Busto di Eliogabalo
Ormai è l’esercito a tenere i fili dell’autorità imperiale: l Senato, ridotto ad una larva, serve solo a ratificare le decisioni già prese dai generali e dagli ufficiali che si contendono il potere. Le legioni romane sono già strapiene di mercenari. L’immensità del territorio non permette di controllare più efficacemente le regioni esterne: già in quel periodo in Britannia, Hispania, Asia Minore e nel nord della Gallia si assiste ad un netto allontanamento dal potere centrale di Roma.
Caracalla, appena salito al trono, elimina subito il fratello Geta. Tutto preso dall’emulare le gesta di Alessandro Magno, suo idolo giovanile, inaugura delle imprese belliche destinate a fallimento, nonostante l’accresciuto numero delle truppe. Per sostentare le spese dell’aumento dei contingenti militari, deve però alzare di molto le tasse, anche per le classi senatorie delle varie città romane.
Al culmine del malcontento, è il prefetto del pretorio, Macrino, ad ordire una congiura nella quale Caracalla viene ucciso. Il Senato, naturalmente, applaudì l’azione ratificando la nomina ad imperatore di Macrino. Il quale, altrettanto naturalmente, é solo un parvenu, quindi godeva di un potere molto effimero. Cerca quindi di puntellare il suo comando associandosi al trono il figlio Diadumeno con il titolo di “Antonino”, nel tentativo di dare una continuità alla tradizione romana se non nel sangue, almeno nello spirito.
Il regno di Macrino dura solamente un anno perché ad entrare in scena è Giulia Mesa, zia di Caracalla, che era stata scacciata da Roma dopo la morte del nipote portandosi dietro le sue immense ricchezze. Esiliata in Siria, sua terra natale, dove la famiglia era proprietaria di moltissime terra e suo padre era stato sacerdote del dio Eliogabalo, cresce un altro nipote, Vario Avito, con l’obiettivo di portarlo alla dignità imperiale.
Le cronache dell’epoca ce lo descrivono come un ragazzino bellissimo, molto attaccato alla zia e soprattutto credulone al massimo: si era convinto di essere l’incarnazione del dio Eliogabalo, che proprio in quelle terre siriane e medio-orientali é seguitissimo dalle legioni romane. Grazie al denaro di Giulia Mesa e allo charme del piccolo Vario Avito le truppe e gli ufficiali decidono di mollare Macrino. La notizia delle sommosse in Siria arriva fino a Roma, insieme naturalmente alle solite bustarelle di Giulia Mesa. Anche nella capitale, quindi, il vecchio imperatore perde l’appoggio dell’esercito e viene giustiziato.
Le legioni decidono di sostenere la candidatura del ragazzino Vario Avito che prende il nome di Eliogabalo, oltre a quello di Antonino per salvare le apparenze imperiali. La ragione non è solo nella enorme quantità di denaro che la nonna Giulia Mesa ha fatto calare nelle tasche degli ufficiali: si tratta soprattutto di restaurare la dinastia di Caracalla, che era visto come un idolo dai soldati per il semplice motivo di aver aumentato loro la paga. In particolare era la truppa che lo considerava un semidio, anche perché indubbiamente ispirava un certo fascino militaresco, a differenza del debolissimo Macrino.
Appena eletto imperatore, Eliogabalo manda alcuni emissari a Roma per distribuire denaro, oltre che al Senato, anche alla plebe. Lui, però, non si muove dal Medio Oriente, acquartierandosi nella zona di Nicomedia, dove evidentemente si sente più sicuro. Ci rimane fino all’autunno del 219, ad operazioni corruttive terminate.
Nell’Urbe si butta subito a capofitto nei suoi vizi. Omosessuale dichiarato e spregiudicato, Eliogabalo comincia a vestirsi da donna, a truccarsi e a depilarsi. Interpreta ruoli femminili in commediole licenziose che divertono gli spettatori, siano essi legionari e senatori: il suo forte era recitare nella parte di Venere ne “Il Giudizio di Paride”. A un certo punto, sul palco, è uso lasciare cadere la veste apprendo completamente nudo. Finge poi di coprirsi pudicamente il petto e l’inguine, cade in ginocchio e si lascia andare ai “desideri dei suoi amanti”, come descrivono le cronache dell’epoca. Siccome l’autore, Elio Lampridio, vi partecipava, non c’è da stupirsi che esponga il tutto molto chiaramente e senza preoccuparsi di eventuali giudizi morali.
