I MAS durante un'esercitazione
LE ORIGINI
A metà dell’Ottocento le navi militari cominciavano ad essere troppo possenti e poco adatte ad un certo tipo di navigazione, senza contare la minima manovrabilità in caso di battaglia. Sebbene gli incrociatori e le corazzate rimanessero delle unità fondamentali nell’ambito di una flotta, si iniziava a capire la necessità di programmare altri tipi di missioni belliche. I primi a comprenderlo appieno furono gli Austriaci nel 1860 ed in particolare il capitano di fregata Johann Luppis. Addetto al controllo delle coste dalmate per prevenire gli attacchi degli Italiani, egli ebbe la brillante idea di costruire una sorta di siluro primordiale, cioè una barchetta lunga circa sei metri, filoguidata da terra, contenente una carica che avrebbe detonato all’impatto contro la nave nemica che si fosse avventurata troppo vicino alla costiera.
Successivamente lo stesso Luppis trovò nell’ingegnere inglese Robert Whitehead, direttore dello Stabilimento Tecnico di Fiume, l’uomo giusto per sgrezzare questa nuova arma e renderla più performante. Ecco dunque nascere il primo esemplare di siluro: lungo 3,53 metri, diametro di 356 millimetri (più 50 millimetri di alette), peso 136 chili. Viaggiava a 6 nodi (pochissimo) e la corsa non superava le poche centinaia di metri. Un prototipo, un primordio, è vero. Ma sin dall’inizio si capirono le sue potenzialità.
In quel periodo, dall’altra parte del globo, durante la Guerra di Secessione Americana, si cominciarono ad utilizzare le navi torpediniere, dei piccoli scafi a vapore armati di una carica esplosiva applicata all’estremità di un’asta che sporgeva di qualche metro dalla prora. Per innescare la carica bisognava quindi portarsi vicinissimi allo scafo nemico, quindi sfidando la reazione di fuoco dell’avversario, senza contare che l’esplosione sarebbe potuta essere mortale anche per la nave che attaccava. Ed infatti le torpediniere venivano impiegate quasi esclusivamente di notte. Tra le azioni migliori c’è da ricordare l’affondamento della corazzata sudista Albermarle nel 1864: ma era un caso isolato. Quasi mai si riusciva ad arrivare a contatto con l’obiettivo e comunque il gioco non valeva la candela: il danno che derivava dall’esplosione spesso risultava di pochissimo rilievo.
Ecco dunque che l’introduzione del siluro al posto delle torpediniere diventa una rivoluzione copernicana. Si mette una distanza sicura tra l’attaccante e la “preda”. Si può impostare una rotta. Si può manovrare l’arma. Dall’inizio del Novecento comincia l’eclissi delle torpedini e inizia l’era dei siluri.
I MAS
Il 24 febbraio del 1912, la divisione del contrammiraglio Thaon di Revel, composta dagli incrociatori Garibaldi e Ferruccio, si presentò davanti al porto di Beirut, allora città-chiave dell’Impero Ottomano. Era in corso la guerra tra la neonata Italia e l’antico “colosso dai piedi d’argilla”, il millenario impero della mezzaluna. Nella darsena erano ormeggiati molti bastimenti mercantili, una corazzata e una torpediniera. L’ufficiale italiano intimò la resa dando tempo sino alle 9.30. Scaduto il termine, gli incrociatori della nostra marina fecero fuoco sulla corazzata, che però rispose al fuoco.
Nel timore di colpire anche i bastimenti, Thaon di Revel ordinò che venisse messa in mare una barca a vapore armata di due siluri (i progenitori dei nostri MAS), la quale si avvicinò e li scoccò dritti contro la carena della nave ottomana. In pochi istanti quest’ultima si inabissò.
A Beirut, quella mattina, nascono i MAS italiani.
