Luigi Cadorna
Sì, perché nonostante la presa di Gorizia la Grande Guerra si sta rivelando un salasso di uomini, soldi e armi: il tutto per ricavare pochissimo. L’avanzata in territorio austriaco è assolutamente minima, le posizioni sono pressoché stabilizzate nelle trincee. La “gaia guerra” del “maggio radioso” è lontanissima nel tempo.
Fino a Caporetto, cioè fino al 24 ottobre del 1917, la situazione però è ancora sotto controllo. Nonostante i mugugni degli Alleati, che spesso sottolineano l’inutilità dell’esercito italiano, lo Stato Maggiore dell’esercito ha piena fiducia nella “spallata” agli Austro-Ungarici. Forse questa speranza non è del tutto immotivata, anche perché effettivamente le armate nemiche sono effettivamente stanche di massacri al pari delle nostre; in più l’Impero Austro-Ungarico sta subendo il contraccolpo di essere un crogiuolo di popoli vogliosi di indipendenza da Vienna (Slovacchi, Cechi, Slavi, Istriani, Sloveni). Però questa speranza cozza con una novità fondamentale: i Tedeschi desiderano eliminare definitivamente l’Italia dallo scacchiere della guerra. Per questo motivo decidono di aiutare gli Austriaci unendo le forze per la battaglia decisiva e per ricacciare indietro gli Italiani.
Questa volontà tedesca i generali del nostro esercito la conoscono benissimo, ma ne danno poco peso. Sia Cadorna che Capello che Badoglio avevano una fede incrollabile nella vittoria. Quella era l’unica cosa che li accomunava (insieme al fatto che fossero piemontesi): per il resto erano tre uomini diversissimi per carattere, personalità e autorità. Eccone un breve ritratto.
CADORNA
Luigi Cadorna era nato a Pallanza il 4 settembre del 1850. Il padre era Raffaele Cadorna, l’eroe di Porta Pia. La madre invece era una nobildonna, Clementina Zoppi.
Primo del suo corso all’Accademia militare di Torino (ne era uscito non ancora diciottenne), a venticinque anni diventò capitano, poi a quarantadue colonnello, a quarantotto generale di brigata e a cinquantacinque tenente generale. Le sue caratteristiche: puntiglioso, precisissimo a tratti pedante, severo innanzitutto con sé stesso, riflessivo. Le qualità finivano qui. Era del tutto inumano, inadatto a relazionarsi con i soldati, i politici o gli ufficiali. E, soprattutto, testone. Aveva una fede incrollabile in ciò che riteneva giusto e quella non venne mai meno, neppure nelle sconfitte.
Quando gli chiesero a Giolitti cosa ne pensasse di lui, ecco come rispose: “Dai contatti che ho avuto con lui l’ho sempre giudicato di intelligenza mediocre”. Quando il re gli chiese chi preferiva tra Cadorna e Pollio, i due candidati per la carica di capo di Stato Maggiore, rispose così: “Pollio non lo conosco, ma lo preferisco al Cadorna, che conosco”. Benissimo.
Allo scoppio della guerra Pollio morì all’improvviso, di arresto cardiaco. Sulla sua morte si parlò poco all’epoca e molto dopo la fine del conflitto. Era un convinto triplicista, quindi filo-tedesco. Lo stesso Moltke, capo di Stato Maggiore tedesco, lo considerava un grandissimo stratega.
Sia come sia, la morte di Pollio apriva un problema: la sua successione. In verità la soluzione naturale era quella di promuovere Cadorna, ma il re Vittorio Emanuele cercò di prendere tempo per cercare qualcun altro, ma non trovò nessun altro del “suo livello”. Gli eventi di Sarajevo avevano accelerato l’inizio del conflitto e serviva prepararsi in modo repentino: Cadorna venne promosso a capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano.
Fisicamente sembrava un re longobardo: piuttosto basso, massiccio, con i baffoni spioventi, mascella squadrata. Comparata alla sagacia tattica dei colleghi, la sua non era peggiore, ma si trovava in una situazione piuttosto difficile: l’Italia era entrata in guerra per conquistare i territori irredenti, quindi aveva la necessità di attaccare. Solo che per mettere in atto una tattica offensiva ci voleva creatività, inventiva e delle truppe abituate alla mobilità sul campo di battaglia. Bene, di queste tre peculiarità non se ne intravvedeva neppure una.
Cadorna era per il pugno duro, anzi durissimo. Lo usava con il soldato più umile come con gli ufficiali. Un suo avversario inesorabile (secondo lui) era la propaganda anti-militare compiuta da certi partiti e fomentata da una parte del Paese. Il 6 giugno del 1917 lo scrisse chiaro e tondo in una lettera al governo, dopo due anni in cui aveva optato per delle critiche più o meno velate in questa direzione: “Nelle truppe di complemento che giungono dalla Nazione come nei militari che tornano dalla licenza, si manifestano gravi sintomi di indisciplina che hanno richiesto le più energiche misure di repressione perché il male non dilaghi. Si è perciò dovuto ricorrere alle fucilazioni su vasta scala e rinunciare alle forme di procedimenti penali, perché occorre troncare il male alle sue radici finchè si può sperare di arrivare in tempo”. Le fucilazioni furono sempre usate nella Grande Guerra, da tutti gli eserciti. Quello italiano guidato da Cadorna non fece eccezione.
