Vittorio Emanuele II
Vittorio Emanuele II

Quel 24 ottobre 1917 l’Italia trema: l’invasore austro-tedesco muove un attacco a sorpresa, alle due di notte, sfondando le nostre linee e macinando soldati durante la sua avanzata. I comandi militari vanno nel panico praticamente subito: Cadorna, Capello, Badoglio, Giardino e tutti gl’alti ufficiali non sanno più che pesci pigliare. Addirittura accusano le truppe italiane, che fino a quel momento avevano combattuto senza fiatare, di essersi arresi come dei vili. La situazione è in procinto di precipitare.
In questo articolo mi preme di analizzare ciò che successe dopo quella disfatta, in particolare la reazione del re Vittorio Emanuele, che obiettivamente fu l’unico rimasto davvero lucido. Si trattava di riunire i principali ufficiali alleati e, sostanzialmente, di elemosinare dei rinforzi. Tanti rinforzi. Come si vedrà un anno dopo, il suo ruolo fu fondamentale per mettere le basi per la riorganizzazione dell’esercito.

A PESCHIERA

La palazzina è ancora intatta, a Peschiera sul Garda, in Piazza della Rimembranza. Laddove si svolse il convegno militare e fu presa la storica decisione di resistere sul Piave ora sorge una lapide commemorativa. Se la si guarda oggi non si può rimanere impassibili. In quei momenti si decideva il futuro dell’Italia.

Molti ufficiali, soprattutto quelli dei gradi più bassi, sono convinti che bisogna attestarsi sul Mincio o addirittura sul Po, lasciando quasi tutto il Nord-Est agli Austriaci. Le loro ragioni sono validissime.
Primo: l’esercito è spossato dalle undici battaglie (inutili) dell’Isonzo, il morale è a terra e il rischio di diserzioni di massa è altissimo.
Secondo: gli Alleati non vogliono impegnarsi più di tanto in un settore minoritario visto che sul fronte che conta, quello tedesco, non riescono a riportare vittorie convincenti.
Terzo: il Parlamento italiano è in totale confusione e bisogna organizzare un rimpasto.
Quarto: arretrare significa dare il tempo di studiare una controffensiva adeguata.

Il re Vittorio Emanuele III, però, non è d’accordo.
L’otto novembre del 1917 fa un freddo cane a Peschiera. Il lago è plumbeo di morte, il cielo minaccia pioggia gelata e i contadini che il re incontra sul suo tragitto hanno le facce rassegnate di chi non ci crede più.
Alle undici del mattino il treno reale si ferma in stazione. A bordo, con Vittorio Emanuele, ci sono il presidente del consiglio Orlando, il ministro degl’esteri Sonnino e il ministro per l’assistenza alle truppe Bissolati. Devono incontrare le delegazioni inglesi e francesi scese nella penisola per rendersi conto della situazione tragica. Il 6 e il 7 gli Alleati si sono già riuniti a Rapallo e hanno già preso una decisione: rimuovere Cadorna, additato giustamente come il principale responsabile della sconfitta. Hanno anche deciso di darci alcuni rinforzi: otto divisioni (4 francesi e 4 inglesi). Il convegno di Peschiera deve servire a incontrare la personalità più importante, cioè il re, colui che deve dimostrare di essere lucido e di credere ancora alla vittoria.

Vittorio Emanuele arriva, come detto, alle undici. Non c’è nessuno a riceverlo. Nemmeno un carabiniere a fare da scorta: i comandi locali si sono scordati anche di fare arrivare uno straccio di macchina per scortarlo nella palazzina scelta come sede dell’incontro. Arrivano i francesi: loro sì, arrivano con le vetture. Si offrono di dare “un passaggio” al re ed ai politici italiani. Ci danno già la prima lezione di organizzazione.
Quando il re arriva nella palazzina c’è lo stesso gelo che si patisce all’esterno. L’edificio risale al 1854 ed è stato costruita dagli Austriaci (!) in stile neoclassico. I manutentori si sono dimenticati di accendere una stufa per riscaldare l’ambiente. Dalle finestre entrano gli spifferi, si vedono le cime nude degli alberi piegarsi al vento novembrino.
Nella sala deputata al convegno si trova un grande tavolo coperto da un panno verde: sembra che si debba giocare alla roulette. Vittorio Emanuele è furioso ma non lo dà a vedere. Con lui c’è il suo aiutante di campo, il generale Cittadini, anche lui stupito e infastidito dalla disorganizzazione. I due non hanno neanche il tempo di arrabbiarsi perché arrivano gli inglesi: Lloyd George, primo ministro, William Robertson (capo di stato maggiore) e i generali Smuts e Wilson. Immediatamente dopo ecco i francesi: Painlevè (il presidente), Henri Franklin-Bouillon (ministro della guerra) e il generale Foch, comandante in capo.

