Sacco e Vanzetti
Faceva lo scaricatore di porto presso un pescivendolo di Plymouth, nel Massachussetts, laddove era attraccata la Mayflower, la nave dei Padri Pellegrini, i fondatori degli States.
Ferdinando Sacco aveva l’espressione malinconica e paziente degli uomini venuti in America dal sud Italia, gl’occhi nerissimi e profondi, la fronte quadrata, la mascella tagliata da una bocca sottile e reticente. Vestiva con decoro e personalità, pur essendo anch’egli un popolano. Lo stile era quello di un borghese, seppure con i tratti somatici dell’uomo abituato a lavorare quattordici ore al giorno.
I POPOLANI
Vanzetti nasce a Villafalletto nella Val Maira, in provincia di Cuneo. Cresce in una famiglia di solide tradizioni cattoliche, quasi bigotta. Il padre aveva cercato inutilmente fortuna nel Nuovo Mondo, e vi era tornato con pochissimi soldi e tante speranze infrante: soprattutto, la convinzione che oltreoceano non c’era quel mondo felice di cui molti parlavano. Agli inizi del Novecento italiano, una storia come tante.
Dunque, il giovane Bartolomeo Vanzetti deve cominciare a lavorare sin da giovanissimo: a tredici anni si guadagna da vivere come garzone, prima a Cuneo, poi Cavour, Torino e Courgné. La paga è scarsa, la fatica tanta. In più lui si aggrega a certi gruppi anarchici che non lo instradano certo per le rette vie. Niente di che, anche perché Cuneo non era Milano, né Roma o neppure Torino. Le sue idee sono vagamente “sovversive”. Lui le esterna di rado, ma tanto basta per venir marchiato, in una società chiusa e provinciale, come un anarchico bell’e finito.
Giocoforza deve cercare fortuna altrove, cioè negli States. Della lingua inglese non conosce una sillaba, non ha alcuna qualifica professionale, però ha voglia di lavorare e faticare, e tanto basta. Fa lo sguattero, poi il bracciante, poi il manovale, poi il facchino, infine lo scaricatore al porto di Plymouth: è il lavoro “buono”. Finalmente la situazione migliora, tanto che il giovane Vanzetti ha anche dei soldi per comprare qualche libro. E’un autodidatta, la sua cultura è da università popolare. Però mostra un profondo desiderio di imparare, di conoscere. La maggior parte del tempo libero lo passa a leggere. Sarà la sua rovina.
Si imbranca con un gruppo di italiani dalle chiare idee anarchiche che si riunisce in una baracca nella periferia di Bridgewater, quindici chilometri fuori Boston. Discutono di Bakunin, Kropotkin, Marx. Cosa si dicano, non è dato sapere. Probabilmente tutto e il contrario di tutto. Le idee di questi popolani migranti rimangono nebulose, questo è sicuro. Però su Vanzetti fanno presa, tanto che si mette a distribuire materiale di propaganda pro-socialismo. La polizia americana lo tiene d’occhio.
Nel 1917, in piena guerra mondiale, viene chiamato a prestare il servizio militare per la patria. Scappa in Messico. Non perché ha paura (almeno questo dice lui), ma perché le sue idee gli impediscono di servire qualunque nazionalismo. Rientra negli Stati Uniti solo a conflitto concluso e ricomincia la vita di prima, tra pesce, libri e riunioni pseudo-sovversive.
Sacco nasce a Torremaggiore, vicino a Foggia, nel 1891, in una famiglia poverissima e numerosissima, cioè la tipica famiglia del sud. Ha miglior fortuna di Vanzetti: forse perché il suo carattere è meno spigoloso. Si sposa, ha due figli, fa l’operaio in un calzaturificio di South Stoughton, una cittadina non lontana da Boston, e guadagna un buon stipendio. Lui non è un anarchico, né un “rosso”: non lo è mai stato, non è mai stato niente di politico. Però conosce Vanzetti, in Messico, dove anch’egli è fuggito per beffare la Prima Guerra Mondiale. Forse ne rimane soggiogato, forse in lui trova una figura paterna, forse semplicemente trova qualcosa in cui credere oltre al lavoro. I due discutono i diritti, libertà scioperi, rivoluzione.
