Una banda di briganti
Una banda di briganti

L’odio dei briganti era manifestato certamente contro i nuovi oppressori, i Piemontesi, ma anche contro gli ex-sostenitori del regno borbonico, visti come gli antichi oppressori. Insieme ai soldati venuti dal nord Italia, i briganti massacravano anche i ricchi possidenti del sud, cioè quelli che fino a poco tempo prima li trattavano come una massa di “cafoni” e plebei.
Forse l’espressione migliore per definire quel brigantaggio è “rivolta contadina”, nel senso della rivolta della campagna contro la città, della provincia contro i grandi agglomerati urbani, tutti accomunati dall’impossibilità, per i “cafoni” di potersi inserire adeguatamente. Leggete Fontamara di Ignazio Silone e capirete di cosa sto parlando. Per un marsicano, un silano, un casertano, era pressoché impossibile pensare ad un miglioramento della propria condizione economica e sociale, nemmeno con l’avvento del nuovo regime, quello del Regno di Sardegna.
Nessuno, al Sud, tra i poveri contadini, credeva che quel cambio epocale sarebbe stata la loro salvezza. Non credevano minimamente in un concetto teorico e geografico come l’Italia. Non avevano alcuna voglia di servire un altro re, altri amministratori, di farsi uccidere in nome di altri generali.
Certo, alcuni briganti simpatizzavano per il vecchio regime borbonico, questo è dato per assodato. Però la maggioranza di loro combattevano per il loro tornaconto, si ergevano a difensori non dei Borbone, ma del loro nucleo familiare o al massimo del loro piccolo paesello di cui diventavano dei miti leggendari. In tutti i casi, il brigante era la personificazione del cavaliere che proteggeva la povera gente di campagna.
Andiamo quindi ad analizzare in questo articolo la breve ma intensa epopea dei briganti del Sud Italia in lotta contro il nuovo regime dei Savoia.

“Sono ormai sette mesi che non si dorme in un letto. La più parte delle notti l’abbiamo passata nelle stalle, e la greppia ci serve da giaciglio”. Così parlava un soldato lombardo impegnato nella guerra contro i briganti meridionali. Costituito di recente, l’esercito italiano avrebbe dovuto battersi eroicamente contro l’oppressore austriaco che ancora teneva una parte della penisola. Invece, dovette riciclarsi contro quei guerriglieri improvvisati in un territorio sconosciuto a tutti i soldati venuti dal nord, compresi gli ufficiali.
Quella guerra, definita da alcuni come la “Vandea italiana”, non era combattuta contro truppe regolari: i Borbone non c’entravano quasi nulla, come abbiamo accennato prima. Quella era una guerra civile tra nord e sud Italia, che non si conoscevano minimamente e che non avevano alcuna voglia di incontrarsi.
Le prime operazioni contro i briganti meridionali erano avvenute durante la conquista garibaldina e si erano concluse con nette vittorie di parte piemontese. Dopo il 1861 si trattava solo di rastrellare le ultime sacche di resistenza annidate in paesini arroccati sulle montagne o in zone impervie delle campagne. Per i Piemontesi sembrava un compito estremamente facile. Ma già nella primavera di quel 1861 questo ottimismo cominciò a scemare. A una a una tutte le province dell’Italia meridionale andarono a fuoco: la rivolta ardeva in particolare dal Molise alla Terra d’Otranto, dalla Capitanata (l’odierna provincia di Foggia) alla Lucania, fino alla Terra di Lavoro (quasi tutta la Campania di oggi). Alcune cittadine, anche di discreta importanza, erano controllate dai briganti, che vi avevano ucciso i rappresentanti dello stato e non di rado gli ecclesiastici, e che dominavano come dei sovrani. In molte zone la gente comune si sollevava contro i possidenti, contro i collaborazionisti del nuovo regime e contro chi esprimeva anche solo una pavida simpatia per i Piemontesi. Spesso queste sollevazioni erano seguite a uccisioni di massa, stupri, esecuzioni sommarie, vendette personali.
In Meridione c’erano cinquantuno battaglioni di fanteria dell’esercito regolare italiano, due reggimenti di cavalleria, sette battaglioni di bersaglieri. A queste forze si aggiungeva la Guardia Nazionale, reclutata a difesa delle città e dei villaggi tra operai, artigiani e piccoli possidenti: cioè l’elemento borghese-cittadino che doveva scontrarsi con l’elemento rurale. Furono proprio i componenti di questa Guardia Nazionale i più spietati cacciatori di briganti. Odiavano a morte quei “cafoni” e vedevano nella lotta armata la possibilità di ucciderne il maggior numero possibile.
L’esercito italiano era capeggiato da un triumvirato formato dai generali Durando, Cialdini e Della Rocca. Il loro primo obiettivo era quello di arrestare quanti più briganti possibile fidando nella collaborazione volontaria o forzata delle popolazioni autoctone. Purtroppo questa prima fase non riuscì perché i Piemontesi incontrarono la quasi totale omertà e il malcelato odio verso i nuovi arrivati. Fu quindi necessario aumentare le forze in campo chiamando altri nove battaglioni. In totale i soldati italiani impegnati furono quasi cinquantamila.
Queste forze armate si tenevano però sulla difensiva. Era fondamentale tenere nei centri urbani, visto che avventurarsi nelle zone montagnose e o in piena campagna era rischiosissimo, come testimoniavano i numerosissimi episodi di guerriglia che erano costati la vita a migliaia di poveri soldati venuti dal nord Italia, ignari di quell’inferno.

