Ponzio Pilato in un dipinto di Duccio di Buoninsegna
La sua vita affonda nella leggenda oppure è stata realtà? Governò davvero la Giudea e, se sì, in che modo? Chi era davvero?
Le indagini su di lui sono sempre risultate difficili, essendo le fonti molto limitate, per non dire nulle. Fino al 26 d.C., infatti, di Ponzio Pilato non si sa assolutamente niente. A quella data l’imperatore romano Tiberio lo nomina funzionario imperiale per la provincia della Giudea. Il Vangelo di Matteo fa un accenno al fatto che fosse sposato; una fonte scritta successiva ci informa sul nome della moglie, Claudia Procula.
E’ragionevole credere che Pilato facesse parte dell’ordine equestre, come tutti gli ufficiali romani del tempo. E’anche sensato supporre che egli agisse sia come procuratore (funzionario preposto alle questioni finanziarie) sia come prefetto (responsabile militare).
Pilato si trova dunque a governare la provincia, e la sua capitale (Gerusalemme) con pieni poteri. Ha diritto di vita e di morte sui suoi sudditi (lo ius gladis, o “diritto della spada”) e può battere moneta propria. I confinanti sono Erode Antipa, governatore della Galilea, e il procuratore della Siria. Da notare che, al tempo, la città più importante della Giudea era Cesarea, e non Gerusalemme.
Sin dall’inizio Pilato esercita le sue funzioni con totale mancanza di senso politico. Quando arriva al potere, nel 26, manda un distaccamento ad installarsi nei quartieri della città di Gerusalemme. La mossa si rivela subito sbagliata: i soldati entrano di notte e inalberano le insegne imperiali di Tiberio. Il gesto viene considerato dalla popolazione come provocatorio e quasi sacrileghi: la legge ebraica proibiva infatti il culto delle immagini, quali erano appunto le insegne dell’imperatore. Le autorità romane, pur avendo instaurato un regime piuttosto duro, hanno sempre rispettato quelle tradizioni legislative: in questo caso, invece, le contravvengono.
A fronte di quello che il popolo ebraico vive come un sacrilegio, Pilato viene investito da uno tsunami di proteste. Gli si chiede di far togliere i ritratti e le insegne di Tiberio, ma lui rifiuta con decisione. Probabilmente (e qui entriamo nelle supposizioni) Ponzio Pilato veniva da una regione molto lontana, magari dalla stessa Roma, visto che si permetteva di violare in questo modo le usanze locali. E, aggiungiamo, doveva essere anche abbastanza sicuro del proprio potere per permettersi di sfidare la gente del luogo.
Le proteste però proseguono per cinque giorni. Le fonti non ci aiutano, ma possiamo supporre che queste manifestazioni abbiano paralizzato la regione. Dobbiamo considerare che i Romani erano molto tolleranti verso i culti delle popolazioni soggiogate e probabilmente anche i soldati stessi vissero quei momenti con paura mista a solidarietà verso gli Ebrei oppressi. Furono proprio loro, a nostro giudizio, a chiedere di ritirare quelle insegne.
Pilato, a fronte di questa probabile richiesta, decide di continuare di testa sua: convoca una delegazione di Ebrei davanti al suo tribunale, che per l’occasione si trova nello stadio. Qui i questuanti si trovano circondate dalle guardie personali e capiscono di essere in trappola. Per tutta risposta, con coraggio, si gettano al suolo e offrono la nuca gridando che sono pronti a morire piuttosto che guardare calpestate le loro leggi. Questo episodio ci viene raccontato da Flavio Giuseppe nella Guerra Giudaica, la fonte storica principale a nostra disposizione sui fatti avvenuti in quegli anni in quelle provincie.
Pilato stavolta si convince: se quelle persone sono disposte a sacrificarsi per la loro religione, significa che sono degni di essere sudditi romani.
