Eugenio di Savoia
Questi condottieri, o capitani di ventura, offrivano il loro servizio a chi li pagava meglio e di più. Potevano contare su uomini fedelissimi solo a loro e avevano un ascendente fortissimo su sovrani, principi e nobili.
L’ultimo di questi grandi uomini fu Eugenio di Savoia, e di italiano non aveva granché. Era nato a Parigi, il 18 ottobre del 1663, quinto di cinque maschi. Il padre, Eugenio Maurizio di Savoia-Soissons, apparteneva al ramo cadetto dei Savoia-Carignano, una dinastia che da quel secolo farà poi parlare parecchio di sé soprattutto nella nostra penisola. La madre, invece, era italianissima, abruzzese e nipote del cardinale Mazzarino, una delle eminenze grigie dei sovrani francesi.
Eugenio vide la luce nel suo splendido castello ma non ebbe mai un’infanzia felice. Il padre morì quando aveva dieci anni, pieno di corna: opera della moglie, Olimpia Mancini, che lo tradiva con tutti compreso il re Luigi XIV. Ad occuparsi dei figli c’era la nonna, Maria di Borbone, che fece il possibile ma non fu abbastanza. Eugenio, in particolare, era particolarmente “fuori controllo”. Aveva conosciuto una compagnia di nobili sbandati di cui faceva parte anche l’abate di Choisy e si era avviato sulla via del libertinaggio con netta preferenza per gli uomini. L’omosessualità non era un problema alla corte di Francia: lo diventava se era palese e manifesta, come quella, appunto, del giovane Eugenio. Il quale, comunque, eccelleva negli studi: preferiva Racine e La Rochefoucauld.
Dopo alcuni anni da scavezzacollo mise la testa a posto e chiese di essere ammesso nell’esercito di Luigi XIV, il quale naturalmente rifiutò perché lo vedeva come il fumo negli occhi. Eugenio, per tutta risposta, lasciò la Francia e decise di porre la sua giovane spada al servizio di qualcun altro.
Di chi, non aveva idea. Poteva essere la Gran Bretagna, la Spagna, le Province Unite, il Portogallo: chiunque, ma non la Francia. Ecco allora che giunse a Vienna semplicemente perché lì la sua candidatura venne accettata. Di italiano, oltre che una parte del sangue, aveva anche la mancanza di una “patria”. Scelse l’Austria perché il soldo era buono e le opportunità di carriera risultavano appetitose.
Aveva voglia di combattere, e l’occasione gli si presentò subito. Nel 1683 i Turchi assediavano Vienna: l’imperatore era stato obbligato a fuggire via, a Passau. Eugenio, che aveva vent’anni e non aveva mai indossato una divisa militare né aveva mai calpestato un campo di battaglia, fece il suo esordio sotto il comando del cugino Luigi del Baden. L’assedio durò sessanta giorni e fu durissimo, ma gli imperiali austriaci ebbero la meglio. Il ruolo svolto dal giovane Savoia fu notevole nonostante la mancanza d’esperienza e la modestia dei suoi galloni. Venne quindi immediatamente innalzato a colonnello e premiato con due dobloni d’oro. Caratteristica peculiare: si sapeva far ascoltare dai suoi uomini. Non era poco, per uno di vent’anni.
La partita contro i Turchi, però, era solo all’inizio. L’anno seguente le truppe del sultano continuavano a dilagare ai confini con l’impero austriaco, ed Eugenio ebbe di nuovo occasione di mettersi in mostra. Guidava lui gli attacchi e i soldati lo seguivano: proprio come un condottiero dell’età rinascimentale, un vero capitano di ventura italiano.
Luigi di Baden lo presentò così all’imperatore d’Austria: “Maestà, questo giovane savoiardo emulerà tutti coloro che il mondo giudica grandi capitani”. Non che avesse bisogno di farsi “raccomandare”, ma la spintarella del cugino fu preziosa per un ulteriore balzo di grado, stavolta a maggiore-generale.
Lui, Eugenio, detestava i cerimoniali e i galloni. Personalmente, avrebbe vissuto su un campo di battaglia insieme ai suoi soldati. Nell’animo era un condottiero fatto e finito. La guerra era il suo unico svago.
Il 2 settembre del 1686, gli Austriaci espugnarono Buda (una parte della Budapest odierna). Eugenio era lì, in prima linea, venne ferito due volte e scampò alla morte per miracolo dopo esser stato disarcionato e quasi ucciso da un proiettile vagante. Alla fine della battaglia partì per Venezia per concedersi un riposo meritato.
In laguna vi capitò nel periodo di carnevale, che all’epoca era molto relativo soprattutto a quelle latitudini: ogni occasione, a Venezia, era buona per fare festa. Lui, schivo e riservato, si chiuse a visitare gli arsenali e non partecipò ad alcuna festa, ballo o orgia. Le veneziane, che non aspettavano altro, lo definirono “Marte senza Venere”.
