Il primo a parlarne fu Dante Alighieri nel canto VI del Purgatorio ricordando il giudice aretino Benincasa da Laterina, il quale “dalle braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte”. L’omicidio di cui parla il Sommo Poeta riguarda un fatto ben noto a nella Firenze duecentesca. Il giurista Benincasa da Laterina, in qualità di collaboratore del podestà di Siena, fece condannare un fratello e uno zio di Ghino di Tacco perché “uomini violenti e rubatori”, che “avevano tolto al comune di Siena uno castello che era in Maremma, e quive rubavano a chiunque passava per la strada”. La vendetta di Ghino si abbatté inesorabile. Inseguì il giudice fino a Roma, lo sorprese nella sala del tribunale dove stava esercitando la sua funzione e lo decapitò seduta stante.
La vicenda sconvolse la Toscana di quel tempo e Ghino di Tacco divenne ben presto famosissimo. Molti lo consideravano una specie di cavaliere senza macchia e paura. Ad esempio un commentatore del Quattrocento, Landino, così lo descriveva: “Di grande statura, membruto e robustissimo e molto liberale, ed esercitava il latrocinio non per avarizia ma per usare liberalità”. In pratica, un ladro-gentiluomo che ruba ai ricchi per dare ai poveri: una sorta di Robin Hood in Toscana. In questo senso la figura del fuorilegge costeggia pericolosamente quella del cavaliere errante, e infatti i due “mestieri” spesso andavano in coppia.

Tra le poche notizie storicamente accertate, conosciamo la casata di Ghino, i Cacciaconte da Guardavalle, signori della Fratta, un castello della Val di Chiana situato tra Torrita e Sinalunga, in un’area prevalentemente paludosa.
Intorno al 1276 Ghino insieme al fratello Tacco si ribellarono all’autorità del comune di Siena (divenuto guelfo dopo la sconfitta di Manfredi di Svevia e la sua morte nella battaglia di Benevento del 1266) proclamandosi ancora ghibellini.

Nel 1285 il podestà di Siena, Guido dei conti di Battifolle, insieme con alcuni nobili senesi, organizzò un’alleanza contro la famiglia di Ghino riuscendo a catturare lo zio e il fratello e condannandoli alla pena capitale. Ghino, che era riuscito a sottrarsi alla cattura, venne bandito dal territorio senese e costretto a diventare un bandito: nel senso che era stato colpito dal bando a causa delle sue posizioni politiche.
Approfittando della natura desertica e paludosa della Maremma duecentesca, cominciò a dare del filo da torcere al potere costituito. Braccato come un cane, ma nel contempo forte e temuto, idolo di moltissimi abitanti della zona ancora ghibellini, nel 1295 conquistò la rocca di Radiocofani, che apparteneva al patrimonio di San Pietro, cioè al pontefice Bonifacio VIII. Si trattava di un passo montano estremamente importane, posto a sud di San Quirico d’Orcia su una strada trafficatissima già dai secoli VI e VII, denominata “Via Francigena”, che collegava l’Italia con la Francia. Questo tragitto commerciale entrava in Toscana dal passo della Cisa e, dopo aver toccato Luni e Lucca e guadato l’Arno, proseguiva costeggiando l’Elsa e passando da Radiocofani proseguiva verso sud, cioè verso Roma. Dunque, una via commerciale estremamente frequentata.

La supremazia su quella zona venne ribadita da Ghino di Tacco con un’impresa destinata a “fare rumore” nella Toscana dell’epoca. Alla corte di Bonifacio VIII c’era un abate cluniacense (cioè proveniente dall’abbazia di Cluny, la prima grande abbazia del Basso Medioevo) ricchissimo e potentissimo. Siccome questi era affetto da obesità e da problemi allo stomaco, i medici romani gli prescrissero dei bagni termali nel territorio di Siena, adatto alla cura di questi disturbi fastidiosi. L’abate si mise dunque in viaggio con gran seguito di servitori ma anche di oggetti preziosi ed oro. Ghino di Tacco lo venne a sapere e naturalmente volle intercettare la preda. Con la sua banda fermò facilmente il convoglio e prese in ostaggio il povero chierico, che tuttavia venne trattato con ogni riguardo. Gli fu riservata una stanzetta pulita nel castello e debitamente nutrito.
Ghino, accortosi che l’abate soffriva di suoi continui disturbi alimentari, si rese conto del motivo del viaggio: andarsi a curare nelle terme senesi. E, siccome era un fuorilegge molto furbo e intelligente, capì che quei problemi non potevano essere curati con dell’acqua, bensì con una dieta forzata. Dunque, vitto sano e razionato: pane abbrustolito e vino delle Cinque Terre, alimenti considerati terapeutici per uno stomaco abituato ai bagordi romani.
La cura funzionò e l’abate conobbe finalmente uno stile di vita sano, differente da quello conosciuto a Roma. Alla fine del periodo di dieta Ghino di Tacco lo rispedì dal papa senza aver torto un capello a un servitore e con i forzieri ancora pieni del suo oro. Tornato alla corte pontificia, quel potente chierico perorò la sua causa presso Bonifacio VIII, facilitandone il perdono e l’ammissione nell’ordine degli ospedalieri.
Non è tutto oro quel che luccica. Se al posto dell’abate cluniacense ci fosse stato un nobilotto di provincia sicuramente Ghino non avrebbe fatto lo stesso. Sapeva benissimo di aver intercettato una preda grassa ma pericolosa, visto che le armate del papa sarebbero arrivate in pochi giorni nel suo castello per distruggerlo e ucciderlo senza pietà. Però, senza dubbio, questa vicenda dimostra che non era solo un bandito comune, ma un bandito molto furbo.

Non sappiamo con certezza se dal quel momento Ghino fu lasciato in pace da Siena. Probabilmente sì, visto che le notizie a nostra disposizione parlano di una morte nel 1303 o nel 1313, vittima di un assassinio a Sinalunga.
Siccome qui dobbiamo andare per tentativi, si può solo ipotizzare che egli sia rimasto nel suo castello a regnare come un vero e proprio feudatario, scontrandosi con gli interessi degli altri latifondisti. Se, infatti, qualcuno di potente avesse voluto farlo fuori, avrebbe avuto vita molto più breve. E invece morì cinquantenne o sessantenne (a seconda delle due date), un età abbastanza avanzata per l’epoca.
Una testimonianza utile per capire il motivo della sua fine ci viene da alcuni bandi di inizio Trecento nei quali venivano menzionati molti banditi nella zona del Senese. Probabilmente, dopo la comparsa di Ghino, altri fuorilegge erano comparsi sulla scena. E altrettanto probabilmente lo stesso Ghino era stato vittima di uno scontro tra bande rivali per il controllo del territorio.
Menzioniamo infine un altro grande bandito operante in Toscana, stavolta nel tardo Cinquecento: Alfonso Piccolomini, discendente di papa Pio II e nobile a sua volta, duca di Montemarciano e signore di Camposervoli.
Ciò dimostra che la Maremma del Basso Medioevo e del secolo XVI non era propriamente una zona adatta per i viaggiatori occasionali.