Carmine Crocco
Carmine Crocco

Ma chi erano questi briganti? Carmine Crocco, Giuseppe Summa (detto Ninco Nanco), Giuseppe Schiavone, Cosimo Mazzeo, sono solo alcuni dei principali capibanda. Spesso si è pensato erroneamente che queste formazioni criminali fossero di trascurabile entità visto che i propri effettivi ammontavano a poche centinaia per ogni banda. Errore madornale. Proprio perché formazioni criminali non regolari, non avevano dei soldati veri e propri né un vero e proprio reclutamento. E’quindi impossibile calcolare quanti fossero effettivamente i loro componenti, anche perché in una battaglia potevano intervenire duemila effettivi mentre in un’altra tremila o anche di più. Non dobbiamo neanche pensare ad una organizzazione militare o paramilitare. Di guerriglia c’era ben poco. Per la maggior parte del periodo post-unitario quelle bande erano dei cani sciolti che combattevano non coordinandosi le une con le altre, se non in rarissime occasioni. E fu proprio questa strategia a renderle sempre più vulnerabili.
L’armamento dei briganti era formato da vecchi fucili da caccia con pallottole di stagno invece che di piombo, sciabole e coltellacci. Spesso però queste bande armate riuscivano a distruggere interi plotoni di soldati e così erano in grado di procurarsi le armi in dotazione ai Piemontesi. La stragrande maggioranza dei guerriglieri combatteva appiedata, preferendo agire con la tattica dell’imboscata e del “mordi e fuggi”. Il confronto con le forze armate regolari era accuratamente evitato. I briganti avevano informazioni precise su quanti soldati piemontesi stessero transitando in un determinato luogo grazie ai mille occhi dei collaborazionisti contadini.
Gli ufficiali italiani, assolutamente impreparati a quel tipo di guerra, ebbero sulla coscienza decine di migliaia di poveri soldati venuti dal nord Italia, ammazzati in nome di una nazione appena nata ma già sporca di sangue. I briganti inflissero, all’inizio, delle sonore sconfitte ai Piemontesi. Il trattamento riservato ai catturati era spesso crudele. La stragrande maggioranza dei prigionieri moriva dopo ore di tortura. I corpi venivano mutilati: era uso comune appendere le braccia e le teste ai rami degli alberi come orribili trofei di guerra e moniti per i Piemontesi. La stessa sorte la subivano i possidenti e i simpatizzanti del Regno di Sardegna: molti vennero brutalmente uccisi nelle loro case, le donne di famiglia violentate e tutti i loro beni rubati o distrutti dal fuoco. Numerose testimonianze raccontano anche di preti uccisi a colpi di bastone, seviziati per ore o orribilmente linciati.
I Piemontesi si adeguarono presto alle usanze dei loro nemici e col tempo li superarono in crudeltà.
Una cosa che i soldati venuti dal nord Italia non concepivano era che quei briganti si ostinavano a definirsi “soldati”. Quando venivano catturati molti di essi chiedevano: “Uccidimi da soldato”. Era il loro modo per morire eroicamente, per una causa che loro ritenevano giusta e sacra. Eppure i Piemontesi non gli diedero quasi mai questa soddisfazione, tant’e vero che le morti dei briganti erano spesso umilianti: uccisi da una sciabolata, impiccati, arsi vivi, fucilati. Gli ufficiali avevano vietato l’onore delle armi e i soldati piemontesi eseguirono sempre volentieri questo ordine. Tra un brigante meridionale e un soldato piemontese non c’era rispetto: né avrebbe mai potuto esserci perché l’uno non conosceva minimamente l’altro. E nessuno dei due riteneva l’altro “italiano”.