Una situazione analoga si verifica qualche tempo dopo. Gerusalemme va incontro, come tutta la regione, ad una stagione di siccità. La città non ha un acquedotto e dunque Pilato ne ordina la costruzione. Arrivato quasi alla fine, rimane senza denaro. Decide così di utilizzare i tesoro del Tempio per l’utilità pubblica. Il gesto, in sé, non viene condannato dagli Ebrei. Anzi, gli stessi sacerdoti si offrono di elargirne una parte. Pilato, però, lo pretende tutto, e questo innesca la rivolta della comunità ebraica. Incurante delle proteste, il tesoro viene trasferito nelle casse imperiali ed utilizzato per terminare l’acquedotto. Se poi alcuni di questi denari siano stati sottratti fraudolentemente da qualche funzionario romano, questo non si sa.
Ecco dunque che gli Ebrei circondano il tribunale: Pilato però ha previsto tutto ed ha già fatto circondare i perimetro dalle sue guardie. Oltre a ciò, ha già fatto mischiare i suoi soldati (muniti di spade e bastoni) con i rivoltosi. Al segnale convenuto, scatta la repressione violenta: sul selciato rimangono centinaia di persone innocenti.
Brutalità, mancanza di diplomazia, assoluta ignoranza delle leggi, superficialità. Ecco le caratteristiche che vengono fuori della personalità di Ponzio Pilato.
Infine, arriviamo al vero “problema” politico che dovette affrontare: quello riguardante Gesù.
L’unica fonte storica degna di nota è Tacito: “Gesù Cristo è stato consegnato al supplizio sotto il regno di Tiberio per mano del procuratore Pilato”. Poi, dobbiamo affidarci ai Vangeli.
Gesù viene condotto di fronte a Pilato che risiede nell’antico palazzo di Erode il Grande, sulla collina occidentale di Gerusalemme. L’accusa è grave: dice di chiamarsi “Messia” e di creare scompiglio nella nazione con il suo predicare. In questo caso il processo è d’obbligo. Il governatore deve intervenire di persona: dall’interrogatorio però non scaturisce alcun elemento che comporti la condanna. Pilato, a quanto possiamo intuire, non ha alcuna intenzione di condannare Gesù. Lui, da buon funzionario pratico, non ha paura di quell’uomo che con la sua predicazione non ha mai sollevato rivolte. Lo vede solo come uno dei tanti religiosi che cercano di fare proselitismo.
Decide quindi di “lavarsene le mani” spedendolo davanti al tetrarca Erode Antipa, asserendo che in quel caso la decisione compete a lui: il tentativo di scarica-barile però non riesce e Gesù viene rimandato nuovamente davanti a Pilato., il quale ora è costretto a decidere il da farsi. Le alternative sono due: rilasciarlo o condannarlo a una punizione esemplare. Sceglie la seconda opzione, che gli permette di far rispettare la legge senza commettere un omicidio inutile.
Inoltre, gli si presenta l’occasione di fare della demagogia politica associando la folla alla propria decisione. Infatti quella stessa folla sta chiedendo a gran voce la liberazione di un prigioniero in occasione della Pasqua ebraica, secondo l’antico costume. Siccome (come abbiamo capito) gli Ebrei alle usanze ci tengono parecchio, ecco l’occasione di prendere sue piccioni con una fava.
Propone quindi alla folla di rilasciare Gesù commutando la sentenza di punizione corporale in una assoluzione popolare che avrebbe fatto contento il popolo.
La situazione però si complica perché in quello stesso momento c’è un altro condannato che attende la sentenza: Barabba, il quale ha fomentato una rivolta durante la quale è stato ammazzato un uomo. Ora, dal punto di vista di Ponzio Pilato, la scelta di chi liberare è logica: Gesù, naturalmente, visto che Barabba è chiaramente pericoloso per l’ordine pubblico che lui deve mantenere.
Dando per scontata la decisione, chiede dunque alla folla se liberare Gesù o Barabba. Sappiamo tutti come va a finire. Inaspettatamente, la calca urla “Condanna a morte Gesù e libera Barabba”. Pilato formula la domanda una seconda volta: stessa risposta. Tenta ancora una terza volta, ma addirittura la folla grida “Crocifiggilo”, praticamente decidendo da sola la condanna a morte di Gesù.