A Venezia resistette poco. Ritornato in battaglia, nel 1687 portò alla vittoria i suoi a Mohacs, in uno scontro decisivo contro i Turchi. L’imperatore Leopoldo gli donò un ritratto in miniatura tempestato di diamanti e lo promosse a luogotenente generale. L’eco di quel successo lo portò alla ribalta internazionale. Il sovrano di Spagna lo nominò cavaliere dell’ordine del Toson d’Oro. Il cugino Vittorio Amedeo di Savoia gli fece assegnare dal papa le rendite di due abbazie in Piemonte, che a quanto pare erano dei gran begli investimenti.
La situazione europea volgeva però al brutto. Luigi XIV, desideroso di vittorie, affermava con insolenza il rango di primo sovrano europeo: privilegio che nessun “collega” era disposto a riconoscergli pacificamente. Approfittando di una disputa riguardante l’Elettorato di Colonia, quindi, il re dei Francesi spedì un esercito al di là del Reno che devastò città e villaggi tedeschi. Era una sfida all’Austria: proprio al momento giusto. I Turchi, infatti, dopo le numerose batoste, si leccavano le ferite a Istanbul. Eugenio consigliò all’imperatore di fare pace con loro e dedicarsi a Luigi.
Il Re Sole aveva previsto la pace austro-turca e si era già gettato sull’Italia settentrionale per prendere le grandi città metropolitane. Eugenio, mandato in quell’inferno, fece il possibile. L’Austria aveva un esercito molto meno numeroso e soprattutto contava su ufficiali pusillanimi e di modestissima caratura. In più questi vedevano nel Savoia una specie di traditore.
Eugenio, alle prime batoste, capì l’antifona e si rivolse direttamente a Leopoldo spiattellandogli la situazione insostenibile cui doveva far fronte. L’imperatore, che considerava il Savoia l’unico suo grande generale (con ragione) lo promosse a feld-maresciallo e poi comandante supremo in Italia. Nonostante i suoi sforzi, per Vienna fu necessario stipulare una pace piuttosto umiliante con Parigi: a est, infatti, i Turchi del nuovo sultano Mustafà II attaccavano ancora.
Eugenio, consapevole dell’inferiorità numerica del suo esercito, puntava sulla tattica. Spregiudicata, rischiosissima, quasi da pazzi, ma efficace. A Zenta i Turchi vennero battuti in una battaglia campale dove lasciarono trentamila morti e abbandonarono carri, cavalli, munizioni e oro. Anche il Gran Sigillo, simbolo dell’autorità di Mustafà, cadde nelle mani degli Austriaci. Per premiarlo della sua condotta di guerra maestosamente proficua, Leopoldo regalò al Savoia una spada intarsiata di gioielli e una proprietà in Ungheria.
Il 26 gennaio del 1699, a Carlowitz, Austriaci e Turchi firmarono la pace e per qualche tempo Eugenio potè dedicarsi a un nuovo hobby: l’architettura.
Aveva ottimo gusto scenico e sapeva scegliere gli artisti giusti. Però, come in battaglia, l’ultima parola in fatto di decorazioni era sua. Non amava farsi ritrarre, e aveva le sue ragioni. Basso, faccia scarna e affilata come quella della madre, naso sgraziato, denti da coniglio, viso segnato dal vaiolo: non era proprio l’ideale per i pittori di corte. E infatti li rifiutava sdegnosamente. Per fortuna sua, sapeva combattere divinamente.
L’occasione per dimostrarlo ancora gli arrivò presto.
A scatenare uno dei più cruenti e lunghi conflitti del Settecento fu la mancanza di eredi di Carlo II di Spagna. Prima di morire aveva nominato successore Giuseppe Ferdinando di Baviera, l’elettore più debole: in lizza c’erano, infatti, Carlo d’Austria e Filippo d’Angiò, pretendente francese. In realtà la scelta era stata fatta per bilanciare i poteri. Se sul trono spagnolo fosse salito Filippo, l’Austria avrebbe dichiarato guerra alla Francia; e viceversa.
Purtroppo per la pace internazionale, Giuseppe Ferdinando ebbe vita breve. Mentre stava per tirare le cuoia, il povero sovrano effimero ebbe l’idea di nominare successore Filippo d’Angiò, il francese. Naturalmente Vienna non riconobbe la nomina e la guerra cominciò.
I primi scontri avvennero in Italia settentrionale, laddove i Francesi erano alleati ai Savoiardi. Potevano contare su 50.000 contro i 32.000 degli Austriaci di Eugenio di Savoia, ma quella differenza numerica non si vide. Bilancio vittorioso per gli Austriaci, vincitori nel Mantovano e nel Cremonese.