Giuseppe Summa, alias Ninco-Nanco
Giuseppe Summa, alias Ninco-Nanco

Nel 1863 la lotta continuava ancora accesissima. Del brigantaggio, nel nord Italia, si parlava con reticenza. Si aveva una paura incredibile di poter dare notizie di fallimenti proprio quando stava nascendo il nuovo stato unitario. Fu così che, alla chetichella, venne approvata dal parlamento la legge Pica (dal nome del deputato aquilano che l’aveva ideata). Essa prevedeva la competenza dei tribunali militari a giudicare i briganti e i loro complici, la fucilazione dei resistenti a mano armata e dava la possibilità al governo di inviare i sospetti al domicilio coatto. In pratica, si dava mano libera alla lotta senza quartiere e con qualunque mezzo. Per chi si fosse arreso subito era previsto uno sconto di pena. Si chiariva che la zona “infestata dal brigantaggio” era tutto il Meridione, tranne le province di Teramo, Reggio Calabria, Napoli, Bari e Terra d’Otranto, anche se in queste ultime due la legge Pica ebbe comunque regolare attuazione.
Furono reclutati altri battaglioni, di cui alcune decine di cavalleggeri scelti tra la gente pratica dei luoghi. Tra il 1863 e il 1864 le forze armate piemontesi salirono a 117.000 unità, una cifra impressionante considerato che due anni più tardi, nella guerra contro l’Austria, l’esercito assommerà a 220.000 soldati, esclusi i volontari. Dunque possiamo tranquillamente dire che quella contro il brigantaggio fu una vera e propria guerra civile.
Arrivò anche il generale La Marmora, che per primo capì l’importanza di penetrare nelle campagne corrompendo o minacciando i contadini. Soprattutto fu lui a scegliere l’uomo giusto al momento giusto per i Piemontesi: Emilio Pallavicini di Priola, lo stesso che nel 1862 aveva interrotto la drammatica marcia di Garibaldi sull’Aspromonte. Intelligente, astuto, spietato, abile negoziatore, il Pallavicini accettò i rischi della guerriglia andando a stanare le bande nei loro luoghi, sfruttando la collaborazione dei popolani. Fondamentale la sua tattica di tagliare i rifornimenti e le vie di comunicazione: una operazione che oggi definiremmo “chirurgica”.
La sua prima vittima illustre fu Ninco-Nanco, poi si arrivò nel 1864 a circondare la banda del Crocco, la più numerosa. I cavalleggeri di Lodi e del Monferrato annientarono l’armata di quest’ultimo in una battaglia epica (fatte le dovute proporzioni, naturalmente), combattuta con grandissimo coraggio dai briganti. Crocco si salvò perché riuscì a fuggire: raggiunto il territorio dello Stato Pontificio venne poi catturato e condannato a trent’anni di prigione. In galera egli dettò le sue memorie che costituiscono uno spaccato molto esauriente sulle condizioni delle plebi meridionali.

Nell’inverno del 1864 le operazioni militari presero una piega favorevole ai Piemontesi. La stragrande maggioranza delle bande era stata debellata e ora si potevano finalmente congedare i primi squadroni. Rimasero nel Sud solamente 8 reggimenti di cavalleria, 8 di granatieri, 13 di bersaglieri e 34 di fanteria. Vaste zone comunque erano ancora in mano ai briganti. Estirpare completamente il brigantaggio richiese ancora almeno vent’anni. Quando una banda veniva distrutta ne nasceva un’altra, magari meno numerosa ma più astuta. Quando cadeva un capo ne sorgeva un altro, più spietato, più furbo e meno “appariscente”. La guerriglia cambiò pelle. Non era più rivolta sociale, ma solo criminalità pseudo-organizzata da piccole compagini di sbandati in vario modo favoriti dalla gente del luogo. Per i Piemontesi si trattava, ormai, solo di una seccatura. Eppure i briganti che venivano catturati e poi uccisi spesso assumevano i connotati di eroi romantici, cavalieri di un tempo perduto, ultimi rappresentanti di un regime che sempre più popolani iniziavano a rivalutare positivamente.

Impossibile dare un numero approssimativo di morti. Per l’esercito piemontese si parla di trentamila, ma probabilmente furono molti di più. Moltissimi morirono non in battaglia, ma per le scarsissime condizioni igieniche, per il tifo e per la malaria. I poveri soldati che diedero la vita in quella guerra civile ebbero “ben meritato della patria” e non godono neanche della consolazione di un monumento che li ricordi. Questo fatto testimonia che la guerra fu davvero civile, disonorevole e da dimenticare in fretta. L’apparenza doveva essere salvata: l’Italia tutta voleva essere unita, mentre in realtà la parte meridionale non lo desiderava per nulla.
Quante furono le vittime tra i briganti, è ancora più impossibile stabilirlo. Si è calcolato il numero in 5.212, ma è davvero molto riduttivo. A mio parere, furono almeno quattro volte di più.