Sir Roger Casement
La madre era cattolica ma non bigotta: dopo aver fatto battezzare i quattro figli (Roger era l’ultimogenito), lasciò che venissero allevati nella fede protestante del padre.
Entrambi i genitori morirono prima che Casement avesse raggiunto i dieci anni, lasciandolo completamente nelle mani di alcuni parenti ferventi patrioti irlandesi.
All’epoca, lo ricordiamo, l’Irlanda era sotto il dominio britannico, odiato e vituperato dai veri Irlandesi.
Il ragazzo era intelligente e vivace, scriveva versi, leggeva di tutto, cantava con una bella voce da baritono. Era anche molto aitante, almeno a quanto lascia detto una sua cugina, Gertrude Bannister: “A 17 anni era alto più di sei piedi (1,83 metri), aveva occhi grigi e profondi, il viso piuttosto scarno, i capelli neri e ricci, dei bei denti, una carnagione chiara. Ogni volta che entrava in una stanza, la sua comparsa faceva apparire banali tutte le altre persone presenti”. Questa sorta di magnetismo era dovuto certamente alla sua bella presenza ed alla sua forte personalità, ma anche alla capacità di adattarsi benissimo ad ogni situazione sfruttandola a suo vantaggio.
Prima di raggiungere i vent’anni si trasferì a Liverpool, dove trovò lavoro in una compagnia di navigazione come impiegato semplice. Ma il lavoro a tavolino non era fatto per lui: riuscì così a farsi mandare nell’Africa occidentale, a Boma, come commissario di una nave della compagnia. Non soddisfatto di quel lavoro, passò tra i volontari di Stanley che stavano cercando di organizzare lo “Stato libero del Congo” , che all’epoca era un patrimonio personale del re di Belgio, Leopoldo II. L’obiettivo dell’organizzazione era utopistico: eliminare la schiavitù e dare potere alla popolazione locale. Casement trattava in particolare il settore dei trasporti: doveva andare in giro per il Congo a cercare luoghi adatti per la costruzione delle nuove ferrovie. Gli indigeni del posto, quando lo incontravano, rimanevano soggiogati dal suo modo di fare alla mano e nel contempo autoritario, ed immediatamente si fidavano di lui ciecamente. Lo chiamavano Monofuma, cioè “figlio di re” perché aveva un portamento regale che lo faceva somigliare ad un nobile o addirittura a un cavaliere errante.
Il giovane Roger Casement vedeva quei poveri selvaggi trattati con estrema durezza dagli Europei, ridotti in schiavitù perpetua nonostante fossero la stragrande maggioranza. La situazione era la stessa in tutta l’Africa, come abbiamo già avuto modo di vedere in altri articoli qui pubblicati.
Nonostante le chiare simpatie per i locali, riuscì a farsi assumere nel servizio consolare britannico: tra l’altro senza neppure sostenere il consueto esame d’ammissione. Venne dunque mandato nell’Africa Orientale Portoghese con il grado di console: mantenne l’incarico sino agli sgoccioli della Prima Guerra Mondiale e si comportò in modo molto differente rispetto ai suoi colleghi bianchi. Denunciò spesso le oppressioni e le ingiustizie cui erano soggetti i neri africani. In un rapporto inviato alla Corona Britannica scrisse che il Congo, in particolare, era un inferno: mutilazioni, genocidi, sfruttamento al limite del bestiale, deportazioni in massa di indigeni. Ci voleva coraggio per portare all’attenzione dei suoi superiori ciò di cui si macchiavano i Belgi. Casement denunciò tutto presentando anche dei documenti inoppugnabili e per questo venne onorato con la Commenda dell’Ordine di San Michele e San Giorgio.
Questa onorificenza non gli fece piacere. A quell’epoca nel suo spirito era già in atto quella battaglia interna tra patriottismo irlandese e fedeltà alla Gran Bretagna. Era ancora lontano dal Sinn Fein (anche di questo movimento abbiamo parlato in queste pagine) fondato nel 1902 da Arthur Griffith, ma comunque era attratto dalle idee patriottiche irlandesi. Alla fine decise di accettare la Commenda, ma quando arrivò il pacchetto coi lustrini non si degnò nemmeno d’aprirlo.
Altro travaglio interno alla sua personalità riguardava la sua vita sessuale. Celibe, ma bello, nascondeva con fatica le sue tendenze omosessuali. Sapeva che nell’Inghilterra vittoriana e post-vittoriana essere tacciato di omosessualità poteva significare perdere l’incarico e addirittura portare alla morte sociale. Ricordiamo che negli stessi anni Oscar Wilde diventava il bersaglio dei fogli scandalistici e satirici londinesi; il generale Hector Mac Donald (comandante della Highland Brigade nella guerra contro i Boeri del Sudafrica), accusato di sodomia, si era ucciso prima di andare a processo.
