Maometto II
Quel giorno, però, vide nettamente la sua fine scritta nelle schiere del sultano Maometto II. E neppure il sacro timore reverenziale che ancora incuteva su tutto il mondo conosciuto riuscì a fermare la sete di conquista dei Turchi.
Le Crociate avevano rappresentato una ventata di vitalità per la stanca religione cristiana: un atto di aggressione al nuovo che avanzava, cioè gli Arabi, tramutatisi nel corso del tempo nei fanatici Turchi. Costantinopoli, però, invece di inserirsi da protagonista nel quadro della conquista cristiana della Terra Promessa, ci era entrata di straforo, mal sopportando quelle ingerenze occidentali in territori che continuava a considerare propri di diritto.
In più, le Crociate avevano rappresentato il boom delle Repubbliche Marinare italiane e soprattutto di Venezia, che aveva reso il Mar Mediterraneo un “mare nostrum” della Serenissima. E allora la “Nuova Roma”, come Costantino chiamava la sua creatura, si ritirò sempre di più in sé stessa. All’epoca dell’assedio contava 40.000 abitanti, forse meno. Dilaniata da lotte di potere e di religione, cercava di barcamenarsi, circondata com’era da Turchi, Slavi, Ungheresi, Bulgari. Il suo commercio, che era la vera forza della metropoli, ristagnava, compresso com’era dall’intraprendenza dei mercanti veneziani, genovesi, pisani ed amalfitani.
Però Costantinopoli era sempre bellissima. L’Ippodromo dove per secoli si diedero battaglia i Verdi e gli Azzurri era in decadenza, ma ispirava sempre una somma riverenza. Hagia Sophia, o Santa Sofia, la splendida chiesa distrutta da un incendio nel 404 e poi ricostruita da Giustiniano, risplendeva di ori, argenti e gemme preziose. Il palazzo imperiale, dove si erano svolte le innumerevoli congiure che avevano minato la stabilità del potere bizantino, era ancora là, maestoso e apparentemente intoccabile, proprio come il suo inquilino, che in quel nefasto 1453 si chiamava Costantino XI della dinastia dei Paleologi.
Gli Arabi avevano messo gli occhi da tempo su quella preda ambita: da secoli, anzi. A partire dall’XI secolo i califfi e poi i sultani turchi riuscirono a rodere pian piano tutto il territorio bizantino del Medio Oriente, della Palestina e della odierna Turchia, mentre ad occidente i popoli slavi rosicchiavano inesorabilmente la Mesia, la Grecia e tutte le antiche regioni romane dell’est Europa. Ma, ripetiamo, Costantinopoli doveva rimanere intoccata. I principi slavi non misero mai in pericolo realmente la sua incolumità. Anzi, fu nel 1443 che Ladislao III di Polonia ed Ungheria attaccò le armate del sultano Murad II, venendo però sonoramente battuto a Varna. L’anno successivo lo stesso Murad II contrattaccò e si prese la Morea, nel Peloponneso. Poteva tenersela, ma ritenne meglio imporre un tributo all’imperatore bizantino.
Gli sforzi per aiutare la grande metropoli sullo stretto dei Dardanelli venivano sempre vanificati dalle armate turche. Così, dopo quell’ultimo tentativo del sovrano polacco-ungherese, l’Occidente decise di lasciare Costantinopoli al suo destino.
Il 6 gennaio 1449 veniva incoronato imperatore Costantino Dragazes. Si diede subito da fare per cercare degli alleati. L’impresa era ardua. In primis bisognava cercare le grandi potenze dell’epoca: Francia e Inghilterra. Peccato che queste fossero impegnate nella interminabile Guerra dei Cent’Anni.
Poi si volse alle Repubbliche Marinare, o meglio a Venezia, con la quale la capitale bizantina teneva delle relazioni ottime. Tuttavia la Serenissima sapeva di dover mettere in campo praticamente tutta la sua flotta militare e quindi, in modo molto diplomatico, si limitò a promettere un piccolo aiuto in caso di attacco dei Turchi: ma sapeva già che non avrebbe adempiuto alla promessa.
Infine, c’erano i popoli slavi, cattolicissimi. Già nei decenni passati si erano elevati a protettori di Costantinopoli, anche se sotto sotto pensavano sempre di conquistarla. Solo che dopo la batosta subita nel 1443 non avevano alcuna voglia di dissanguarsi per una causa persa.
