Pietro Koch
Nella Villa Triste di Milano e in altri luoghi segreti si praticava la ferocia degli aguzzini, quasi tutti dipendenti da eroina e cocaina. E proprio loro inventeranno la tecnica della tortura con l’elettricità.
Leggere i verbali del processo ai militi della “Muti” non è facile: sono duri, scritti in burocratese, dettagliatissimi, sin troppo precisi. La “Muti” era una delle tante polizie della RSI, la Repubblica Sociale Italiana, creata dai nazisti per far sopravvivere ciò che restava del fascismo e combattere contro i partigiani e gli Americani. La pagava il ministero dell’Interno, che però finse sempre di dissociarsi dagli atti tremendi che eseguiva. Il comando ce l’avevano, naturalmente, i Tedeschi: sono loro che davano gli incarichi di fucilare, incendiare, rastrellare, torturare.
Il nucleo iniziale era composto da fascisti della prima ora mai pentiti, ma poi si aggiunsero criminali comuni, sadici, depravati, fanatici. A guidare questa cricca il sergente Francesco Colombo, che si autoproclamava colonnello, uno dei preferiti di Benito Mussolini, che segretamente amava questo tipo di bravacci di periferia.
Ecco alcuni stralci degli atti del processo contro la “Muti”.
“A Calderini Ambrogio furono strappate con la pinza le unghie dei piedi”.
“Al professor Brambilla vengono praticate due iniezioni di un preparato che lui ritiene fosse scopolamina, perché gli produssero paresi del lato sinistro del corpo e grave obnubilamento della coscienza con perdita completa del senso dell’equilibrio.
“Ramponi Eugenio camminava a stento, con le gambe larghe, e non poteva sedersi, avendo riportato la rottura dei tessuti dell’ano”.
“L’avvocato Marco de Meis che, durante la traduzione dal luogo della cattura alla caserma della Muti era stato bestialmente colpito da un graduato della scorta con la canna di un moschetto in modo così grave da perdere poi completamente l’uso della vista, non solo venne sottoposto, mentre soffriva ancora atrocemente per quelle ferite, ad un interrogatorio di quattro ore, tanto che svenne tre o quattro volte; ma, durante la notte, per maggiore tormento, gli fu ripetutamente proiettata, proprio nell’occhio offeso, la luce abbagliante di una forte lampada elettrica, e gli fu inoltre impedito il sonno tramite un altoparlante collegato con un apparecchio audio posto nella sua cella”.
Sono verbali giudiziari di un processo, quindi privi di umanità, senza trasporto emotivo. Eppure ci danno un’idea di come fossero atroci quelle torture.
La “Muti” era solo una delle polizie di Salò. Le altre erano la “Sicherheit” nel Pavese, la “Koch” di Roma (poi trasferitasi a Firenze e infine a Milano), la “Carità” di Padova (che prima aveva sede a Bologna e prima ancora a Firenze). Agivano sotto la protezione della polizia nazista, la Gestapo, ma il denaro arrivava direttamente dalle casse della Repubblica Sociale Italiana. Tanto, tantissimo denaro. Probabilmente parecchi milioni di lire di allora, dei quali naturalmente non rimangono tracce in alcun documento o rendiconto.
A questi reparti di polizia venivano delegate le requisizioni, gli arresti, le esecuzioni sommarie, le torture. Molti dei loro membri erano dei tarati, che godevano ad infliggere il dolore, desideravano il sangue come voluttà, come un piacere carnale. Erano entrati volontari in quelle polizie per soddisfare le loro vocazioni di assassini sadici.
Tra loro la cocaina era di casa, come lo fu del resto nella prima ondata squadrista della marcia su Roma. Anche gli eccitanti erano comunissimi. Spesso le donne dei poliziotti assistevano alle torture con un duplice scopo: godere anch’esse del sadismo ed eccitare con oscenità i propri amanti assatanati.
Pietro Koch, uno dei “veterani”, era un eroinomane perso, così come la sua compagna, la sedicenne fiorentina Tamara Cerri.
Anche Osvaldo Valenti, uno degli attori più in vista nell’epoca fascista, era schiavo della cocaina. La sua compagna, la diva più famosa in quel periodo, Luisa Ferida, una ragazzona bolognese cresciuta a tagliatelle, divenne cocainomane per assecondarlo.
Il compito di questa gente era semplice: estorcere confessioni. Bisognava far parlare, a tutti i costi. Bisognava indurre a tradire. Era necessario, quindi, alzare la “qualità” della tortura, sperimentare nuovi metodi. Si passava dal classico olio di ricino (da sempre praticato), dalle sberle, dalle scudisciate, dalle manganellate, alle raffinatezze quali le unghie strappate, l’elettroshock, gli stupri, le lacerazioni intestinali. I Tedeschi, maestri in questo campo, conoscevano benissimo l’efficacia delle rappresaglie sui familiari, utilizzate per far crollare la resistenza dell’arrestato.
Uno dei metodi psicologici più in voga era quello di chiudere il prigioniero in gabbie bassissime, tali da non riuscire neanche a mettersi in ginocchio. Gli si toglieva completamente il cibo e l’acqua. Gli si impediva di dormire tramite l’intervento di cani che dilaniavano le carni ma non arrivavano ad uccidere il povero malcapitato, che doveva continuare a soffrire.
Ci furono anche le torture psicologiche delle finte fucilazioni, finte liberazioni, finte esecuzioni sommarie.
I Tedeschi della Gestapo ci sapevano fare, pensavano i fascisti. Gli insegnanti più “bravi” erano due: Rauff e Saevecke.
