Il conte Alfonso Giuseppe Gorani
Il conte Alfonso Giuseppe Gorani

Ciarlatani, truffatori, artisti, figli di un’epoca galante ma anche destramente brutale. Tra questi avventurieri ripercorriamo le tracce del conte Alfonso Giuseppe Emanuele Baldassarre Agostino Gorani, milanese.

IL CONTE SQUATTRINATO

Gorani nasce il 15 febbraio del 1740 a Milano, figlio quintogenito di Ferdinando e Marianna Belcredi. Il padre è un nobile, colto, brillante, impegnato in interminabili cause volte a riprendersi le ricchezze e l’onore sociale. Sì, perché i Gorani sono conti, ma conti squattrinati. La madre viene dipinta come fredda, bigotta, incapace di farsi voler bene dai figli che opprimeva a sberle con le sue manie religiose.
Il giovane Giuseppe non cresce in famiglia. Viene spedito molto presto al collegio dei Barnabiti perché la contessa Marianna ha avuto una visione del beato Alessandro Sauli e vorrebbe che il figlio diventasse prete.
In collegio il ragazzo non impara niente se non a subire le violenze di due frati viziosi; prova a ribellarsi ma con scarsi successi, così diventa anch’egli violento. A 17 anni fatica a leggere e scrivere, ma impara un po’ il tedesco e si dimostra abilissimo nella scherma. La sua passione è l’arte della guerra: ancora a quell’età gioca con i soldatini simulando le battaglie.
Nel maggio del 1757 fugge dal collegio/carcere e si presenta al comando di guarnigione; gli ufficiali lo accolgono bene perché un suo zio è generale, quindi di altissimo grado. Gorani si gode tutti i vantaggi del “raccomandato”: alloggio privato in caserma, a pranzo con gl’ufficiali, attendente personale. Supera anche un infortunio piuttosto piccante: si fa beccare insieme al cameriere in atteggiamento “imbarazzante”. Il cameriere viene trasferito subito mentre lui viene solo strigliato blandamente.

Nel frattempo scoppia la Guerra dei Sette Anni tra Prussia e Gran Bretagna da una parte e Francia e Sacro Romano Impero dall’altra. Federico II di Prussia è la star indiscussa: inanella una serie di vittorie che fanno sperare in un rapido trionfo. Milano fa parte del Sacro Romano Impero, quindi Gorani è un soldato austriaco. Fa carriera velocemente. Dopo sei settimane è già alfiere. Viene mandato prima a Vienna e poi al fronte. Riceve il battesimo del fuoco a Bahrsdorf ben comportandosi, ma poi va incontro al disastro a Leuthen. Finisce in un mulino a Kosteletz, in Boemia, ospitato da una coppia che lui scopre essere hussiti, che all’epoca venivano perseguitati pesantemente. Lui non li denuncia e loro lo ricompensano adeguatamente. Impara da qui ad essere tollerante con tutte le credenze religiose.
Tornato tra i suoi ranghi, arriva la promozione a luogotenente, ma ha appena il tempo di mettersi i lustrini che sopraggiunge la sconfitta di Lungwitz, in Sassonia, nel 1759. Cade prigioniero dei Prussiani, per sua fortuna: si salva solamente perché ha un chepì con due bande di ferro che gli parano un fendente di spada. La colonna dei prigionieri austriaci viene portata a Berlino dove il giovane Gorani ha il primo colpo di fortuna della sua vita: il primo di tanti.
Incontra la contessa Carlotta Sofia Bentinck, amica di suo zio, che naturalmente gli ridà la libertà e gli mette a disposizione la sua casa. Lo fa studiare affidandolo alle lezioni del letterato Samuele Formey e ai coniugi modenesi Tagliazucchi. Per quattordici mesi Gorani fa vita gaudente a Berlino: si fa ripulire regolarmente al gioco, frequenta cattive compagnie, ozia. E'già diventato un libertino.

