Buffalo Bill
Un’era romantica lasciava il posto ad un’epoca pragmatica, senza eroi. Lui, Buffalo Bill, nato William Frederick Cody, era stato uno di quegli eroi.
Quarto di otto fratelli, William nasce a Le Claire, in Iowa, il 26 febbraio 1846. Il padre Isaac, convinto antischiavista, decide di cercare fortuna nel lontano Ovest e porta tutta la famiglia a Sacramento (oggi capitale dello stato della California) in cerca dell’oro. Trova rifugio al forte di Leavenworth, ai piedi di una collina, Cody Hill. Il povero Isaac morirà presto, povero e illuso, secondo alcuni a causa di un banale raffreddore, secondo altri vittima di una rissa da saloon.
L’ambiente è quello tipico del Far West: avventurieri dalla pistolettata facile, tribù indiane da temere, revolver e cavalli.
Il piccolo William cresce però forte e di sana costituzione: quello che ci vuole per trovare subito un buon lavoro presso l’impresa Russel & Waddel che garantisce i trasporti nelle estenuanti trasferte lungo le infinite strade che si snodano tra le praterie. Il suo compito è quello di portare messaggi alle varie carovane per informarle se il tragitto è sicuro oppure no: in pratica, lo scout. Un giorno, insieme ad un gruppetto di pionieri, William deve affrontare l’attacco di una tribù indiana: lo fa nel migliore dei modi, uccidendo il capo e guadagnandosi, a 12 anni, i titoli del giornale del luogo, il Kansas Tribune che titola a tutta pagina: “Vi presentiamo il più giovane giustiziere degli Indiani”. E’l’epoca romantica delle grandi cavalcate nei territori dei Comanchi, dei Sioux, degli Cheyenne. Lui, per nulla intimidito dalla fama di tagliatori di teste dei pellerossa e dalla fama ormai raggiunta, continua a svolgere alla grande la sua attività di scout. Come ogni cavaliere, doveva coprire tre percorsi di 25 chilometri al giorno, andata e ritorno. Cavalcando ventre a terra, sfiancando il cavallo, con la borsa di cuoio piena di messaggi e documenti da portare ad ogni costo ai destinatari. La paga quotidiana? Venticinque dollari. La sua unica ancora di salvezza: una carabina monocolpo.
William Cody diventa il più abile di questi cavalieri-scout. Una volta percorse cinquecento chilometri in venti ore: si fermò solo per cambiare cavallo. Nacquero leggende sulla sua abilità di uccisore di Indiani, vennero coniate delle ballate sulle sue imprese, sulla sua infallibilità.
Poi arriva la Guerra di Secessione e la morte della mamma, che lo getta in una profonda crisi depressiva. Si mette a bere come una spugna e dilapida buona parte dei suoi averi in donne di facili costumi.
Chiamato nell’esercito nordista, fa valere le sue abilità e il suo coraggio, ma dimostra anche molta crudeltà nei confronti dei Sudisti. I generali Shermann e Grant lo elogiano pubblicamente e riesce finalmente a scacciare i propri demoni anche grazie all’incontro con una brava ragazza, Louise Federici, figlia di un poliziotto di origine alsaziana. La sposa in fretta e furia e poi apre un saloon a Leavenworth.
Il periodo di tranquillo gestore di locale però non dura a lungo. La sua indole è frenetica e aspetta solo l’attimo fuggente da cogliere. Questo si palesa subito in Wild Bill Hickock, un suo ex compagno scout, amico fraterno, che gli propone di seguirlo come esploratore per le armate americane che combattono contro Geronimo e gli altri capitribù indiani ormai in guerra aperta contro gli Stati Uniti.
La paga è buona, lui accetta senza fiatare e i due si ritrovano ancora nelle praterie come un tempo, liberi e selvaggi come le poesie di William Cullen Bryant. Diviene amico del generale Custer, comandante di quelle truppe d’assalto, di quei soldati pionieri contro gli invisibili Indiani. I due non possono essere più diversi. Custer astemio e quasi ascetico. Cody gran bevitore e gaudente. Custer sbaraglia tutti con il suo Remington calibro 50/70, Cody è imbattibile con la carabina Springfield monocolpo.