Casement viveva malissimo la sua condizione, e lo diceva chiaramente nei suoi scritti. Definiva l’omosessualità “terribile malattia” ed auspica che si trovino dei rimedi per combatterla e per curarla che non siano quelli della “legislazione criminale”. Con precisione meticolosa e al limite del maniaco elencava nei suoi diari gli incontri occasionali, i dettagli scabrosi e perfino i compensi dati ai suoi accompagnatori. Questi diari, conservati gelosamente in casa, risulteranno poi decisivi quando verranno scoperti.
Tra il 1904 ed il 1905 decise di cambiare zona: dall’Africa si spostò in Su America, precisamente in Brasile.
Anche in questi luoghi continuò la sua azione di denunzia contro gli sfruttamenti degli indigeni locali, in particolare ai danni degli indios dell’Amazzonia, sfruttati in modo sanguinario dalla compagnia inglese dislocata in loco per la coltivazione del caucciù. Casement, avendo preso parte ad una spedizione nel territorio amazzonico, rimase inorridito di vedere coi suoi occhi delle violenze ancora peggiori rispetto a quelle subite dagli Africani.
La sua denuncia fece rumore. Il governo britannico gli assegnò un’altra onorificenza (che fece la fine della precedente) ma non condannò nessuno sfruttatore, che come al solito è una razza destinata a passarla liscia.
Probabilmente schifato dall’ignavia del governo britannico, sicuramente ipocrita, si avvicinò ancora di più al Sinn Fein. Dal 1910, infatti, la Gran Bretagna prometteva di concedere un governo autonomo all’Irlanda: in realtà cercava solo di tenere buoni gli Irlandesi perché si stava preparando il campo per il conflitto mondiale.
Casement è il primo a rendersi conto che quella concessione è solo un contentino, e lo scrive con coraggio sull’Irish Review nel settembre del 1912: “Qui si pone l’interrogativo: non potremmo assicurarci migliori condizioni? La Germania non ci offrirebbe di meglio? L’Irlanda non sa di avere in mano le carte vincenti nella partita tra Inghilterra e Germania. Se saprà giocarle bene potrà assicurarsi una libertà mai neanche sognata fino ad ora”. Firmava con uno pseudonimo, naturalmente, ma molti si resero conto che a scrivere era lui.
Ora, qui è dubbio se Casement avesse o meno simpatie per i Tedeschi. Lui lo scrive: “Mi piacciono e credo in loro”. Noi, però, ne dubitiamo. Essendo uno spirito libero e antischiavista non poteva ignorare cosa avevano fatto in Africa. Fatto sta che si convinse di dover mandare giù un boccone amaro e dedicarsi alla causa della sua patria.
Nell’agosto del’14, all’inizio della Grande Guerra, si trovava negli Stati Uniti in cerca di sostenitori economici tra i discendenti degli emigrati irlandesi: una potente organizzazione, il Clan-na-Gael, lavorava per lui. A settembre si incontrò a Washington con l’ambasciatore tedesco Von Papen, che qualche anno più tardi diventerà un fedele servitore di Adolf Hitler. Quell’azione si configurava chiaramente come un alto tradimento nei confronti della Corona Britannica. Ma ormai aveva deciso: doveva portare il suo contributo alla causa irlandese e i Tedeschi erano le pedine fondamentali del suo gioco.
Il 15 ottobre si imbarcò su una nave norvegese diretta a Cristiania (l’odierna Oslo) con un passaporto falsificato. Purtroppo per lui, anche i muri avevano le orecchie: il console inglese in città, Findlay, lo scoprì e così Casement fu costretto ad uscire allo scoperto. Si dimise dall’incarico dando prova di grande dignità e coraggio. Gli amici di un tempo, tra cui Conan Doyle (il padre di Sherlock Holmes) pensarono che fosse in preda ad una crisi di follia passeggera e cercarono di indurlo a ripensarci, ma invano. La strada era tracciata e lui andava avanti come un treno in corsa.
