La supercorazzata Yamato
L’Impero del Sol Levante non ha mai perduto una sola guerra in tutta la sua storia millenaria. Ecco perchè, con estrema fiducia, si presentano a Pearl Harbour convinti che quell’attacco a sorpresa fosse solo la prima grande vittoria del secondo conflitto mondiale contro gli odiati yankees.
Insieme alle corazzate della flotta nipponica e agli aerei ci sono anche dei piccoli sommergibili: i primi prototipi dei cosiddetti “sommergibili tascabili” che avevano il compito di penetrare nella rada e silurare le navi americane. La missione di questi prototipi fallì, ma per la prima volta un’arma sperimentale veniva utilizzata in battaglia. Quei piccoli natanti furono solo i primi di una serie di “armi nuove” che il Giappone impiegò dal 1941 al 1945. Alcune di queste sperimentazioni portarono effettivamente a dei risultati efficaci, mentre altre naufragarono fragorosamente.
I MICRO SOMMERGIBILI
Eccoli, dunque, i micro sommergibili. La marina nipponica li aveva progettati e costruiti nei cantieri di Kure. Misuravano 24 metri di lunghezza per 1,5 metri di diametro e pesavano 45 tonnellate. L’equipaggio era formato da due uomini stipati come delle sardine ed erano mossi da motori di 600 hp che conferiva loro una velocità massima di 23 nodi ed una autonomia di 9 ore di immersione. Erano inoltre armati con missili da 457 millimetri situati a prua in tubi di lancio sovrapposti. La stabilità era migliorata da due alettoni lunghi 1,80 metri e sulla torretta di avvistamento presentavano un periscopio lungo 1,50 metri non retrattile.
L’impresa più fortunata compiuta dai micro sommergibili fu quella in Madagascar, vicino alla fonda di Diego Suarez, la notte del 30 maggio del ’42. Due di questi sommergibili tascabili si persero in mare, ma il terzo penetrò nel porto e coi suoi due siluri affondò la motonave British Loyalty e danneggiò la nave da battaglia Ramilles, di stazza 30 tonnellate.
La notte dopo toccò ad altri due sommergibili attaccare il porto di Port Jackson a Sydney colando a picco un ferry-boat australiano.
Nella battaglia di Guadalcanal invece ebbero un ruolo marginale, essendo studiati solo per attacchi di sorpresa. Non erano molti diversi dai MAS della Prima Guerra Mondiale, di cui abbiamo parlato in un altro articolo. Nonostante tutto riuscirono a colare a picco un piroscafo e a danneggiare un cargo degli Americani.
Lo sviluppo dei micro sommergibili aveva portato a mettere in mare quattro tipi: A, B, C e D. Quest’ultimo tipo, soprannominato Koryu, era lungo 26 metri, largo 2,80 e aveva una maggiore capacità di manovra. L’equipaggio che vi trovava posto era formato addirittura da cinque uomini, mentre i siluri erano sempre due. Alla fine della guerra presero il mare 115 di questi esemplari di micro sommergibili, mentre altri 496 erano in corso di realizzazione.
IL SILURO “TIPO 93”
Ideato dal contrammiraglio Kaneji e dall’ammiraglio di divisione Toshihide, era un siluro di grande efficacia. A differenza di quelli americani, spinti da aria compressa, utilizzava come propellente l’ossigeno ad alta pressione che permetteva all’arma di arrivare in modo invisibile sul bersaglio, in quanto la sua presenza non veniva tradita dalla solita scia di bollicine d’acqua. Il “tipo 93” portava una carica esplosiva pari a 500 chili e viaggiava alla velocità “stratosferica” di cinquanta nodi. I siluri inglesi, invece, andavano a 30 nodi e portavano solo 320 chili di esplosivo.
Purtroppo per i Nipponici, le prestazioni di questi siluri vennero annullate completamente dalle mediocri prestazioni dei sommergibili-madre da cui partivano, che regolarmente venivano ingaggiate dalle navi da battaglia americane e bombardate dall’aviazione.
LA SUPERCORAZZATA YAMATO
Era la più grande nave da guerra che avesse solcato i mari. Impostata in gran segreto già nel ’36, sempre nei cantieri di Kure (in dispregio al trattato di Washington del 1922 che prevedeva la riduzione degli armamenti), entrò in servizio nel ’42. Ecco le misure: 263 metri di lunghezza, 39 di larghezza, 72.800 tonnellate a pieno carico. Montava nove pezzi da 460 millimetri (il massimo calibro mai montato su una nave), riuscendo a scagliare proiettili di quasi 15 quintali a oltre 41 chilometri di distanza, ciascuno dei quali poteva distruggere una nave intera o un battaglione intero di fanteria. Ogni torretta trinata pesava quanto un cacciatorpediniere di medio tonnellaggio.
Nel corso della guerra questa meraviglia militare ebbe occasione di sparare solo 81 proiettili da 460 millimetri, che inflissero ben pochi danni al nemico. Questa montagna di acciaio raggiungeva la velocità di 27 nodi ed era praticamente inavvicinabile: durante la battaglia di Leyte venne attaccata da ben 19 formazioni di aerei americani compresi una trentina di bombardieri B-24. Colpita più volte, dovette rientrare alla base perché aveva imbarcato 5.000 tonnellate di acqua (equivalente della stazza di un incrociatore leggero). Il problema principale era che gli Americani avevano subito capito che bisognava attaccarla dall’alto e non dal mare. I calcoli degli ingegneri nipponici non avevano fatto conto sulla migliore aviazione degli yankees: che infatti risulterà decisiva ai fini della vittoria.