Il colpo finale alle velleità di sopravvivenza bizantine venne dalla salita al trono del sultano Maometto II, figlio di una favorita di Murad. Egli aveva in testa una cosa sola: la presa di Costantinopoli. Nel 1452 i Turchi cominciarono a costruire una fortezza, dal nome Rumili Hissar, per garantirsi il controllo del mare del Bosforo e soprattutto chiudere lo stretto dei Dardanelli. Ma soprattutto serviva una armata in grado di reggere l’assedio alle indistruttibili mura della metropoli. Servivano uomini, e il sultano li radunò da ogni parte del regno, di ogni nazionalità. Quando le schiere turche arrivarono sotto le mura, contavano 150.000 soldati.
Costantinopoli aveva una sola via per salvarsi: pagare bene i mercenari. Il primo ad essere “assunto” fu il genovese Giovanni Giustiniani Longo insieme ai suoi 700 uomini reclutati dall’isola di Chio. Poi arrivò un altro genovese, Bartolomeo da Soligo, che doveva chiudere con una catena il Corno d’Oro alle navi turche, da Costantinopoli sino a Pera (una colonia di Genova). A questi due capitani si aggiunsero delle piccole armate formate da mercenari napoletani e catalani.
Dunque, Costantinopoli aveva dovuto cercarsi da sola gli aiuti militari. Per farlo, aveva dato fondo al proprio tesoro.
Tutto fu inutile dal momento stesso in cui Maometto II si presentò chiedendo le condizioni della resa: 100.000 bisanti d’oro. Gli abitanti, quando videro il dispiegamento dei 150.000 turchi e della flotta si resero conto che era finita ancora prima di iniziare. Molti cominciarono a fuggire alla vista dei Giannizzeri, i soldati più spietati dell’esercito turco: questi erano stati rapiti in tenerissima età nei territori cristiani (quindi erano nati cristiani) ed allevati nel fanatismo musulmano più totale, fedelissimi al sultano sino all’estremo sacrificio della morte. Ebbene, di questi Giannizzeri ce n’erano più di 10.000.
Maometto II, dopo aver ricevuto il rifiuto del pagamento (semplicemente perché non c’erano più denari nel forziere imperiale), diede l’ordine di radere al suolo le fortezze di Therapis e Studion, che vennero cannoneggiati e distrutti in un amen.
I Bizantini si rinchiusero dentro alla città sperando in un miracolo. Giovanni Giustiniani si prese l’incarico di difendere la porta di San Romano dove si prevedeva il maggior numero di attacchi. I duecento uomini del cardinale di Kiev e i Catalani di Pere Julia presidiavano l’ala orientale delle mura. Le riserve erano affidate a Luca Notara e Niceforo Paleologo.
Costantino XI continuava a muoversi sul perimetro murario come tarantolato. Anche se non capiva un’acca di battaglie dispensava consigli in ogni dove e naturalmente tutti fingevano di dargli retta.
Il 18 aprile la flotta turca comandata da Balta-oghlu arrivò in vista della metropoli e Maometto II diede il primo ordine di cannoneggiamento. I cannoni turchi, con somma sorpresa dei Bizantini, erano modernissimi. Tutto merito di un ungherese, Urban, un fonditore di cannoni abilissimo che aveva offerto i propri servigi a Costantino XI, il quale gli aveva risposto picche non avendo un becco di un quattrino. Così si era rivolto al nemico, il quale invece navigava nell’oro e capiva l’importanza dell’artiglieria pesante.
I cannoni turchi cominciarono la loro canzone alle due del mattino e continuarono sino alle sei, ma non intaccarono in modo grave le mura teodosiane. Il fuoco greco dei Bizantini e i piccoli calibri dei Genovesi che difendevano risposero al fuoco nel pomeriggio riuscendo a respingere il primo assalto.
Dopo una tregua di due giorni, i Bizantini videro una piccola salvezza quando arrivarono alcune navi genovesi cariche di viveri, provenienti dal Bosforo, sorprendendo la flotta turca. Purtroppo per gli assediati, le correnti di quel mare, che spesso cambiano repentinamente, spinsero indietro le navi quando si trovavano a poche centinaia di metri dal Corno d’Oro mandandole nelle braccia della flotta di Balta-oghlu. Tuttavia, grazie alla loro maggiore agilità e manovrabilità, le imbarcazioni della Superba riuscirono a disimpegnarsi ed entrare in città con il loro carico di derrate alimentari per gli assediati.