Si comincia coi saluti di rito, poi il re prende la parola. Il primo a parlare è lui perché gli Alleati vogliono sentire solo lui, e anche perché è l’unico che parla fluentemente sia inglese che francese.
Innanzitutto dice che ha già in mente di liberarsi di Cadorna e ha in mente il successore, cioè Armando Diaz. Gli Alleati (soprattutto Lloyd George) annuiscono soddisfatti.
Dopo di ciò, cerca di “giustificare” la disfatta. Dà la colpa alle brutte condizioni meteo di quella notte dove c’era scarsa visibilità dovuta alla nebbia. Questa giustificazione cozza con la realtà dei fatti: la nebbia di cui parla era solo in minima parte naturale, per la maggior parte era dovuta ai gas al fosgene che avevano ucciso sul colpo migliaia di soldati.
Poi aggiunge che moltissimi ufficiali di complemento erano troppo giovani per l’incarico, ma che si era stati costretti a promuoverli vista la scarsità di uomini e la necessità di mantenere pressione sul fronte dell’Isonzo.
Infine si arriva alla causa principale: il logorio delle truppe. Da anni i fanti si facevano macellare nelle trincee del Carso e della Bainsizza, e ne avevano abbastanza. Serviva cambiare tattica. Questa, forse, è stata la presa di posizione decisiva, quella che gli Alleati (soprattutto gli Inglesi) volevano sentire.
Menziona solo di striscio la propaganda antimilitarista di cui cianciava Cadorna, secondo il quale la sconfitta di Caporetto era naturale conseguenza. Lloyd George non vuole sentir parlare di codardia dei fanti italiani, di cui è sempre stato ammiratore: sa anche lui, benissimo, che fino a quel momento avevano combattuto sempre con fervore e coraggio. E infatti nell’esercito italiano ci furono pochissimi episodi di fucilazioni disciplinari, al contrario degli altri eserciti.
Chiarite queste cause, il re tace. Si è dimostrato concreto, assolutamente non retorico, calato nella realtà. Leonida Bissolati si sarebbe messo a piangere se avesse dovuto raccontare quei fatti. Orlando non sarebbe probabilmente neanche riuscito a spiccicare una parola.
Gli Alleati si dimostrano soddisfatti dei chiarimenti, così il re aggiunge una battuta azzeccatissima: “Alla guerra si va con un bastone per darle e con un sacco per prenderle”. Sorvoliamo sul fatto che a darle e a prenderle non fosse lui personalmente (ma neanche Orlando, Sonnino, Lloyd George, Painlevè e tutti quelli seduti nella stanza) ma i poveri soldati.

Lloyd George
Lloyd George

Lloyd George, convinto delle spiegazioni, si alza e gli stringe la mano. Così fa anche Painlevè. Alcuni ufficiali francesi sono dubbiosi, ma non dicono nulla perché i loro superiori hanno già deciso di dare fiducia all’Italia.
Ora però bisogna decidere dove attestarsi: il re risponde convinto “sul Piave, naturalmente”. Non accenna neanche ad altre soluzioni (il Po, il Mincio), va diretto dove vogliono i Francesi e gli Inglesi. L’esercito italiano si riorganizzerà subito e non cederà altro terreno, sostiene convinto.
Gli Alleati quindi gli confermano che forniranno otto divisioni di rinforzo sotto il comando italiano di Diaz. Seguono convenevoli e altre strette di mano e poi si va a pranzare, visto che si è fatta l’una e mezza.