Intanto, a fianco dell’Austria intervenivano le Province Unite e la Gran Bretagna, spaventate di assistere ad una vittoria di Luigi XIV. Infatti, se il Re Sole avesse vinto, avrebbe unito le corone francese e spagnola dando vita a un impero gigantesco che si estendeva anche al di là dell’Atlantico. Il colonialismo britannico, ancora agli albori, sarebbe stato stoppato sul nascere.
Gli Inglesi nominarono generale John Churchill, duca di Marlborough, che venne messo sotto il comando degli Austriaci, cioè di Eugenio di Savoia. Al contrario degli ufficiali di Vienna, che ancora non potevano sopportare il Savoia, il condottiero britannico divenne suo grande amico e alleato. Insieme dominarono su tutti i fronti, anche su quelli dove i Francesi erano numericamente superiori. La loro intesa fu sempre perfetta: mai un broncio, una divergenza di vedute, uno screzio. Erano due che facevano il loro lavoro, semplicemente. Fu questa “fraternità d’armi” (definizione di Winston Churchill, suo discendente) a tenere insieme due eserciti così diversi.
Nel 1703 la carriera di Eugenio arrivò all’apice. Venne nominato da Leopoldo presidente del consiglio imperiale di guerra. Quella carica l’aveva richiesta il Savoia personalmente. Doveva migliorare quell’esercito sempre a corto di viveri, armi e munizioni. Logisticamente sembrava di essere nell’esercito turco.
Prima di tutto eliminò del tutto le promozioni ottenute con raccomandazioni e bustarelle. Secondo: stabilì che la truppa non doveva essere sottoposta a sforzi eccessivi e una disciplina troppo dura. Terzo: puntò a insegnare la tattica del movimento su quella di posizione. Quarto: fissò l’impiego sistematico della cavalleria leggera e degli ussari. Quinto: creò una avanzata rete di rifornimenti per non avere il solito problema di mancanza di cibo, risorsa fondamentale per un esercito in salute. Sesto: fondò una scuola d ufficiali genieri e istituì un archivio di guerra.
Per sovvenzionare queste riforme ci volevano però le tasse. Siccome il popolo e il “ceto medio” erano già oberati, bisognava imporle anche a clero e nobili. Scoppiò il finimondo ma Leopoldo lo sostenne e andò fino in fondo. Le riforme ci furono e diedero i loro frutti.
Intanto la guerra di successione spagnola infuriava in tutt’Europa. I Francesi avanzavano decisi su Vienna dopo una serie di belle vittorie e la situazione appariva disperata.
Eugenio si consultò con Churchill e insieme decisero di affrontare il nemico a Blenheim, sul Danubio. Era il 13 agosto 1704 e fu una grande vittoria austro-britannica. Quella battaglia segnò la fine del potere francese e coincise con la nascita della potenza britannica, sino allora impegnata solamente sul mare. La guerra si prolungò ancora, ma la sorte francese era segnata.
Luigi XIV, dopo una sconfitta a Malplaquet, decise di gettare la spugna. La Francia era stanca di lasciar morire i suoi figli, come lo sarà a Waterloo quando terminerà l’epopea di Napoleone. Il trattato di Rastadt sanciva l’annessione all’Austria dei Paesi Bassi spagnoli, di Milano, Napoli e Sardegna. I Britannici prendevano Gibilterra e si garantivano l’asiento, cioè il monopolio della tratta degli schiavi (che alla fine era la vittoria più importante dal punto di vista economico). Quel conflitto, durato 14 anni, aveva cambiato la storia e gli equilibri della vecchia Europa.
Eugenio, a 50 anni suonati, era diventato ancora più schivo e riservato. Faceva vita da eremita, frequentava pochi amici, leggeva le biografie dei grandi condottieri e coltivava i suoi hobby: architettura, stampe, quadri. La sua ultima impresa la condusse contro i Turchi, che si erano riaffacciati a est e ancora una volta li vinse. Tornato a Vienna da vincitore, dovette sopportare l’umiliazione di una congiura contro di lui, ordita da Giovanni von Althan. Nonostante i presupposti, riuscì a scamparla anche quella volta. Però era troppo. All’età di 73 anni, il 21 aprile del 1736, stanco della vita guerresca, si spense. Calava nella tomba l’ultimo grande condottiero dell’antichità, l’ultimo capitano di ventura. Fu il leale servitore di Vienna non perché la amasse, ma perché per prima aveva creduto in lui: e questo gli bastava. Sicuramente nutriva una rivalsa, un odio, verso quei Francesi che, nella persona di Luigi XIV, l’avevano rifiutato. E chissà come sarebbe cambiata la storia se il Re Sole, invece di respingere la sua domanda di arruolamento, l’avesse accettata.