Costantino XI
Maometto II capì che doveva prendere il controllo del Corno d’Oro. L’aveva capito lui, figuriamoci Balta-oghlu che era il comandante della flotta. Quest’ultimo, però, continuava a caldeggiare il cannoneggiamento a oltranza e per questo motivo si attirò l’ira del sultano che lo destituì e lo mandò a morire in esilio. Il suo posto lo prese l’albanese Hamza Bey, nato cristiano ma devotissimo ad Allah, comandante che aveva riportato un grandissimo successo nell’assedio di Tessalonica del 1430.
Insieme al nuovo capitano della flotta, arrivarono altre 72 fuste turche. Trasportate via terra su tronchi d’albero, le navi con a bordo l’equipaggio avevano scavallato la collina dietro a Pera circondando la città assediata. Questa tecnica l’avevano inventata i Veneziani e ora veniva replicata in grande stile dai Turchi, che prendevano tutte le invenzioni più belle dell’Occidente.
La reazione dei Bizantini si fece attendere. Non sapendo che pesci pigliare, Giustiniani escogitò di incendiare con dei brulotti la flotta turca. Solo che, se il piano fosse stato attuato subito, avrebbe avuto delle possibilità di riuscita: invece, messo in atto solo il 28 aprile, si rivelò un fallimento. Quando l’attacco cominciò i Turchi erano già stati avvertiti da una spia. Le due navi che portavano il carico incendiario vennero affondate e i pochissimi superstiti che riuscirono a salvarsi dal mare furono catturati ed impalati. Per ritorsione contro questa crudeltà i Bizantini presero 200 prigionieri turchi, li portarono sulle mura, li decapitarono e innalzarono le loro teste mozzate sulle picche.
Arrivati ai primi di maggio, Maometto II cominciava a manifestare chiari segni di impazienza. L’assedio si prolungava e i cannoni, per quanto avessero inferto gravi danni alle mura, non riuscivano ad aprire le brecce. In più gli arrivò la notizia che i Veneziani si erano svegliati dal torpore e stavano arrivando con una flotta abbastanza numerosa. Infine, una congiura capeggiata da alcuni cortigiani stava ribollendo. Molti, nella corte turca, gli avevano sconsigliato un assedio a Costantinopoli, ritenuto inutile e troppo dispendioso in termini di uomini, mezzi e denaro.
Così tra il 7 e il 12 maggio i Turchi misero in atto un cannoneggiamento quasi ininterrotto che fece parecchi danni alla parte esterna delle mura. Tuttavia, di notte, quando i cannoni tacevano, i Bizantini riuscivano a riparare quei danneggiamenti.
A questo punto Maometto II incaricò i minatori serbi di Novo Brdo di cominciare a scavare mine sotto le mura. Per tutto il mese infuriò la battaglia dei “minatori”. Dall’altra parte a contrapporsi c’erano i minieri di Johannes Grant, un mercenario tedesco che era arrivato a Costantinopoli insieme ai suoi uomini specializzati nella neutralizzazione delle mine. Questi fece un gran lavoro tanto che l’ultima mina, la più potente e carica, fu disinnescata il 25 maggio: durante le operazioni questa scoppiò comunque seppellendo tutti i minatori serbi. Dopo questa debacle i Turchi lasciarono perdere questa tattica. Fu una vittoria importante per il morale degli assediati.
Piccola vittoria, però. I Turchi continuavano senza sosta il cannoneggiamento. Quando si cominciarono a vedere le prime crepe significative Costantino XI incaricò un brigantino di andare alla ricerca della flotta veneziana. Questa c’era, ma era a Negroponte, sull’isola di Eubea, ancora alla fonda. Non aveva alcuna intenzione di salpare, ma anche se l’avesse fatto non sarebbe mai arrivata in tempo.
Maometto II, il 26 maggio, ordinò un digiuno per propiziarsi i favori di Allah. Tre giorni dopo partì il primo assalto dopo un bombardamento assiduo alle mura. In tre ondate successive le schiere turche si gettarono attraverso le brecce nelle mura. Posizionati perfettamente, i balestrieri genovesi (i migliori dell’epoca) fecero una strage degli assaltatori.