Poi però arriva il momento di andarsene da Berlino perché Gorani, pur essendo un protetto, è comunque un prigioniero di guerra. Viene trasferito dunque, insieme agli altri, a Tilsit, dove non ha amici né divertimenti. Per sua fortuna da tre anni è entrato nella Massoneria prussiana di Berlino, la quale ha degli agganci anche in quella decisamente minore di Tilsit. Grazie a quella loggia diventa un massone a tutti gli effetti e come tale comincia a cospirare.
Siccome è anche molto furbo e coraggioso gli viene in mente di capeggiare un’insurrezione. Convince i suoi compagni prigionieri austriaci che le truppe prussiane sono in numero minore (non è vero) e che possono essere facilmente battuti (è vero). Infatti, alla testa di 30 uomini armati di spade e bastoni, ha la meglio sulla guarnigione prussiana che viene sopraffatta. Si parla di abilità da generale, i suoi lo osannano, ma lui non si monta la testa. In città si sparge il panico ma Gorani tranquillizza tutti: non vuole altro sangue, chiede solo di ricevere del denaro. Purtroppo per i prigionieri austriaci, l’esercito prussiano reagisce con veemenza e stronca la piccola resistenza. Per tutti arriva il processo, ma come al solito il giovanotto se la cava alla grande grazie alle usuali intromissioni di parenti, amici e massoni.

Molti cominciano a riconoscergli le qualità da leader, che in effetti abbondano. Sa parlare a tutti: sia ai soldati semplici che agli ufficiali. Sa comandare e farsi ascoltare. Ma sa anche ascoltare e riesce a far credere a tutti che i loro consigli siano importanti. E’furbo, Gorani, molto furbo. Però adesso arrivano anche i problemi familiari.
Nel 1763 è costretto a rientrare a Milano perché lo zio Belcredi ha venduto palazzo Gorani e le terre migliori: non solo, l’ha anche fatto diseredare. In pratica quello zio aveva sfruttato alcune conoscenze in città per togliere quel po’ di fortuna che rimaneva alla famiglia. Il povero ragazzo riceve anche il “benvenuto” della madre: “Hai la faccia da luterano”, così lo accoglie dopo sei anni di assenza.

Gorani vuole giustizia e va dal senato cittadino, ma naturalmente lo zio ha provveduto a corrompere chi di dovere. Tutto organizzato alla perfezione, ma lui non ci sta e fa un macello. Scaraventa addosso al senatore Cavalli un candeliere e un vassoio d’argento, lo insulta chiamandolo nepotista e poi sguaina la spada. Viene bloccato subito e disarmato: non conclude nulla e rimane senza un soldo.
Disperato, va a trovare il padre, che si trova in esilio a Vigevano. Probabilmente il vecchio genitore si rende conto di essere stato fregato dal fratello, ma non vuole ammetterlo. Il giovane Gorani gli chiede dei soldi e lui lo liquida con 42 pistole, aggiungendo una benevola benedizione. Nulla di più.
Non contento, ripiomba a casa della madre dove riempie di legnate il confessore, padre Perez, sfratta uno degli attendenti a calci e cerca di mettere le mani addosso allo zio-truffatore senza riuscirvi.
Infine manda al diavolo tutto il parentado dicendo che non lo rivedranno più.

Dopo le maledizioni familiari, arrivano quelle militari. Il 30 aprile del 1774 si dimette da ufficiale, fa un viaggio a Torino, poi va a Genova e si imbarca per la Corsica. Ha in mente un progetto folle: diventare re. Ha già previsto tutto, come racconterà poi nelle sue memorie. Gli “bastano” venticinquemila fucili con baionette, altrettante sciabole, venticinque cannoni, trentamila uomini. Spesa preventivata: 3 milioni di tornesi (moneta dell’epoca), da trovare in prestito o da chiedere a qualche buon finanziatore. Il viaggio tra Genova e la Corsica lo passa tra queste fantasie. Solo che nell’isola comanda Pasquale Paoli e il suo obiettivo è abbastanza irrealizzabile.