Ecco, fermiamoci e fotografiamo la situazione al 20 aprile 1920. Sacco e Vanzetti non sono ancora due icone dell’ingiustizia americana. Sono semplicemente due migranti italiani con idee sovversive mai realizzate.
Il 20 aprile del 1920 avviene una rapina a South Braintree, un centro abbastanza grande (allora contava 15.000 abitanti) a una ventina di chilometri da Boston. Detto per inciso, siamo in piena “emergenza” gangster italiani. Alle tre del pomeriggio due dipendenti del calzaturificio “Slater and Morrill”, Frederick Parmenter (il cassiere) e Alessandro Berardelli (la guardia del corpo), stanno portando nella ditta la cassetta col denaro per pagare gli operai: 15.776 dollari e 51 cents. Sono a piedi, sorpassano (senza notarli) due tipi fermi davanti allo stabilimento “Rice and Hutchins”: entrambi portano un berretto, sono bassi di statura e dai capelli scuri. In un lampo i due sconosciuti lasciano partire una serie di revolverate che freddano Parmenter e Berardelli. Sopraggiunge un’automobile che recupera i due killer e la cassa col denaro, partono sgommando e sparando sulla folla terrorizzata. Una scena da film, com’era uso in quegl’anni in America.
Uno dei presenti ha preso la targa della macchina dei banditi: 49783. E’una Buick, una delle prime vetture “di massa” utilizzate negli States, uscite dal ventre della Motor City, Detroit. I testimoni parlano di cinque persone, quindi i due killer più tre complici. L’esame dei proiettili viene effettuato con meticolosità: i bossoli appartengono a due Peters, un Remington, un Winchester.
Le indagini vengono affidate a Michael Stewart, comandante del distretto di Bridgewater da cui dipende la cittadina di South Braintree. Egli sta indagando da parecchie settimane su un’altra rapina, effettuata in modo molto simile il 24 dicembre del ’19: in quel caso, per fortuna, non vi furono vittime e i banditi se ne andarono a mani vuote. I furfanti? Sempre descritti come bassi e dai capelli scuri.
Il poliziotto Stewart, americano fino al midollo (uno di quelli che si identificherebbe come WASP), deduce che i banditi siano per forza italiani. Gangsters italiani. Cioè la feccia degl’immigrati. Che si merita di essere rispedita in Italia o, meglio ancora, fritta sulla sedia elettrica.
Stewart tiene d’occhio da due anni un anarchico, Ferruccio Coacci, incolpato di diffusione di stampa sovversiva. Il 17 aprile la polizia rinviene la Buick della rapina accanto alla casa dove abita Coacci con un altro italiano, Michele Boda. L’autovettura viene portata da un meccanico, e la sera del 5 maggio si presenta proprio Boda a ritirarla. Insieme a lui ecco tre loschi figuri, uno coi folti baffi spioventi. La moglie del meccanico, insospettita, telefona alla polizia. I quattro fiutano il tranello e fanno per andarsene, ma gli agenti li anticipano e riescono ad arrestarne due. Li portano in guardina e li perquisiscono. Gli trovano addosso una rivoltella Harrington and Hutchinson calibro 38 con cinque colpi nel tamburo, una Colt calibro 32 con otto colpi nel caricatore e addirittura una trentina di cartucce. Armati fino ai denti. Quei due si chiamano Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco.
Il giudice Frederick Katzmann
GLI INDAGATI
I due vengono interrogati. Anzi, vengono torchiati. Cadono in mille contraddizioni e incongruenze. Hanno paura, quindi straparlano. Negano di conoscere Boda quando gli stessi poliziotti li hanno visti insieme due ore prima. Vanzetti dice che la pistola gli serve perché è un commerciante: e invece, come abbiamo visto, è uno scaricatore di porto. Sacco dice di essere armato perché “il mondo è pieno di gente poco raccomandabile”. In più afferma che il giorno 15 aprile, il giorno della rapina, era al lavoro. Non è vero: la polizia ha già accertato dai registro che era assente. Contraddizioni su contraddizioni.