Intuita la potenzialità dell’arma, la Regia Marina decise di investirci parecchio denaro. Bisognava però stare attenti. Le risorse destinate alla flotta non erano per nulla infinite: anzi, la maggior parte dei fondi militari andavano alle truppe di terra, che comunque denotavano una atavica mancanza di armi moderne (in molti casi si utilizzavano i modelli di fucili datati 1870). Ecco perché era necessario sviluppare subito un progetto credibile e in grado di dare dei risultati immediati. In poche parole: il progetto MAS doveva riuscire subito.
La Marina ricevette due progetti, uno dalla ditta Maccia Marchini di Carate Lario e l’altro dalla Società Veneziana Automobili Nautiche. Vinse il secondo, firmato dall’ingegnere Attilio Bisio. Questi motosiluranti vennero chiamati MAS, cioè motobarche armate siluranti. In origine il termine era femminile e infatti si diceva “le mas”.
I primi esemplari non soddisfecero in pieno le aspettative della Regia Marina. La velocità raggiunta doveva essere di 30 nodi, ma questi non arrivarono a 30. Per giunta i tubi lancia-siluri, disposti a poppa, comportavano difficoltà nel lancio. Infine, lo scafo lanciato a piena velocità risultava molto instabile.
Tuttavia, il 22 maggio del 1916 due MAS entrarono di prepotenza nella storia con una azione brillantissima portata a termine da Eugenio Trentin, che comandava il MAS 19. Il provetto marinaio italiano raggiunse nottetempo il golfo di Trieste, dove avvistò alcune luci nella rada. Fece fuoco con il cannone da 47 e al terzo colpo vide un incendio sul mare: era un idrovolante austriaco che bruciava. La marina austriaca fece uscire dal porto il motoscafo armato Leni, sicuro di trovare e punire l’aggressore, protetto dalle proprie batterie costiere. D’un tratto si udì il rombo del motore dei 450 cavalli del MAS 19 sfrecciante in mezzo alla gragnuola di granate che gli scoppiavano attorno. Con una manovra abilissima, Trentin raggiunse il motoscafo austriaco, lo abbordò e fece prigionieri i marinai a bordo.
Luigi Rizzo
Dopo questo episodio, i MAS divennero le armi del mare più temute dai nemici della Regia Marina. Gli ammiragli lo dicevano instancabilmente: “in Adriatico i MAS sono armi da utilizzare senza risparmio e senza tema di sacrifici quando ricorre il momento bellico opportuno”. E siccome il momento bellico ricorreva spesso grazie all’abilità dei nostri marinai, le vittorie dei motosiluranti italiani divennero innumerevoli.
La marina austriaca li vedeva come degli incubi. Per questa ragione tentò un’azione volta a catturarne qualche esemplare ormeggiato nel porto di Ancona, una delle principali basi di partenza dei MAS.
La torpediniera austriaca 26 rimorchiò nella notte del 4 aprile 1918 una motobarca con a bordo sei ufficiali e 55 marinai. Presa terra, per errore, a una ventina di chilometri dall’obiettivo, il distaccamento riuscì a entrare in porto, ma vi trovò solamente uno dei cinque MAS, visto che gli altri erano stati mandati in perlustrazione perché nel frattempo era stata ritrovata la motobarca. Alcuni marinai austriaci salirono anche sul MAS, ma non furono in grado di metterlo in moto. Dopo pochi minuti, comunque, arrivarono i carabinieri a bloccarli.
Il tentativo, piuttosto tragi-comico, fu lampante della inesperienza navale austriaca. Detto per inciso, quasi tutti gli ufficiali della Marina Asburgica erano di origine dalmata, quindi italiani fino al midollo. Erano i discendenti dei Veneziani che avevano colonizzato l’odierna costa slava: nelle loro vene scorreva il sangue di coloro che dominarono il Mediterraneo. Poi, dall’inizio del Novecento, molti dalmati vennero sostituiti da slavi, i quali di marineria poco sanno.
LE IMPRESE
Nonostante le buone prestazioni, quasi sempre figlie dell’abilità dei nostri marinai, raramente i MAS furono decisivi nelle battaglie. Il 9 dicembre 1917 invece lo furono, eccome. Lo furono dal punto di vista strategico ma soprattutto morale.