Rauff dopo la guerra riparerà in Sud America diventando consigliere di Pinochet. Saevecke alla fine del conflitto rientrerà liberamente in Germania come rispettato poliziotto del distretto di Wiesbaden.
Ma c’era anche Harster, che agiva a Verona, dove aveva requisito l’immenso palazzo delle Assicurazioni in corso di Porta Nuova, dove tutte le cantine erano state adibite a celle. In quel luogo spettrale si praticava l’elettroshock unito alle frustate e alle iniezioni di sostanze letali. Molti prigionieri vi morirono, ma coloro che resistevano alle torture non facevano una fine migliore: venivano portati al Forte Procolo e fucilati. I loro corpi senza nome venivano sepolti in fosse comuni, che saranno scoperte solo anni dopo la fine della guerra.
Ma tra gli Italiani ci furono coloro che impararono bene da questi poliziotti tedeschi.
Pietro Koch, già citato, è senz’altro il più famoso. Amava circondarsi da personalità disturbate, proprio come lui. Nella sua cricca figurava un ricco avvocato e proprietario terriero toscano, Augusto Trinca Armati: assisteva alle torture in silenzio, pallido come un cencio, scosso da un interminabile tremito nervoso di eccitazione mista a isterismo. Per quell’elemento guardare un prigioniero mentre veniva torturato era una necessità fisica, una specie di droga.
Insieme a Koch si accompagnava sempre anche un prete, vice parroco della Santa Trinità di Firenze, don Epaminonda Troja: un gelido inquisitore, sempre impassibile nel guardare le torture.
Poi ecco il conte Guido Stampa, nobile decaduto, che fingeva un aristocratico disprezzo del dolore.
Nella banda c’erano, naturalmente, anche le donne, perlopiù prostitute o drogate dipendenti dall’eroina e dalla cocaina che avrebbero fatto di tutto per poterne avere una dose. Si assuefacevano alle torture, anzi si riducevano ad oggetti utilizzati dai torturatori per il loro piacere. Sì, perché spesso questi “interrogatori” sfociavano in orge.
Luisa Ferida e Osvaldo Valenti
Un'altra figura emblematica era Mario Carità, un comune ladro originario di Milano tenutario di bische clandestine a Firenze, poi spia del partito fascista. Chiaramente preda di raptus isterici, per lui la tortura diventò una ragione di vita. Colpiva i prigionieri urlando, con la bava alla bocca, con calci di pistola, manganelli, ferri.
Il suo braccio destro era un ex-prete, Giovanni Gastaldelli. Nella sua banda figurava anche un certo Gentili, che si presentava come capitano e assisteva alle torture incitando gli scherri, sempre pallidissimo, con la sigaretta spenta penzolante dalle labbra secche.
Tra le innovazioni principali di questi torturatori seriali ce n’era una particolarmente inquietante: il magnete. Il suo uso verrà poi perfezionato dai Francesi durante la guerra di Algeria una decina di anni più tardi.
Nei sotterranei di Villa Triste, la sede della banda Koch, gli elettrodi venivano fissati con il nastro isolante ai genitali degli uomini o ai capezzoli delle donne. Poi il boia inseriva la spina e la vittima cominciava a sussultare come sulla sedia elettrica gridando urla di morte. Il dolore provato era straziante, ma il torturatore sapeva dosare bene le scosse in modo da non uccidere.
In quel caso la confessione del prigioniero passava in secondo piano. Quello che contava, per quegli animali, era assistere al dolore lancinante, alla degradazione fisica. Il marchese de Sade non avrebbe potuto fare meglio.
Altra invenzione degna di nota era uno strumento flessibile che terminava con una sfera metallica grossa come una noce: serviva a colpire in fronte, tra gli occhi, e faceva perdere i sensi in modo fulminante. Poi c’erano le scarpe chiodate con ferri aguzzi per calpestare le pance o spezzare le tibie delle vittime. E ancora: maschere impregnate di sostanze velenose e nauseanti che impedivano di respirare provocando anche vomito e convulsioni.
Categoria a parte, i narcotici. Si usavano per ridurre in stato di semicoscienza il prigioniero, ma non erano molto apprezzati dai “veri” torturatori, perché la confessione spesso arrivava davvero e quindi il divertimento terminava presto.
E le istituzioni della Repubblica Sociale Italiana? Fino alla fine rimasero inerti, compiacenti, consce delle azioni di quelle “polizie”. Solo negli ultimi mesi di quella triste epopea Mussolini, su pressione del cardinale con sede a Milano, Schuster, ordinò di darci un taglio. La banda Koch, la maggiore e più importante, venne smantellata. Pietro Koch venne trasferito a Maderno dove subì un processo-farsa. Tuttavia, non si salvò: quando la RSI crollò egli cercò di fuggire insieme a Tamara, ma cadde nelle mani dei partigiani.
Finì davanti al plotone di esecuzione in un giorno afoso di giugno. I capelli impomatati, il sorriso stampato in faccia a sfidare tutti, la testa alta. Si era imposto di morire bene. Si inginocchiò di fronte al prete e rifiutò la benda per coprire gli occhi. I fucili dei partigiani gli scaricarono addosso le pallottole e il suo destino. La testa venne tranciata di netto.
Carità venne catturato dagli Americani nel maggio del ’45 nascosto in un alberghetto all’Alpe di Siusi, mentre è a letto con una ragazza. Quando entrarono i soldati ebbe la prontezza di balzare in piedi, afferrare la pistola e uccidere la poveretta e un militare. Poi cadde crivellato dai proiettili.