La famiglia di Carlo IV, dipinto di Goya
Egli riuscì a imprimere nelle sue tele i protagonisti, gli eventi, i massacri di quella guerra che incendiò la penisola iberica per sei lunghi anni. In particolare un quadro è divenuto famoso e oltremodo simbolico: “La famiglia di Carlo IV”. In esso viene rappresentata con efficacia ed impietoso realismo la decadenza fisica dei regnanti di Spagna, i Borbone, dal patriarca ai figli. Si notano le caratteristiche di una nobiltà inutile, ormai obsoleta, senza vigore: il labbro inferiore cadente, lo sguardo vuoto, l’espressione stupida, la degenerazione, la torbida sensualità. C’è il vecchio Carlo IV che dedicò sempre le sue pochissime energie alla caccia. C’è la regina Maria Luisa, succuba del suo favorito, Manuel Godoy, a sua volta ritratto nel quadro. C’è il principe delle Asturie, nemico della madre e ansioso di scalzare il padre dal trono. In quest’opera di valore inestimabile sia a livello artistico che a livello di “denuncia” si capisce la vera condizione dei nobili di quel periodo dominato da un solo, grandissimo, uomo: Napoleone Bonaparte. Eppure proprio nella Spagna dominata da questi regnanti inebetiti egli trovò pane per i suoi denti.
LA GUERRA DI SPAGNA
Nell’autunno del 1807 Carlo IV sembra aver assicurato la sua leadership (debolissima) contro le mire di Napoleone, all’apice della sua potenza, con un trattato firmato a Fontainebleau. Gli Spagnoli sono alleati dei Francesi nelle guerre contro l’Europa anti-napoleonica. Hanno condiviso la loro sorte nella battaglia navale di Trafalgar e paiono alleati fedeli.
Napoleone ha bisogno di scacciare dal trono i regnanti del Portogallo, storici alleati degli Inglesi. Bonaparte vi manda un corpo d’armata al comando di Junot e Gioacchino Murat, che per arrivare in Portogallo deve per forza passare dalla Spagna. Proprio Murat ha il compito segreto di spaventare Carlo IV e la sua famiglia inducendola ad abdicare come avrebbero fatto, di lì a poco, i sovrani portoghesi, fuggiti nei loro possedimenti in Sud America.
Carlo IV avrebbe una gran voglia di andarsene e spianare la strada ai Francesi, ma il figlio si oppone suscitando un moto popolare di protesta anti-francese, arrivando a prendere il trono col nome di Ferdinando VII e quindi detronizzando il padre. Il nuovo re, essendo sempre un Borbone e leggermente più sveglio del padre, diventa un pericolo per Napoleone. L’imperatore però reagisce con furore mandando altri rinforzi in Spagna e, grazie all’abilità di Murat, diviene padrone anche della penisola iberica. Il trono spagnolo rimane vacante e lo stesso Murat sente di essere il favorito per ottenere quella corona. Nel momento in cui entra trionfante a Madrid, tuttavia, si accorge che il popolo spagnolo non è della stessa pasta dei suoi ex-regnanti. Quel popolo stava dalla parte di Ferdinando perché aveva scacciato Carlo IV, considerato giustamente un debole inetto da tutti gli Spagnoli, sia nobili che borghesi che contadini.
Dalle montagne della Guadarrama agli altipiani delle Castiglie si organizza la resistenza. Nella capitale la rivolta scoppia furente il 2 maggio1808: i soldati francesi vengono sgozzati, massacrati, si infierisce sui loro cadaveri tanto è l’odio che scorre nelle vene degli Spagnoli. Nel sobborgo di Manzanares gli insorti addirittura entrano in un ospedale e uccidono duecento malati innocenti. Murat, alla testa della sua cavalleria, riesce a rintuzzare l’insurrezione, ma paga un enorme costo di uomini. Tuttavia non riesce a debellare completamente l’insurrezione.