Poco dopo la disfatta di Caporetto, nel pieno caos susseguente al crollo del fronte, la Marina Austriaca volle dare il suo contributo alla spallata finale. L’obiettivo era Venezia. Le due navi da battaglia, vecchie ma ancora in ottimo stato, Wien e Budapest, scortate da 13 torpedinieri e 3 idrovolanti, cannoneggiarono la nostra base di Cortellazzo. L’attacco venne rintuzzato con parecchie perdite. L’azione simboleggiava il fatto che ormai l’Austria era in grado di arrivare a San Marco. Il contraccolpo sul morale italiano fu forte. I giornali cercarono di minimizzare, ma l’opinione pubblica informata vedeva nero. Serviva una vendetta.
La sera del 9 dicembre del 1917 il MAS 9 comandato dal tenente di vascello Luigi Rizzo e il MAS 13 comandato dal capo timoniere Andrea Ferrarini lasciarono Venezia trainati da due torpediniere. Nei pressi di Trieste entrambi i MAS vennero liberati dai traini e lasciati soli con la loro missione. Messi fuori uso i cavi metallici che delimitavano gli ingressi nel porto, dopo una trentina di minuti di ricerca trovarono le due corazzate Wien e Budapest, contro le quali lanciarono i loro quattro siluri. La Wien colò a picco in pochissimi minuti causando la morte di 46 persone. La vedetta si era compiuta.
Ancor più eclatante, anche se meno utile, fu la beffa di Buccari. Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1918 tre MAS compirono un’audacissima incursione nella baia di Buccari, cittadina dalmata a pochi chilometri a sud di Fiume. I protagonisti dell’impresa furono i MAS 94, 95 e 96, sui quali, tra gli altri, erano imbarcati il capitano di corvetta Rizzo, il capo flottiglia Galeazzo Ciano ed il maggiore Gabriele D’Annunzio (sì, quel D’Annunzio). I tre motosiluranti navigarono per oltre 90 miglia marine in acque nemiche passando dallo stretto canale della Farasina e poi nella gola che porta a Buccari. Il Vate affidò al mare tre bottiglie contenenti messaggi di scherno e sfida verso la flotta asburgica. Proprio in quell’occasione egli coniò il celebre acronimo Memento Audere Semper. MAS divenne simbolo di audacia, sprezzo del pericolo e vittoria italiana.
La nave austriaca Szent Istvan
I MAS NELLA MARINA MILITARE ITALIANA
In quasi tutti i porti (degni di un certo nome) italiani venivano impiegati i MAS. A Venezia, Porto Corsini, Otranto, Valona, se ne trovavano sempre. Erano raggruppati in sezioni, squadre e squadriglie. Nel 1918, quando il loro numero superò il centinaio, venne creato l’Ispettorato dei MAS, sotto la guida di Galeazzo Ciano.
Proprio per festeggiare la creazione di questo nuovo corpo d’armata venne organizzata la più grande impresa dei MAS. Ciano voleva che i suoi gioielli venissero visti non solo in grado di fare agguati o beffe, ma anche di infliggere notevoli perdite in mare aperto. L’occasione arrivò presto: gli Austriaci gliela porsero su un piatto d’argento.
La Marina Asburgica aveva preparato con la massima cura una grossa operazione che coinvolgeva due navi da battaglia modernissime, fiori all’occhiello della flotta austriaca: Szent Istvan e Tegetthoff. L’obiettivo era quello di forzare lo sbarramento al largo di Otranto utilizzando proprio queste due potenti unità navali, protette da 6 torpediniere ed un caccia. In più, l’azione prevedeva anche l’agguato di otto sommergibili fuori da Brindisi e due fuori dal porto di Valona, oltre che un massiccio attacco dell’aviazione. In pratica, una tripla azione imperniata sulla potenza di fuoco delle due navi da battaglia. Otranto, la meta designata, è la chiave dell’Adriatico meridionale. Mettere in ginocchio questo porto equivarrebbe a riaprire la guerra.