Arrivato in Germania riuscì ad assicurarsi un trattato che per la prima volta nella storia moderna dava formale riconoscimento all’indipendenza dell’Irlanda. Obbligo degli Irlandesi, d’altra parte, era quello di fornire delle armate ai Tedeschi. E qui arrivarono le prime difficoltà. I soldati irlandesi non amavano l’Inghilterra, certamente: ma più ancora detestavano i Tedeschi. A nulla valsero le sue capacità di convincimento: i suoi compatrioti preferivano la dominazione britannica a quella del Kaiser.
Casement rinunciò quindi al primo obiettivo: quello di far combattere i suoi Irlandesi con i Tedeschi contro gli Inglesi. Si concentrò quindi sul “piano B”. Il Clan-na-Gael stava per dare il via ad una rivolta: la data concordata era la Pasqua del 1916. Chiese dunque all’ambasciatore tedesco di supportare attivamente quell’insurrezione, ma anche stavolta rimase deluso. I Tedeschi avrebbero fornito solo ventimila fucili e un carico di munizioni. Si aspettava ben altro, magari un intervento armato vero e proprio. Evidentemente in Germania non si credeva alla riuscita di una insurrezione vera e propria, così si scelse di lasciare a quegli Irlandesi l’iniziativa dando loro solo un minimo supporto. Se, in seguito, i Tedeschi avessero visto che quella rivolta diventava una cosa seria, sarebbero intervenuti sul serio con dei contingenti armati per appoggiarla. Ma gli alti ufficiali tedeschi erano comunque convinti che ciò non sarebbe accaduto: a loro importava solo tenere impegnati un certo numero di truppe britanniche per alleggerire la pressione sul fronte occidentale.
Casement continuò a sperare nell’aiuto tedesco ancora per qualche mese, poi si convinse che era tutto inutile. La rivolta, però, contava sull’aiuto tedesco: i tempi erano maturi e la gente voleva scendere nelle piazze. Non gli rimaneva che imbarcarsi in fetta e furia e cercare di convincere i suoi patrioti che bisognava far saltare il piano. Tentò quindi di avvertire il Clan-na-Gael tramite un cablogramma che però i Tedeschi ritardarono (loro sì che volevano a tutti i costi quella rivolta).
Roger Casement partì, con due compagni, su un sottomarino che li avrebbe sbarcati sulla costa ovest dell’Irlanda. Non sapeva che gli ufficiali tedeschi avevano dato l’ordine di ritardare anche quella missione: i tre irlandesi non dovevano arrivare prima del 20 aprile (Giovedì Santo). E infatti arrivarono molto più tardi. Il sottomarino giunse al largo di Tralee Bay nella notte tra il 20 e il 21 (aprile). Casement e i due compagni si diressero verso Banna Strand su un battello poco più grande di un guscio di noce, che prima venne rovesciato dalla furia delle onde e poi andò ad incagliarsi su un banco di sabbia.
Fradici e intirizziti, i tre procedettero a piedi in direzione di un rath, una vecchia fortificazione vichinga. Casement era sfinito: durante il tragitto marittimo era stato male e le fatiche dell’approdo gli diedero il colpo di grazia. I compagni decisero di lasciarlo nel fortino e di andare nel villaggio vicino a cercare aiuto. Purtroppo per loro vennero intercettati dalla polizia che li arrestò tutti.
Invano Casement cercò di convincere i poliziotti di essere uno scrittore uscito per una passeggiata. Indosso aveva un cifrario, dei diari e un biglietto ferroviario Berlino-Emden, il porto da dove era partito il suo sottomarino. La frittata era fatta.
Dal commissariato di Tralee lo portarono immediatamente a Londra, ma prima riuscì a far arrivare (tramite un cappellano, padre Ryan) un messaggio ai patrioti, nel quale si disperava perché non era riuscito a ottenere l’appoggio tedesco e quindi chiedeva di rimandare la rivolta. La missione del prete non riuscì perché arrivò troppo tardi. La domenica di Pasqua scoppiava l’insurrezione capeggiata da James Connolly del Sinn Fein: per cinque giorni gli insorti irlandesi tentarono di tenere testa ai Britannici, ma finirono per essere massacrati. I capi della rivolta finirono sotto corte marziale e giustiziati. Un fallimento.
A Londra si invocava la pena capitale anche per Roger Casement, che appariva come la mente dell’insurrezione fallita. Vero, l’aveva organizzata, ma poi aveva fatto di tutto per scongiurarla. La salvezza venne dal generale Maxwell, il quale dichiarò che solo la cattura di Casement aveva impedito alla rivolta di propagarsi anche nelle altre province irlandesi fuori Dublino (in realtà ci sono dei dubbi se effettivamente fuori dalla capitale si stessero organizzando delle proteste simili). Il governo britannico decise dunque di salvarlo dalla pena capitale e di mandarlo davanti ad un tribunale civile con l’accusa di alto tradimento.