Napoleone, che ha una fiducia illimitata in Murat, crede invece che la situazione sia tornata alla quasi normalità e nomina re di Spagna il fratello Giuseppe Bonaparte. Murat ci rimane malissimo anche se gli viene promesso il regno di Napoli. E proprio questo errore strategico si rivela decisivo. Il grande imperatore non sbagliava mai a scegliere gli uomini: stavolta invece steccò in modo plateale. L’uomo giusto per tenere a bada gli Spagnoli era Murat: aveva un fascino virile, energia, vitalità, capacità di imporsi. Il povero Giuseppe Bonaparte, invece, era un debole al pari del vecchio re Carlo IV.
Napoleone Bonaparte
Gli effetti della decisione sono devastanti. L’esercito si ribella e si sfalda: numerosi reparti, tra cui i mercenari svizzeri e tedeschi, disertano e passano con i ribelli spagnoli. Non possiamo sapere se in queste diserzioni c’è stata la mano di Gioacchino Murat. Probabilmente sì, ma non è questa la sede per aprire dibattiti ipotetici.
Il popolo spagnolo ha il suo esercito, i suoi Guerrilleros. Dai monti alle città si combatte furiosamente. Il clero iberico sostiene la ribellione in difesa del trono dei Borbone e di Ferdinando. Nel sud, a Baylen, le truppe spagnole regolari costringono alla resa il generale Dupont. Più di 19.000 soldati francesi si arrendono senza combattere e vengono presi prigionieri. In un primo tempo sono trasferiti a Cadice, poi sull’isolotto di Cabrera, una landa desolata nelle Baleari dove vivranno per sei anni abbandonati da tutti, senza cibo e con pochissima acqua. Seminudi, divenuti quasi dei selvaggi, si scannano e si mangiano tra di loro. Solo nel maggio del 1814, quando Napoleone è già sull’isola d’Elba e i Borboni sono tornati sul trono, arrivano delle navi a salvare quei pochi ancora in vita.
Nell’autunno del 1808 arriva Napoleone stesso con un esercito regolare formato da coscritti: riesce a forzare il passo di Somosierra, nella catena della Guadarrama, solo grazie al sacrificio della formidabile cavalleria polacca che carica le batterie messe a sbarrare il valico.
I guerriglieri però sono ormai dappertutto e lo stesso Bonaparte si rende conto coi suoi occhi della situazione. Dappertutto, nella Spagna che si ribella, i Francesi vengono visti come il fumo negli occhi. I generali e i dignitari che dovranno formare la corte di Giuseppe vengono fermati, fatti prigionieri e uccisi in modo atroce: “Ufficiali e soldati sventrati, donne coi seni tagliati, uomini legati tra due tavole e segati in due, evirati, seppelliti vivi fino alle spalle, altri appesi per i piedi nei camini accesi con la testa che veniva arsa a fuoco lento”. Sorte peggiore tocca al generale René, segato in due dopo aver visto la moglie violentata e poi segata a sua volta in due pezzi insieme a suo figlio.
Napoleone, immerso nella neve dell’inverno iberico, tenta di dare battaglia ad un corpo di spedizione inglese: inutilmente. Anche lui ne ha abbastanza di quella terra e coglie l’occasione di rientrare in patria appena sente di una nuova coalizione formatasi contro di lui. L’aria di casa gli farà bene perché riporterà due vittorie grandiose a Essling e Wagram.
Nel frattempo la Spagna vive un periodo in qualche modo felice perché dopo due secoli di torpore seguito ai grandi anni delle conquiste sudamericane si riscopre unita. La nazione è tagliata dalle cordigliere, intersecata da altipiani desertici e circondata da costiere verdeggianti e frastagliate. Quella nazione era nata dall’unione di tanti popoli e altrettanti regni gloriosi: Aragona, Lèon, Catalogna, Castiglia, Asturie, Estremadura, Andalusia. La lotta contro i Mori capeggiata da El Cid li aveva uniti, e ora Napoleone riusciva a fare lo stesso. Tutti insieme contro i Francesi, atei e giacobini, matadores de Dios, uccisori di Dio, che ovunque arrivavano depredavano e rubavano i tesori delle loro chiese.