IL GIOCATORE DI POKER

Bisogna ammettere che il re ha giocato alla grande le sue poche carte. Ha bluffato. Le cose vanno malissimo. Caporetto ha lasciato cicatrici immense sui soldati. L’esercito ha avuto decine di migliaia di morti, è stato perduto quasi tutto l’armamento, c’è una fiumana di gente che scappa dall’Isonzo verso il Tagliamento intasando le strade. Poi c’è un’enorme massa di soldati sbandati che non ha alcuna intenzione di tornare a combattere, né dopo un mese né mai. Gridano: “A casa, a casa, la guerra è finita”. Molti si tolgono i lustrini per non farsi riconoscere, vanno a rubare nei pollai, svaligiano le case, rapinano i civili.
E’un caos biblico. Cadorna non aveva mai preso in considerazione un piano di ritirata strategica. La sua fiducia nella vittoria era incrollabile e piuttosto infantile. Delle 45 divisioni che ripiegano dalla linea sfondata solo 15 possono essere considerate a malapena decenti.
Alcuni ufficiali si fanno prendere la testa e ordinano delle fucilazioni sommarie. Il “macellaio” più crudele è Andrea Graziani (che non è parente del gerarca fascista), nominato ispettore al movimento di sgombero: in pratica, ha pieni poteri di uccidere chi possa sembrare un disertore. Lui non si fa pregare e i suoi plotoni lavorano dalla mattina alla sera. In poche settimane l’esercito italiano recupera quello “svantaggio” di morti fucilati per diserzione che aveva sugli altri eserciti. Un triste “svantaggio”. Viene attaccato da molti giornali, primo dei quali l’Avanti, ma lui risponde che è necessario usare il pugno duro e che è meglio avere un medico severo perché guarisce il malato piuttosto che un medico buono che ne prolunga la malattia. Graziani, dopo un periodo nel partito fascista, morirà male e in circostanze sospette. Verrà ritrovato morto su un binario ferroviario della tratta Prato-Firenze con in tasca 4.000 lire in contanti e una busta con altre 1.500. La polizia non farà ricerche e la faccenda si chiuderà così.

Nello stesso momento in cui Vittorio Emanuele parla a Peschiera, Nitti sta trattando con il Vaticano perché il Papa chieda all’Austria una pace onorevole. I colloqui, rimasti segreti, erano stati già avviati qualche mese prima, ma dopo Caporetto divengono più intensi. L’Italia, per bocca di Nitti stesso, é disposta ad arrendersi subito senza dare retta alle pressioni degli Alleati: in pratica, chiede una pace separata.
Addirittura, nel marzo 1918, quando la resistenza sul Piave sta cominciando a dare i suoi frutti, sempre Nitti si incontra col cardinale Gasparri per sincerarsi che, in caso di nuova disfatta, la Santa Sede sarebbe intervenuta chiedendo a Vienna la pace.
Di queste trattative avvenute nel ’17 e nel ’18 il re, è dimostrato, non ne sapeva niente. Le avevano portate avanti alcuni ministri del governo ma soprattutto la stessa Chiesa, che aveva la volontà di chiudere la guerra a qualunque costo.

Luigi Cadorna
Luigi Cadorna

I SALUTI

A Peschiera ognuno pranza per conto suo. Il re si è portato i soliti panieri da picnic pieni di uova, salame, carne fredda, una bottiglia di vino, frutta. Finito di mangiare il treno con a bordo Vittorio Emanuele e i ministri riparte. Gli Alleati partono poco dopo.

C’è un’ultima incombenza che tocca al sovrano: comunicare il siluramento al generale Cadorna. A Padova, sede del comando supremo, Vittorio Emanuele lo incontra in un corridoio. Gli deve comunicare che è stato defenestrato e che gli è stato offerto un contentino nel Consiglio di guerra interalleato (quasi un insulto per lui, tronfio e borioso com’è).
Luigi Cadorna lo precede: “Maestà, il generale Porro mi ha avvertito che, o per imposizione degli Alleati o per idea del presidente del Consiglio, io sono stato destituito. Non vale dire che mi hanno offerto un posto nel Consiglio interalleato. Questa è una lustra. Io non accetterò mai quel posto”. Come volevasi dimostrare.
Il re rimane gelido: “Ha ragione”.
Cadorna rimane di sasso. Non se l’aspettava.