipatia per questi animaletti molesti, di quella che hanno alcune persone per i gatti o per i vitelli. Mi alzai di scatto, mi infagottai in una mantella e, stanco com’ero, mi spostai nell’ altra stanza ove mi misi a dormire su una sedia fino al mattino.
Si potrebbe immaginare che in una regione montagnosa come questa ci sia pieno di capre; e in verità vedemmo molti greggi pascolare tra le rocce, eppure non riuscimmo a procurarci mezza pinta di latte per il nostro tè, neanche a pagarlo oro. Qui le persone non hanno idea di come usare il latte, e quando rivolgi loro delle domande al riguardo, rimangono a bocca aperta con una faccia da stupidi invero irritante. E’stupefacente che l’istinto non insegni ai contadini a nutrire i loro figli con latte di capra, molto più nutriente e gradevole rispetto a quel misero cibo con cui sopravvivono.
Il giorno dopo navigammo verso Vado e Savona, una grande città, dotata di una robusta cittadella e di un porto, anticamente in grado di accogliere importanti imbarcazioni: sino a quando i Genovesi non l’hanno in parte soffocato, con la scusa che in tal modo non sarebbe stato in grado di accogliere le navi di altri stati nemici della repubblica.
Passammo Albisola, Sestri di Ponente, Novi, Voltri ed un gran numero di villaggi, ville e magnifici palazzi appartenenti ai nobili Genovesi, che formano una catena quasi ininterrotta di edifici lungo l’arenile per trenta miglia.
Verso le cinque del pomeriggio costeggiammo le deliziose periferie di San Pietro d’Arena ed arrivammo a Genova, che dal mare appare davvero splendida, innalzandosi come un anfiteatro di forma circolare dai lembi del mare e dalle catene di montagne, circondata dalla parte della terraferma da un doppio muro, il più esterno dei quali si dice che si estenda per cinquanta miglia. Il primo oggetto che colpisce lo sguardo a grande distanza è l’elegante faro, costruito sulla sporgenza di una roccia dalla parte occidentale del porto, così alto che, nei giorni più tersi, può essere visto ad una distanza di trenta miglia. Circumnavigando il faro, vi troverete vicinissimi al molo, che costituisce il porto di Genova. Quest’ultimo si allunga da un lato all’altro del golfo, così da formare due magnifici pontili. Su entrambe le estremità sorge una piccola lanterna. Questi moli sono provvisti di cannoni di ottone, ed in mezzo ad essi si trova l’entrata del porto. Nonostante queste delimitazioni, quest’ultimo è così ampio da poter ospitare un mare interno che, quando il vento soffia forte da sud e da sud-est, è molto difficile da navigare.
All’interno del molo c’è un porto più piccolo chiamato Darsena, riservato alle galee della repubblica. Noi passammo tra moltissime imbarcazioni e vascelli ancorati, attraccammo alla banchina e ci accomodammo in una locanda chiamata La Croix de Malthe nelle vicinanze del porto. Qui fummo accolti molto bene, come ci saremmo aspettati in altre parti d’Italia, e questo contribuì, insieme ad altri motivi, a trattenerci per qualche giorno in città. Ma ti ho tediato così a lungo, da credere che tu desideri che non prosegua oltre; e perciò per adesso ti saluto, molto sinceramente – Tuo.
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