Questa diversità di tradimento provocò la violenta reazione di un deputato irlandese fedele alla Gran Bretagna, John Dillon, che pretendeva lo stesso trattamento riservato a tutti gli altri insorti.
In realtà Casement stesso avrebbe voluto morire come i suoi compagni patrioti. In più sosteneva chiaramente che non aveva tradito nessuno: “Il tradimento è il crimine più odioso che ci sia. Il poeta Dante relegò i traditori, credo, nel nono girone dell’Inferno. Ma quale specie di traditori? I traditori dei re, della patria, degli amici e dei benefattori. L’Inghilterra non è la mia patria, e io non ho tradito né amici né benefattori”.
Ricevette anche l’appoggio di George Bernard Shaw, che lo paragonava a Garibaldi, e addirittura gli preparò un’arringa di difesa e gliela mandò via posta. Forse il commediografo aveva idea di trasformare il tutto in un immenso set teatrale. Il governo inglese voleva però una punizione esemplare: non poteva lasciare che tutto passasse in cavalleria.
Per Casement furono mesi difficilissimi. Ormai i suoi nervi avevano ceduto, era l’ombra di quell’uomo forte che aveva cercato di dare la libertà alla sua patria. Sapeva che il suo destino era segnato e infatti la sentenza fu di condanna.
Si risollevò solo per pronunciare il discorso di chiusura, quando gli chiesero se aveva qualcosa da dichiarare. Disse che era diritto degli Irlandesi battersi per un governo autonomo contro coloro che li opprimevano e verso i quali lui non aveva commesso alcun tradimento. “E’una posizione più coraggiosa, più saggia e più veritiera essere ribelli in simili circostanze, piuttosto che accettarle vilmente come se fossero il retaggio naturale degli uomini”.
La data fissata per l’impiccagione fu fissata per il 3 agosto del 1916. Ma un vasto movimento di protesta stava sollevandosi in suo favore. Proprio in quei giorni l’Austria giustiziava Cesare Battisti per motivi molto simili e la stampa inglese ne parlava con estremo sdegno.
A Londra fecero notare che la condanna a morte di Casement sarebbe stata uguale a quella di Battisti, cioè legalmente ineccepibile ma moralmente pericoloso per un’eventuale sollevazione popolare. Soprattutto, a Londra si temeva la violenta reazione degli Irlandesi d’America, quelli che avevano finanziato il moto insurrezionale. Gli USA non erano ancora scesi in guerra e una vicenda del genere avrebbe potuto trattenerli dall’intervenire. E l’intervento americano serviva agli Inglesi, eccome.
Però nella capitale britannica la voglia di condannare Casement era troppa. Uno dei consiglieri legali del ministro degli Interni, Sir Ernley Blackwell, ebbe l’idea di requisire i diari del condannato e di cercare al loro interno qualcosa di clamoroso per gettargli discredito addosso. Infatti, qualcosa fu trovato: anzi, molto. Il più vecchio risaliva al 1903, mentre i più recenti erano del ’13. Ecco le parole di Blackwell: “Negli ultimi anni Casement sembra aver completato il ciclo della propria degenerazione sessuale diventando, da pervertito che era, un invertito: una sorta di donna o di soggetto patologico, che deriva la propria soddisfazione sessuale nell’attirare uomini e indurli a fare uso di lui”. Tutti i retroscena della sua vita vennero fuori e trasmesse a chi di dovere, cioè il re Giorgio V, l’arcivescovo di Canterbury e l’ambasciatore americano. Quest’ultimo (il più importante di tutti) rimase “allibito dal loro carattere indicibilmente lurido”: la sua opinione pesò in modo decisivo per la sentenza finale.
Roger Casement, prima di morire, chiese di essere di nuovo battezzato con rito cattolico: voleva tornare alla fede della madre, che poi era la stessa dei suoi compatrioti. Fu accontentato. Ricevette il sacramento dal cappellano delle carceri di Pentonville, padre Carey, che poi lo accompagnò al patibolo la mattina del 3 agosto 1916. Il carnefice Ellis lo definì “l’uomo più coraggioso che io abbia avuto la sventura di dover giustiziare”.
Passarono 49 anni prima che la sua salma, riesumata dal cimitero della prigione, venisse restituita all’Irlanda (ormai libera) e sepolta con tutti gli onori vicino a Dublino alla presenza del presidente Eamon De Valera e di 30.000 irlandesi.