Difficile indovinare quanto siano stati “instradati” dalla strategia degli inquirenti e quanto siano andati in confusione.
La faccenda, però, si fa seria. Vengono convocati alla stazione di polizia alcuni dei testimoni della rapina. Quasi nessuno li riconosce. Solo l’agente Bowles (che aveva assistito alla rapina di dicembre, non quella di aprile) vedendo Vanzetti esclama “E’lui!” per via dei baffoni. Solo che, subito dopo la rapina, lo stesso Bowles aveva descritto uno dei rapinatori con due baffetti, con dei baffoni. Ma tant’è, Vanzetti viene identificato come uno dei banditi.
Quindi, dalla prima rapina, quella di dicembre, si passa ad accusare i due italiani anche della seconda, quella di aprile. Automaticamente. Eppure, al processo che si apre il 31 maggio del 1921, molti testimoni giurano di aver visto Vanzetti al banco del pesce il maledetto giorno della rapina. Queste testimonianze non vengono tenute in conto. Contro di lui non si trova uno straccio di prova, ma egli è un anarchico, un sovversivo, e quindi potenzialmente capace di commettere un reato simile. E siccome non si trova nessun altro, si monta il caso.
Il pubblico accusatore, Frederick Katzmann, e il giudice, Webster Thayer, sono convinti (e lo dicono apertamente) di essere convinti di aver identificato i due killer in quegli italiani ai quali non viene fornito neanche un traduttore e quindi rispondono alla bell’e meglio, spesso senza capire le domande.
Il dibattimento diviene una farsa che si conclude senza sorprese il 14 luglio del 1921. Sacco e Vanzetti sono condannati a morte.
I MARTIRI
Comincia da qui una serie di ricorsi e controricorsi, di sospensioni e tentativi di revisione, che logorerà i due poveri migranti per altri sei anni, sino al 23 agosto del 1927, giorno dell’esecuzione della sentenza. La domanda di grazia era stata rigettata pochi giorni prima da Alvin Fuller, governatore del Massachussetts.
Entrambi morirono da forti. Sacco disse: “addio moglie mia, addio figli miei”. Vanzetti pronunciò un discorso: “voglio dirvi che sono innocente. Non ho commesso alcun delitto. Qualche volta ho peccato, ma non ho mai commesso delitti. Desidero perdonare le persone che mi hanno fatto del male”. Quando stavano per immettere la corrente, gridò “Viva l’anarchia”.
Due furono i fatti che pesarono sulla condanna annunciata di Sacco e Vanzetti.
Primo e più importante: erano italiani, cioè in quel periodo considerati feccia, gangster mafiosi, quindi capaci di commettere qualunque nefandezza. Al posto dei veri colpevoli, eccone due da buttare alla gogna in un processo lungo e politicizzato. Anche perché, oltre che italiani, erano pure anarchici. Due piccioni con una fava da carbonizzare sulla sedia elettrica.
Secondo: entrambi avevano disertato. Erano fuggiti in Messico mentre gli Americani combattevano una guerra micidiale, tra il fosgene e le trincee. Per gran parte dell’opinione pubblica meritavano di morire solo per quello.
Un’ultima puntualizzazione. I colpevoli, quelli veri, li aveva tirati fuori Celestino Medeiros, un bandito che in carcere aveva confessato di essere uno degli autori della rapina dell’aprile 1920. Questi negò categoricamente di conoscere Sacco e Vanzetti. Medeiros faceva parte di una banda di delinquenti comuni italiani, capeggiata dai fratelli Joe, Mike, Patsy, Butsy e Fred Morelli. Dichiarò e provò di aver egli stesso depositato in banca duemilaottocento dollari. Affermò che il capobanda era Joe Morelli e ricostruì in modo preciso la dinamica della rapina. Ebbene, né il giudice né la corte tennero in conto le affermazioni di Medeiros.