Pilato protesta e afferma chiaramente: “Non ho trovato niente in lui che meriti la morte. Gli infliggerò dunque un castigo e lo lascerò libero”. Ma la folla continua a chiederne la morte, così egli si trova tra incudine e martello. Uccidere un innocente o rischiare una rivolta?
La scelta è quella di uccidere l’innocente. Pilato si arrende al volere del popolo. In conformità agli usi romani, il condannato viene prima flagellato. Dopo la flagellazione, lo stesso Pilato fa un ultimo, estremo, tentativo di salvare la vita a Gesù: “Ecce homo”. Ma davanti alle urla ostili della folla impazzita, unite alla minaccia “Se lo liberi non sei amico di Cesare”, decide di farla finita e cedere.
Questo l’episodio narrato dai Vangeli. Ciò che accadde davvero, non si potrà mai saperlo. Intuitivamente, Pilato si comporta da buon politico romano agendo con giustizia. Si accorge dell’iniquità della condanna, ma teme una sommossa popolare. Il suo incarico avrebbe vacillato se si fosse verificata una rivolta. Ecco dunque perché scelse di condannare un innocente alla croce. Alla fine, tuttavia, lascia quella folla con un gesto provocatorio: prende dell’acqua e si lava le mani dicendo: “Sono innocente di questo sangue. E’affare vostro”.
Verso la fine del 36 Pilato lascia la Giudea e giunge a Roma dopo la morte dell’imperatore Tiberio (datata 17 marzo 37). Quello che accade di lui dopo, non ci è dato sapere. Esce ufficialmente dalla Storia per entrare nella leggenda.
Gli scrittori e gli storici cristiani successivi si dividono sul suo giudizio. Nei primi due secoli dopo Cristo, i primi apologisti (Giustino e Tertulliano) cercano di minimizzare il ruolo avuto da Pilato, anzi provano anche ad assolverlo, dando tutta la colpa agli Ebrei che avversavano Gesù. Dal IV secolo in poi, invece, la tendenza cambia e spuntano numerose “sorti” di Pilato.
La prima e più famosa lo vede condannato a morte da Caligola, successore di Tiberio, nel 37. Secondo un'altra versione, Pilato muore suicida per evitare l’onta della condanna. Altri scrittori cristiani lo fanno morire a Vienne in esilio. Alcuni addirittura raccontano che si suicida come un vile per evitare le torture cui è condannato: il suo corpo impuro viene trasportato da Roma a Vienne e qui gettato nel fiume Rodano; le acque però lo rifiutano e lo rigettano nel lago di Ginevra. Anche qui il cadavere non trova pace: alcuni pescatori lo ritrovano e lo buttano in un pozzo profondissimo, che ancora oggi viene visto ribollire a causa di qualche maleficio demoniaco. Quest’ultima versione è la più dura: una specie di damnatio memoriae.
La ragione per cui gli scrittori cristiani prima hanno assolto e poi condannato Pilato è semplice. Nei primi secoli i Cristiani dovevano dare tutte le colpe agli avversari di Gesù e nel contempo non indispettire le autorità romane. Dal IV secolo, invece, l’Impero Romano diventa cristiano e quindi non hanno più da temere nulla. Anzi, bisogna mostrare che quello di Pilato è stato un crimine di un pagano, di un uomo che rifiutava il vero Dio, il Messia.
Depurato della leggenda e delle credenze religiose, di Ponzio Pilato rimane ben poco. La sua vita ruota attorno a quell’episodio. Impossibile stabilire dove la verità finisce nella menzogna, dove la realtà si unisce al mito. Certamente rimane un simbolo di “diplomazia” negativa, sinonimo di incapacità di prendere decisioni. Impossibile dire se la Storia riuscirà, un giorno, a fare giustizia del suo nome svelando come sono andate davvero le cose. Ma, forse, non è comunque necessario. Pilato rimarrà sempre “colui che se n’è lavato le mani”.