Nel pomeriggio del 9 giugno 1918 i MAS 15 e 21 comandati da Rizzo e Giuseppe Aonzo lasciarono Ancona per uno dei loro consueti agguati alla costiera dalmata. Alle 3,15 del giorno successivo Rizzo avvistò una grossa nube di fumo. Insospettito, si avvicina e avvista la flottiglia. Invece di dare l’allarme, si infila proprio in mezzo alla formazione e lascia partire due siluri che si vanno ad infilare nella pancia della Szent Istvan. Veloce come una pantera, il MAS fugge inseguito da un torpediniere che lo cannoneggia furiosamente. I suoi colpi però non lo sfiorano. L’abilità del marinaio italiano e la maneggevolezza del natante rendono inutili gli sforzi di inseguimento.
La Szent Istvan, gloria della marina austriaca, cala a picco alle 6,05. Muoiono 89 persone, 29 restano ferite.
La storia dei MAS nella Prima Guerra Mondiale finisce qui, in gloria.
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Con la smobilitazione seguita alla vittoria della Grande Guerra, si rallenta la produzione di MAS ma nel contempo di procede al loro perfezionamento. Il MAS 424 della Società Veneziana Automobili Nautiche arriva a toccare i 43 nodi. Quattro anni dopo il MAS 431 raggiunge i 45 nodi. Proprio quest’ultimo MAS servirà come prototipo per la creazione della serie “500”, di cui dal 1935 al 1941 entreranno in servizio 79 unità. Con uno di essi il tenente di vascello Eugenio Silvani battè i primati di velocità dell’ora, arrivando a 48,96 nodi.
All’alba della Seconda Guerra Mondiale la Marina italiana possedeva 65 MAS, di cui solo cinque “superstiti” del 1918. E fu proprio uno di questi “vecchietti” che (insieme ad altri quattro nuovi siluranti) l’8 aprile del 1941 si rese protagonista di una bella vittoria al largo di Massaua, in Eritrea. La squadriglia di MAS intercettò un incrociatore inglese, il Capetown (tonnellaggio 4190). Le unità italiane lo accostarono fino a trovare lo spazio per lanciare i siluri, nonostante delle ottime manovre inglesi di disimpegnarsi. I danni non furono notevoli, ma l’incrociatore di Sua Maestà dovrà essere rimorchiato a Port Sudan e poi a Bombay, dove rimarrà in riparazione sino al maggio del ’42.
Tuttavia fu un episodio eccezionale. I MAS agivano bene nel teatro limitato dell’Adriatico, con agguati e dimostrazioni plateali. Ma non potevano servire a molto nella nuova guerra ad ampio raggio. Tuttavia i loro comandanti, come disse D’Annunzio, “osarono l’inosabile”. Molte furono le perdite, tanto che la Marina decise di sospenderne la produzione, nonostante alcuni tentarono di modificarne la fisionomia. Cambiarono le mitragliere, alleggerirono il carico, li resero delle moto-cannoniere. Però il loro tempo era finito. La guerra di corsa, ottima nella Grande Guerra, era andata in soffitta con l’inizio del secondo conflitto mondiale. E’l’evoluzione dell’arte militare navale.
Le torpediniere dell’Ottocento avevano lasciato il posto ai MAS, i quali lasciarono poi il posto a natanti più leggeri come gli aliscafi lanciamissili. E soprattutto, quella era la guerra delle grandi navi, delle corazzate e degli incrociatori, combattuta nei grandi teatri degli oceani.
Eppure i MAS rimasero nella nostra storia militare perché le loro azioni furono lo specchio della abilità italiana nel trovare soluzioni ed ingegnarsi. I MAS furono il simbolo di una guerra navale combattuta da uomini e vinta da uomini, non da navi. Perché valeva ancora il vecchio adagio di Horatio Nelson: “Men, not Ships”.