La Yamato venne affondata il 7 aprile del 1945 al largo del Kyushu: attaccata da centinaia di aerei americani, incassò 15 siluri e un numero impossibile da quantificare di bombe.
Insieme a lei vennero colate a picco, nella stessa primavera, anche le sue gemelle più piccole Musashi (costruita a Nagasaki) e Shinano (realizzata a Yokosuka).
GLI ELEFANTI VOLANTI
Qui entriamo nel campo delle “armi disperate”. Siamo nel 1944 e il Giappone è già piegato dalla strapotenza americana: è già iniziata l’epopea dei kamikaze. Si pensò quindi di realizzare degli alianti suicidi, ciascuno dotato di una bomba da ottocento chilogrammi, che trainati da aerei a motore e immessi nelle correnti piombassero sulle città americane. Una pazzia.
Non meno pazza fu invece l’idea degli “elefanti volanti”: migliaia di palloni a idrogeno del diametro di dieci metri con a bordo 35 chili di esplosivo incendiario. L’idea era nato dagli aquiloni, i giocattoli nazionali giapponesi, simboli del Capodanno e della Festa dei Ragazzi (il 5 maggio). Sin dall’antichità si organizzarono delle vere e proprie battaglie tra aquiloni.
Partendo dalla fisionomia di un aquilone, dunque, il professor Sakuhei dell’Osservatorio Meteorologico di Tokyo, propose di usare le correnti atmosferiche per invadere con pallini incendiari (simili agli aquiloni) i cieli dell’America e soprattutto la fascia boscosa attorno al 40° parallelo ed estesa per mille chilometri sui rilievi della Catena Costiera.
Il professore calcolò che almeno il 30 per cento di questi aquiloni-elefanti volanti sarebbe arrivato certamente in territorio USA. I palloni sarebbero stati gonfiati con l’idrogeno.
L’idea piacque moltissimo ai vertici nipponici e si iniziò la produzione di un prototipo. Il primo lancio andò bene: 200 palloni vennero lasciati andare nel cielo e seguiti per parecchie miglia da alcuni aerei. Prova superata. Si passò alla produzione in serie. I luoghi dove si fabbricarono questi “elefanti volanti” erano i più vari: scuole, cinema, teatri, stadi di sumo. I lavoratori, spesso, erano studenti delle scuole che dovevano eseguire delle vere e proprie opere d’arte perché ciascun pallone era formato da 600 strisce di carta di riso incollate insieme. Un lavoratore, per quanto super impegnato, non riusciva ad incollare più di 4-5 strisce al giorno. Un lavoro da certosini.
L’involucro era formato da più strati di carta di riso permeabilizzata con il mannan, una sorta di cellulosa contenuta nel konnyaku, una pasta che serviva per incollare e che tuttora è un ingrediente base di molte specialità tipiche del Giappone come il sukiyaki e l’oden. Come si capisce, solo le menti nipponiche potevano partorire un’idea così utopistica e al contempo difficile da realizzare. Ma i Giapponesi erano (e sono) così: incredibilmente ostinati fino alla pazzia.
Eccoci pronti al primo lancio, datato domenica 2 novembre 1944, ore cinque di mattina. Nel complesso vennero sganciati 9.300 elefanti volanti dalle zone a nord-ovest di Tokyo nei distretti di Chiba, Ibaragi e Fukushima.
Il 4 novembre un guardiacoste degli USA si imbattè in uno di questi elefanti volanti finito in mare non lontano dalla sua spiaggia. Le autorità mandarono una barca per recuperarlo ma, non riuscendovi perché pesante, tagliò le corde provocando così l’affondamento della strumentazione di bordo e delle bombe (ammesso che queste ultime vi fossero ancora). Venne recuperato così solo l’involucro del pallone aerostatico, costruito con così tanta pazienza da chissà quanti giovani giapponesi.
La vigilanza costiera andò subito in allarme, anche perché nei giorni seguenti vennero rilevati parecchi atterraggi di “elefanti volanti”. Temendo che fosse in atto una specie di guerra batteriologica, l’FBI ordinò il silenzio più assoluto per non allarmare la popolazione.
In Giappone, qualche giorno dopo il primo lancio, si cominciò a parlare della grande riuscita del piano: “Fonti bene informate riportano che un gran numero di elefanti volanti sono discesi sul Montana, nel nordovest degli Stati Uniti, provocando l’incendio delle foreste e ferendo e uccidendo centinaia di persone”.
Effettivamente alcuni di questi palloni aveva svolto il suo dovere. In Oregon uno dei questi marchingegni era costato la vita a cinque ragazzini e alla insegnante che li accompagnava, essendo esploso appena questi si azzardarono a toccarlo. Almeno un migliaio di elefanti volanti in America ci era arrivato davvero, ma infliggendo pochissimi danni e certamente non provocando incendi alle foreste della Catena Costiera del Pacifico.
Purtroppo per i Nipponici dal novembre del 1944 i bombardieri americani cominciarono a vomitare il loro fuoco su Tokyo e certamente nessuno ebbe più in mente di provare a lanciare in aria altri “elefanti volanti”. A nessuno venne più in mente di azzardare idee bislacche: in tutte le metropoli del Giappone morivano, ogni giorno, decine di migliaia di persone. E ancora, nel 1944, nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto di lì a un anno nelle città di Hiroshima e Nagasaki.