Però non si dà per vinto. Parte per cercare dei finanziatori. Prima va a Costantinopoli, poi in Bulgaria e in Grecia. Non trova nessuno disposto a finanziarlo: in realtà nemmeno lo ascoltano, o se lo fanno è per passare un quarto d’ora di risate. Così si sfoga viaggiando: torna a Genova, poi a Marsiglia, poi a Barcellona, Madrid, Nord Africa. Con che soldi, non si sa.
Dopo tanto peregrinare giunge in Portogallo, dove entra nell’esercito col grado di capitano e poi comandante della guardia reale con la fama di eroe della Guerra dei Sette Anni. Dopo pochi mesi però un ex-ufficiale austriaco lo accusa come oppositore del governo portoghese e quindi è costretto a scappare. Torna in Austria e ancora una volta la fortuna gli arride. La regina Maria Teresa lo prende come protetto e gli affida il compito di ambasciatore presso Genova: nel frattempo viene incaricato di svolgere una missione diplomatica dal principe di Liechtenstein presso le corti di Baviera, Palatinato e Wurttemberg.
Purtroppo, ancora una volta la sorte gli gira le spalle. E’il destino della sua vita: prima una botta di fortuna, poi una di iella. Questa volta Angelo Maria Durini, nunzio apostolico di Monza, si inventa che Gorani ha scritto una violenta satira contro la regina Maria Teresa. Non si fa neanche il processo: Gorani deve andarsene.

Torna a Milano, dove si rassegna a passare il tramonto della sua vita. Scrive un libro, “Il vero dispotismo”, che riceve i complimenti di Beccaria, Helvetius e Voltaire. Forse, la sua più grande soddisfazione. Per Gorani, il vero despota deve governare superando con la sua volontà le leggi scritte, ma sempre nel pieno rispetto delle libertà pubbliche e della proprietà privata.
I suoi interessi non sono solo letterari: disserta di concimazioni, sulla fabbricazione del formaggio, sulla pubblica educazione, si occupa di imposte e tasse. E’diventato un tuttologo. Intelligente, lo era già. Ora però si mette nella condizione di dimostrarlo.

E infatti entra nel circolo dei Enciclopedisti francesi a Parigi. Condorcet lo introduce, La Fayette e Talleyrand lo lodano. La rivoluzione lo affascina ma nel contempo gli fa paura. Vi aderisce comunque con entusiasmo, si iscrive alla società dei Giacobni.
Tra il 1792 e il 1793 pubblica le “Lettere ai sovrani sulla rivoluzione francese”, con lo pseudonimo di Emanuel Texeira, nelle quali carica di insolenze i regnanti e le loro corti. Poi svolge missioni diplomatiche in Olanda e Inghilterra. Svolge il compito di agente provocatore presso alcuni principi tedeschi.

Il 10 marzo 1793 viene scoperta la congiura di Danton, Marat e Robespierre che prevedeva l’eliminazione di migliaia di persone, Gorani compreso. I Girondini propongono di arrestare i congiurati e di metterli a morte, ma lui giudica tale misura troppo moderata: bisogna invece metterli tutti in un sacco e lanciarli nella Senna.
Gorani però è deluso dalla piega che sta prendendo la Rivoluzione. Se ne distacca pian piano, dopo che un suo progetto di costituzione viene bocciato.

Si stabilisce a Ginevra, dove continua a scrivere la sua autobiografia e una Storia di Milano niente male sia come stile che come veridicità.
Nelle sue Memorie chiama Madame de Stael “lunatica”, Marat “mostro”, Robespierre e Danton “dei perversi imbecilli che non significano nulla”. Ha già chiuso col suo tempo, col Settecento, col suo secolo. Il tempo degli avventurieri sognatori è finito da un pezzo. Muore il 13 dicembre 1819, alle otto del mattino, a Ginevra, in rue Basse-des Allemandsdessus numero 40, prossimo agli ottant’anni. Vissuti appieno, in maniera rocambolesca e senza rimpianti.