Maometto II vide nitidamente la sconfitta, così, alle 5 del mattino, mandò all’assalto le truppe migliori, le divisioni anatoliche di Ishak Pasha verso la Porta di San Romano, quella che aveva subito più danni dal cannoneggiamento. Dietro di questi marciavano a ranghi compatti, sprezzanti del pericolo e cantando inni sacri, i Giannizzeri.
Giustiniani radunò i suoi e si portò da quella falla insieme a tre fratelli: Paolo, Troilo e Antonio Bocchiardo. I Genovesi tennero come dei leoni l’ennesimo attacco e resistettero dando tempo ai genieri di richiudere temporaneamente le brecce nel muro.
Gli attaccanti, quei pochi che non avevano lasciato la vita, rientrarono.
Forse era l’occasione giusta per contrattaccare, così Giustiniani chiese a Luca Notara di dargli alcune sue riserve e i suoi cannoni: com’era normale dopo tre ore di combattimento ininterrotto, bisognava rimpinguare le file e sostituire gli uomini morti. Qui le fonti divergono nelle loro narrazioni. Alcuni sostengono che Giustiniani e Notara si odiavano e perciò quest’ultimo aveva rifiutato di aiutarlo proprio in quel momento supremo. Altri, invece, assolvono Notara sostenendo che i suoi uomini fossero già impegnati a rabberciare le falle negli altri punti delle mura.
Sembra dover essere preferita la seconda versione, quella “meno romanzesca”. Infatti alcuni Turchi erano riusciti a occupare una piccola posizione nel settore settentrionale, la Kerkoporta. Posizione marginale ma comunque pericolosissima che doveva essere liberata in breve, come in effetti successe.
Verso le 9 del mattino Maometto II mandò all’assalto i pochi Giannizzeri che non avevano preso parte al primo attacco. I difensori erano praticamente distrutti da quattro ore di combattimento, mentre gli attaccanti erano riposati. Questa volta l’assalto andò a buon fine e i Turchi penetrarono nelle mura. Giustiniani, ferito, si allontanò dalla battaglia con i suoi mercenari. Costantino cercò di trattenerlo, ma invano. La fine era vicinissima. L’imperatore lo sapeva e ne aveva una grande paura, tanto che gridò: “Non c’è nessun cristiano per tagliarmi la testa”? Poi si strappò i suoi paramenti, l’oro, le insegne e tutto ciò che lo faceva sembrare un nobile. In sella alla sua bellissima cavalla di razza araba si gettò in mezzo a un nugolo di Turchi e nessuno lo vide mai più. Si era andato a far ammazzare. Almeno la Storia di Costantinopoli poteva annoverare un ultimo eroe. Dietro di lui lo seguirono Francisco di Toledo, Teofilo Paleologo e Giovanni Dalmata.
I Turchi, ormai padroni della città, si diedero a tutti i massacri del caso. Secondo la legge islamica Costantinopoli doveva subire tre giorni di saccheggio. Sedici navi piene di fuggiaschi uscirono dal porto e si diressero indisturbate verso Chio. La flotta turca, ormai, aveva fatto il suo dovere e quelle navi passarono inosservate. Tra coloro che fuggivano c’era anche Giustiniani con i mercenari che si erano salvati: il capitano di ventura morirà qualche giorno dopo per le ferite riportate. Il comportamento da vigliacco, fuggito proprio nel momento dell’attacco più poderoso, aveva fatto dimenticare a tutti il valore dimostrato in quei mesi.
Il 29 maggio cadeva per sempre l’ultima eredità romana nel mondo. Costantinopoli, per più di mille anni, era stata la città più bella, la più ambita, la più invidiata. Ora, mentre le truppe turche devastavano, saccheggiavano, stupravano, massacravano e profanano, appariva ancora più solenne. Dedita alla Vergine, per secoli era stata protetta da un potere divino. Quasi nessuno, all’inizio, credette nella sua caduta. Molti se l’aspettavano, ma pochi pensavano di poterne essere testimoni viventi. Eppure successe. Come era caduta Roma, ora cadeva anche Costantinopoli. Sic transit gloria mundi.