Per soddisfare i suoi desideri Eliogabalo fa arrivare da tutto l’Impero i giovani più belli e prestanti (fisicamente e sessualmente), a cui dava nomi di eroi greci e romani. I suoi favoriti vengono scelti tra i liberti, i giocolieri del circo, gli atleti: in pratica, quella che era considerata la feccia della società romana. Addirittura, del tutto indifferente alle poche norme morali rimaste in quel periodo di decadenza, pretende di sposarne molti contemporaneamente.
Ora, questo gusto dello scandalo non è assolutamente nuovo alla corte di Roma. La pederastia, come anche l’omosessualità, erano vizi tollerati e praticati anche da una buona parte della nobiltà, sia nella capitale che in parecchie province imperiali. Niente di nuovo, quindi. La novità di Eliogabalo, invece, sta nel fatto che questi vizi vengono resi pubblici, diventano quasi delle medaglie al valore.
Il punto più basso lo raggiunge quando sposa un certo Zotico (di nome e di fatto), figlio di un cuoco di corte, atleta originario di Smirne, che approfitta della sua posizione privilegiata per spadroneggiare, rubare denaro, taglieggiare. E’con lui che comincia la decadenza più sfrenata della giovane vita di Eliogabalo.
Ogni giorno si tengono banchetti luculliani che vanno avanti per ore, dove si servono piatti esotici a base di lingue di pappagallo e di usignolo, dove si usano come posate perle ed altre pietre preziose. Durante l’estate, poi, vuole che le portate abbiano sempre dei colori diversi a seconda dell’umore. Spesso fa cadere dai soffitti a cassettoni nuvole di petali di fiori sui commensali sdraiati sui triclini. Se avete letto Petronio, ritroverete tutto e anche di più.
Il giovane imperatore ama particolarmente il vino rosato aromatizzato con le pigne tritate. Un giorno fa addirittura riempire la piscina del palazzo imperiale proprio col vino, invitando alcuni popolani a berne: il tutto, naturalmente, finisce in un’orgia.
Altra grande passione, la lotteria. Spesso fa estrarre a sorte dei popolani per essere beneficiati da doni oppure sbranati da orsi o leoni.
Viene anche istituito un “senaculum” riservato alle donne, cioè una caricatura del senato, dove venivano deliberati ridicoli provvedimenti sul modo di vestire o pettinarsi delle nobili o sul galateo da seguire nelle cerimonie. Addirittura viene fissata la foggia da utilizzare nelle vesti, a chi si debba cedere il passo, chi abbia diritto viaggiare in carrozza oppure solo sul cavallo o a dorso di asino, quale colore debbano avere le portantine e infine chi possa portare le calzature ornate d’oro.
Tutte queste belle occupazioni, lo ricordiamo, mentre l’Impero comincia a disgregarsi e subire i primi attacchi dei barbari che premono ai confini. Laddove servirebbe una guida seria come fu Settimio Severo, i Romani si ritrovano Eliogabalo e la sua corte di depravati.
Se Eliogabalo si fosse limitato a quelle azioni lussuriose e scandalose, probabilmente, sarebbe durato molto di più. Invece, dopo circa due anni dall’ascesa al trono, si mette in testa di imporre il suo dio ai Romani. Non si sa bene a quale divinità faccia riferimento: non è l’Eliogabalo nel quale s’identifica, o meglio lo è in parte. Probabilmente è un insieme male amalgamato del Sole, di Giove e di Mitra. Il lato positivo della sua indole è che si dimostra tollerante con tutte le religioni, compreso il cristianesimo: e infatti gli scrittori come Lattanzio o Tertulliano non lo condannarono quasi mai nei suoi comportamenti.
La sua mania per questa divinità non ben definita gli fa buttare via un sacco di denaro: vengono edificati due templi arricchiti con i monili presi da altri luoghi di culto, come quello sacro ai Romani della dea Vesta. Non solo. Siccome quel dio è particolarmente esigente, vuole anche sacrifici di sangue, in particolare sangue di giovinetti: dopo averli torturati personalmente, Eliogabalo ne legge le viscere e poi li getta sulle pire ardenti.
