Cristoforo Colombo
Certo, non direttamente: ad importarne l’idea fu il conquistatore dell’America, Cristoforo Colombo, che in questo modo riferiva l’incontro con un indigeno il giorno 15 ottobre del 1492: “Mentre navigavo tra queste due isole, ossia tra quella di Santa Maria e la grande isola alla quale imposi il nome di Fernandina, trovai un uomo solo a bordo di un’almadìa (una sorta di canoa, nda) che da Santa Maria passava alla Fernandina e che recava con sé un po’ del suo pane, della grandezza di un pugno, una zucca piena di acqua, un pezzo di terra rossa ch’era stata ridotta in polvere e quindi impastata e alcune foglie secche, le quali dovevano essere cose molto apprezzate da queste popolazioni perché già a San Salvador me ne avevano presentate in dono”.
La terra rossa sminuzzata era il tabacco, le foglie secche le “cartine”. Appena sbarcato, a Colombo venne offerto di mangiare e di fumare quel preparato. Sulle prime l’ammiraglio non gradì per nulla, ma poi col tempo si ricredette.
Dopo pochi giorni, martedì 6 novembre, sempre sul suo diario di bordo, Colombo annotava che due spagnoli mandati in esplorazione sull’odierna isola di Cuba tornarono dicendo “di aver incontrato a mezza via molte genti che ritornavano ai loro villaggi con un tizzone in mano e certe erbe per profumarsi secondo il loro costume”. Quel tizzone era un rudimentale accendino.
Altra testimonianza, stavolta di Bartolomeo di Las Casas, frate domenicano nativo di Siviglia che scrisse la preziosissima “Historia de los Indios”: “Sia gli uomini che le donne tenevano in mano un carbone acceso e delle erbe per gustarne il profumo… Erano delle foglie secche racchiuse in una certa foglia ugualmente secca… Erano accesi a una estremità mentre dall’altra la gente li succhiava e li assorbiva. E bevendo interiormente il fumo per aspirazione, questo fumo li addormentava e li inebriava dalle narici. In questo modo essi non sentivano quasi più la fatica”.
Il buon chierico descriveva per la prima volta nella storia l’atto di fumare del tabacco, che era quattro volte più ricco di nicotina rispetto ai tabacchi dei giorni nostri. Quel carbone acceso era il tizzone visto da Colombo, cioè il loro accendino, o acciarino.
Quell’utensile nacque dunque osservando che l’urto di un pezzo di ferro (più tardi verrà sostituito dall’acciaio) contro una pietra faceva scaturire delle scintille. L’accendino classico, infatti, è costituito da un pezzo di metallo di varie forme che si chiama corpo percuotente. La pietra focaia, dal bordo tagliente, viene colpita con forza dal percussore. L’impatto si verifica contro il filo della piastra di ferro per tutta la sua lunghezza. Il calore così ottenuto distacca delle finissime particelle metalliche sottoforma di scintille. Queste trasmettono il fuoco all’esca, cioè al materiale comburente grazie al quale si infiamma il combustibile interno.
Materia prima dell’esca è un fungo parassita che cresce su querce, olmi, carpini e betulle. La pietra focaia invece può anche essere sostituita da un pezzo di pirite di ferro detto “pietra d’archibugio”.
Per essere pratico, naturalmente l’accendino doveva essere portatile, quindi di ridotte dimensioni e facile da manovrare. Subito si sviluppò un artigianato altamente specializzato che infiammò la fantasia di orafi e decoratori che lo cesellarono al punto da farlo diventare in taluni casi una vera e propria opera d’arte.
I migliori si dimostrarono gli artigiani asiatici, dove l’accendino assunse forme diversissime anche perché veniva portato appeso alla cintura, e non in tasca come al modo occidentale. La ricchezza dell’oggetto veniva considerata importantissima e indice di benessere di colui che lo possedeva: praticamente uno status symbol. Già dal 1500 uscirono dai piccoli cantieri artigiani i primi acciarini, o accendini, automatizzati a selce.
Questo sistema rudimentale di accensione parve superato all’inizio dell’Ottocento, quando presero il sopravvento i sistemi chimici, ma tornò di moda nel 1871 grazie a un revival che prendeva spunto dal passato. Questa nuova moda si ampliò di artisti che creavano modelli quasi unici. Bellissimo, ad esempio, quello abbinato ad un orologio che funzionava anche da sveglia: all’ora prefissata si azionava un piccolo cannone in miniatura che sparava e accendeva contemporaneamente una candela. L’Ottocento, si sa, è stato il secolo delle innovazioni e delle sperimentazioni anche piuttosto grottesche come questa…
Molti accendini vennero fabbricati con stile rococò, cioè super-decorati, ma anche con tecniche pericolose, come quelli che sfruttavano l’accensione al sodio, all’ossigeno o al fosforo.
L’accendino pneumatico, invece, fu utilissimo perché anticipò il sistema d’accensione dei motori diesel. Si basava sul principio per cui l’aria, dilatandosi, abbassa la temperatura dei corpi vicini, mentre li scalda quando viene compressa. Un perno di piombo veniva fissato in una scatola cilindrica: al fondo c’era una cavità che ospitava l’esca. Spingendo con forza il perno, l’ara compressa generava un calore sufficiente a incendiare l’esca. Fu il colonnello Grobert a inventare questa particolare tecnica, nel 1806.
La storia dell’accendino di uso corrente, cioè per la grande massa, è databile 1918, cioè dopo la Grande Guerra. Nelle trincee si incontrarono per la prima volta milioni di persone, la maggior parte delle quali era abituata a fumare utilizzando i fiammiferi. In quella situazione estrema, però in mezzo al fango, sotto la pioggia, tra i bombardamenti, meglio utilizzare gli accendini, in particolare quelli a miccia o a benzina.
Proprio grazie a questo successo ottenuto sul fronte l’accendino cominciò ad essere prodotto in modo industriale, dapprima in Austria, poi in Germania e Francia. In Italia la prima fabbrica fu quella di Sometti, un veronese che nel 1927 lanciò il modello “ignis”.
La storia dell’accendino è anche storia di “grandi firme”. E’logico: appena si fiutò il business, molti ci si buttarono a pesce.
Fu il caso di Louis Francois Cartier, gioielliere francese che creò un impero universale. Si interessò prestissimo anche del “ramo commerciale” degli accendini creando moltissimi articoli per fumatori, presentandone uno all’avanguardia all’Expo di Parigi del 1867. Poi, nel primo dopoguerra, prese una specie di esclusiva per la produzione e la vendita di accendini a pistola, a libro, a portamatite. Ancora oggi, nella sua sede parigina di Rue de la Paix, la ditta Cartier produce dei veri e proprio “gioiellini” a numero limitato o addirittura fatti su ordinazione, come delle Ferrari.
Un altro francese, Francois Tissot Dupont, creò una piccola dinastia nel settore. Originario di un villaggio dell’Alta Savoia, arrivò a Parigi nel 1848, come fotografo di corte e come pellettiere specializzato per i regnanti di Francia: il successo però arrivò solo con le generazioni successive, nel 1930, con il primo accendino placcato in oro venduto al marajah di Patiala. Da quella data cominciò la grande produzione in serie: 300.000 esemplari prodotti del D57, un milione e 500.000 del Briquet Simple, 800.000 del Pyrophoric New del 1977.