Gli eserciti napoleonici, sono, appunto, tanti eserciti che non ne formano uno solo. Inaspettatamente, quella macchina perfetta che stava conquistando l’Europa si rompe nella penisola iberica. I diversi generali (Soult, Suchet, Lannes, Augerau) agiscono senza coordinarsi e senza un’organizzazione comune. Anche i rifornimenti sono inesistenti: i soldati devono cavarsela da sola a cercare cibo ricorrendo a rapine e saccheggi come dei barbari.
Tra i guerriglieri spagnoli spicca Juan Martin Diez, detto l’Empecinado, un ciabattino che puzza di cuoio e di pece, da qui il nomignolo significante “Impeciato”. Nonostante le apparenze (ci sono dei ritratti molto eloquenti) per niente militaresche si rivela un furbissimo comandante. Alle sue dipendenze vanta tremila uomini tra cui seicento cavalieri. E’il padrone della Nuova Castiglia e la sua audacia è tale che porta a sfilare le sue truppe alle porte di Madrid tenuta con fatica dai Francesi.
L’eroe di Saragozza è il giovane capitano Palafox, che ispirato dalla Vergine del Pilar porta i suoi uomini e tutto il popolo, dalle donne ai bambini, a combattere con furore estatico contro i Francesi, i quali alla fine riescono ad entrare nella città, dopo aver lasciato sul campo un terzo delle truppe. In sette mesi assedio sono morti anche cinquantamila abitanti di Saragozza, la metà della popolazione. I sopravvissuti sfilano di fronte ai soldati francesi che concedono loro l’onore delle armi. Lo stesso Lannes, il generale che guida quelle truppe imperiali, così esclama: “Che guerra: essere costretto ad uccidere tanta brava gente. Una vittoria così fa pena”.
La resistenza spagnola, che Napoleone non ha previsto, succhia alla Francia oltre 200.000 uomini: il più alto numero di soldati mai impiegati in una delle sue guerre. I Guerrilleros danno tempo agli Inglesi di intervenire con un corpo d’armata dalle proporzioni bibliche comandato da Arthur Wellesley, un trentanovenne (stessa età di Bonaparte) che qualche tempo dopo diventerà piuttosto noto con il nome di duca di Wellington. I due coetanei si ritroveranno faccia a faccia su un campo di battaglia cinque anni dopo in un paesino belga chiamato Waterloo: appuntamento con la Storia.
Juan Martin Diez, detto "L'Empecinado"
La battaglia decisiva viene combattuta a Vitoria, nelle province basche, dove la resistenza degli Spagnoli è furibonda. I Francesi perdono 70.000 uomini, 124 cannoni e decine di bandiere. Re Giuseppe (l’inetto fratello di Bonaparte) riesce a fuggire a cavallo con i suoi dragoni: si è rubato i diamanti della corona e una perla di enorme grandezza. Il suo esempio viene imitato dall’esercito francese in fuga che si porta dietro quadri di Rubens, Velazquez, Tiziano, montagne di vasellame d’oro, arredi sacri, il tesoro dello Stato. Stesso accadde in Italia durante le numerose campagne napoleoniche: con la differenza che nella nostra penisola non ci fu alcuna sollevazione popolare.
Insieme alle truppe imperiali fuggono anche i (pochi) collaborazionisti di Giuseppe Bonaparte. La maggior parte di loro fa poca strada: i guerrilleros li braccano, li catturano, li uccidono, stuprano le donne. Dagli alberi pende la tetra fioritura degli impiccati, delle donne sventate, dei corpi mutilati: il tutto registrato dalle incisioni di Goya nei Desastres de la Guerra.
Una guerra il cui collante è stata principalmente la religione: la difesa del cattolicesimo contro gli atei senza dio francesi. I preti e i frati di campagna hanno combattuto anche loro a fianco dei loro popolani. La vittoria spagnola è di tutto il popolo, dai nobili ai contadini.
Napoleone si renderà conto troppo tardi che in quella guerra ha perso centinaia di migliaia di uomini che qualche anno dopo gli sarebbero serviti, eccome, sui campi di battaglia. Durante il suo esilio a Sant’Elena, A Emmanuel Augustin Las Cases, suo biografo, dichiarò: “L’infelice guerra di Spagna fu la causa prima delle mie disgrazie, mi ha perduto, ha distrutto in Europa la mia figura morale”.