Ormai assolutamente fuori controllo anche per la zia Giulia Mesa, il giovane imperatore comincia a circondarsi prevalentemente di profittatori e furfanti. Il palazzo imperiale gli va stretto: preferisce di gran lunga i vicoli e i locali peggiori di Roma. Una volta, pare, indice addirittura una specie di comizio riservato alle prostitute, cui partecipa anche lui presentandosi vestito in maniera orripilante, nel quale si disserta delle peculiarità della nobile professione più vecchia del mondo.
Ora, dopo quattro anni di pazzie e sperpero di denaro il Senato Romano comincia ad averne le tasche piene. L’errore principale è quello di continuare a buttare sesterzi nel culto di quel dio orientale cui crede solamente lui e che rischia di diventare un’ossessione. Visto il tipo, infatti, si teme che possa imporlo come unico dio per tutta la popolazione.
I Romani, in quel periodo, digeriscono anche i sassi: ma non toccategli i loro dèi. Nel Pantheon trovavano posto tutti, anche quelli più misconosciuti. Se qualcuno, però, provava ad imporne uno solo, allora diventavano dolori. Per questo motivo il Cristianesimo, monoteista, era visto come fumo negli occhi. Bisognerà aspettare ancora una cinquantina di anni perché riesca ad espandersi soprattutto tra le truppe dell’esercito, che ormai non crederanno più a quegli imperatori imbelli e alle vecchie divinità e che cercheranno rifugio in Cristo. Ma, appunto, all’inizio del III secolo, è ancora presto.
Il Senato, il popolo e l’esercito, dunque, si stancano di Eliogabalo e del suo spreco di soldi pubblici. Mettono gli occhi su un altro candidato, il cuginetto Alessandro.
Fiutato il pericolo, la furba Giulia Mesa ha la grande idea di far adottare da Eliogabalo proprio il cugino Alessandro, associandoselo al trono. Per qualche mese le acque si calmano.
Eliogabalo, però, ormai abituato a spadroneggiare, mal sopporta l’ingerenza, seppure lievissima, del nuovo co-reggente. Gli viene quindi in mente di consultare dei cortigiani per ordire una congiura allo scopo di uccidere Alessandro, ma il piano viene scoperto. Oltre ad essere depravato, è anche piuttosto stupido, dal momento che fa gestire la cosa ai suoi “favoriti”, i quali hanno ormai subdorato che il loro protettore è passato di moda e quindi si attrezzano di conseguenza.
La congiura, spifferata ai quattro venti, probabilmente coinvolge anche alcuni senatori, i quali mandano le loro truppe a giustiziare Eliogabalo. Solo l’intervento dei pretoriani, rimastigli fedeli, salvano l’incauto imperatore. Il quale, presosi un bello spavento, promette di mettere la testa a posto e licenzia tutta la feccia che mantiene a corte.
Dopo poche settimane, però, Eliogabalo riprende la vita di prima e ridiventa lo scandalo di Roma. Anzi, fa ancora peggio. Stavolta si mette in testa di sciogliere il Senato e uccidere di nuovo Alessandro. Stavolta anche i pretoriani lo abbandonano.
Neanche nell’affrontare la morte il giovane Eliogabalo si dimostra degno della porpora imperiale. I soldati lo trovano in una latrina, sudicio e tremante. Il suo cadavere viene trascinato per le vie di Roma, dove si insozza ancora di più, e infine buttato nelle acque del Tevere. Per tutti, non è neanche degno di sepoltura. La stessa sorte viene seguita anche dalla madre, Giulia Semia.
La fine di Eliogabalo era stata profetizzata da un oracolo siriano, che gli aveva preannunciato una morte violenta. Per questo motivo si era fatto tessere delle corde di porpora e oro per potersi strangolare. Si era fatto forgiare degli anelli bellissimi, pieni di veleno, per poter morire senza soffrire. Addirittura aveva voluto la costruzione di una torre altissima, rivestita da pannelli dorati, dalla quale gettarsi in caso di mala sorte. Le sue precauzioni non servirono a nulla. La sua figura verrà ricordata come una delle peggiori della storia romana e come simbolo dell’inizio dell’era di decadenza.
Dopo di lui, il Senato ratifica la decisione di innalzare al trono Alessandro, che diventerà noto come Alessandro Severo. E, per una volta, è la scelta giusta. Governerà per ben tredici anni (per l’epoca, un record) ma finirà anche lui ucciso come il cuginetto Eliogabalo. Roma, mangiatrice di imperatori e distruttrice di memorie, continuerà a trovare le sue vittime ancora per molto, troppo, tempo.