William Cody piange come un bambino quando viene a sapere che Custer è stato ucciso a Little Bighorn dal Toro Seduto. Giura vendetta a tutti gl’Indiani, a qualunque tribù appartengano.
E infatti, dal 1868 al 1876, ammazza migliaia di Indiani e di bufali, senza far distinzione. Difende i convogli, evita le imboscate alle diligenze, comanda gli assalti. In un duello rusticano a colpi di coltello fa fuori il capotribù Mano Gialla, degli Cheyenne.
Attenzione: si pensa a lui come il tipico americano crudele, senza cuore, pronto a strappare la terra legittimamente detenuta dagli Indiani con le armi da fuoco. Non è così. Era un uomo del suo tempo che coglieva l’occasione di poter far soldi e diventare famoso. Non aveva neanche l’intelligenza e la cultura per poter ragionare e capire che quella guerra di conquista era in realtà un genocidio. Non fu mai crudele con gli Indiani come lo fu con i Sudisti. Eseguiva semplicemente gli ordini perché soltanto così poteva sopravvivere.
Le sue imprese diventano ben presto leggendarie. William Cody viene nominato colonnello ad honorem delle Guardie del Nebraska e partecipa alla costruzione della linea ferroviaria dal Kansas all’oceano Pacifico. Cody protegge gli operai con la sua carabina uccidendo gli Indiani e procurando cibo uccidendo i bufali grazie alla mira infallibile che il Signore gli aveva donato. La sua arma, che lui chiamava sontuosamente “Lucrezia Borgia” non lo tradiva mai.
Ormai William Cody è un mito per tutta l’America: è Buffalo Bill. Si dice che in sedici mesi abbia abbattuto 4.000 bufali, surclassando il suo grande rivale, Bill Comstock. La canzone “Buffalo, Buffalo, non sbaglia mai, spara, uccide e la Compagnia paga il conto” è emblematica (la Compagnia cui si fa riferimento è quella che realizza, appunto, la linea ferroviaria).
Buffalo Bill è un uomo rimasto fanciullo. Si lascia travolgere dal trionfo e viene usato da uno pseudo-giornalista, Ned Buntline. Questi era una specie di arrivista colto che abbindolò il buon William Cody promettendogli guadagni, donne e bella vita in cambio delle sue capacità da cowoboy. Mise su un circo western itinerante, il “Buffalo Bill Wild West” che accoglieva tra le sue file anche l’ex prostituta Annie Oakley, una ragazza dal fucile facile e dalla mira infallibile: riusciva a spezzare in due una carta da gioco buttata in aria col bordo in avanti.
Le tourneès teatrali gli fanno dimenticare la sua vera indole di cowboy. Naturalmente, i guadagni arrivano: Buffalo Bill ripiomba nell’alcool e abbandona moglie e figli al loro destino. Ormai è una star americana.
Nel 1890 viene ricevuto da papa Leone XIII. La sua fama, divenuta mondiale, si moltiplica, così come il suo conto in banca, che però lui diligentemente sperpera in donne, alcool, bei vestiti e sale da gioco.
Il tramonto arriva presto perché ormai l’uomo è ridotto ad un rottame, pieno di reumatismi e roso dal vizio. L’ultima soddisfazione se la toglie quando il generale Miles (uno degli ultimi pionieri americani) gli chiede consiglio su come battere gli Indiani dello Utah: Buffalo Bill glieli elargisce volentieri, Miles li segue alla lettera e gli Indiani sono ancora una volta battuti.
Il 10 gennaio del 1917 Buffalo Bill muore a Denver, a casa della sorella May. Gli è accanto la moglie Louise, di cui lui non si occupò mai. Lascia agli eredi solo dei debiti nonostante avesse guadagnato tantissimo. L’America perde l’ultimo pioniere romantica della sua storia. Ubriaco anche sul letto di morte, chiede al medico di versargli dell’altro whisky nel bicchiere vuoto. Gli domanda: “Ce la farò, dottore?”. Il medico scuote la testa. Buffalo Bill capisce e risponde: “Allora è inutile perdere tempo, giochiamo a carte”.