Il quartier generale lo volle a Udine, non troppo vicino al fronte e soprattutto lontanissimo dal re Vittorio Emanuele, che d’altra parte nella prima fase della guerra ci voleva mettere poco il becco. In quell’avamposto militare Cadorna era una specie di vicerè, attorniato da una corte di lecchini che lui ignorava costantemente. Spesso si fermava a discorrere con D’Annunzio, l’unico tra gli artisti che non lo mandava in bestia: forse perché il Vate sapeva come prenderlo dal verso giusto.
Verso i politici invece aveva un atteggiamento sempre gelido, sdegnoso, quasi di ribrezzo, tanto che se qualcuno di essi voleva incontrarlo doveva fare anticamera per parecchie ore.
Quando sopraggiunse Caporetto riversò la sua rabbia contro i dissidenti sobillati dal sentimento anti-militare che voleva la pace. Accusò addirittura i suoi soldati di villani e codardia, ma non ammise mai un solo errore. Forse egli stesso sapeva che quell’attacco a sorpresa ci sarebbe stato, ma non ne siamo assolutamente certi. Dei prigionieri cechi catturati qualche giorno prima avevano parlato di alcune operazioni segrete organizzate dai Tedeschi per un attacco nella zona di Caporetto, ma effettivamente nessun ufficiale vi diede peso. A parziale loro discolpa, bisogna dire che queste delazioni erano quasi all’ordine del giorno e non si poteva dare credito a tutte.
Dopo la disfatta, gli Alleati imposero come prima condizione per continuare a sostenere l’Italia la sua destituzione immediata: il re, a Peschiera, li accontentò senza fiatare, perché anche lui non vedeva l’ora di liberarsene. Cadorna la prese malissimo ma accettò a testa alta la sconfitta personale.
Nel periodo fascista divenne fiancheggiatore di Mussolini girando il mondo elogiando il nuovo “forte governo” che alimenta “sentimenti di patriottismo, di ordine, di disciplina, di spirito militare”. Si spense a Bordighera, il 21 dicembre del 1978. Nella bara lo deposero con gli abiti civili e sulle gambe gli misero un drappo tricolore.
Luigi Capello
CAPELLO
Luigi Alberto Capello era l’antitesi di Cadorna. Spregiudicato, brillante, spiritoso, massone fino al midollo, anticlericale. Gran mangiatore, dai soldati era considerato un macellaio. Nato a Intra nel 1859, si era distinto nella guerra di Libia liberando Derna dall’assedio di Enver Bey. In verità, in quella battaglia non aveva lesinato sangue dando in pasto ai Turchi centinaia di soldati italiani che forse, seguendo una tattica meno offensiva, avrebbero potuto salvarsi e vincere comunque. I giornali dell’epoca lo accusarono senza pietà di essere uno “sperperatore di sangue” e di aver trasformato Derna “in un cimitero di soldati italiani”. Capello non leggeva i giornali, quindi quelle critiche non gli arrivarono neanche.
La sua fama di macellaio non gli pregiudicò la brillante carriera militare che culminò con la carica di comandante del VI corpo d’armata concessagli direttamente da Cadorna. Il generalissimo, pur essendo consapevole che Capello era un ateo arrabbiato e un massone, aveva intuito le sue potenzialità e quindi si risolse a concedergli l’onore dell’assalto a Gorizia. Preparato il piano con minuziosità quasi certosina, le armate italiane mossero brillantemente e, per una volta, in modo non convenzionale. Fu un capolavoro, almeno in quel deserto di inventiva che era quella guerra statica e trincerata.
Dopo l’impresa goriziana, Capello aveva avuto il comando di corpi d’armata dislocati in zone meno calde, con pochi scontri e pochi morti. Relativamente.
Cadorna, pur ammettendo che era un gran generale, non si fidava per nulla di lui. Sospettava addirittura che lo potesse sabotare per prendergli il suo posto: il che non era un’ipotesi così peregrina. Il direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, aveva notato che quell’uomo era “torbido, inquieto, preoccupato principalmente del proprio successo personale. Mirava a servire la causa della guerra e la propria senza troppi scrupoli. Forte dominatore per temperamento, astuto, attivissimo, sapeva chiedere e ottenere. Arrivare era il suo programma: arrivare davanti con le sue truppe e al sommo della gerarchia con la sua carriera”. L’idea che volesse togliere lo scranno dal didietro di Cadorna, quindi, lo solleticava certamente.
Forse vi sarebbe anche riuscito se non fosse sopraggiunta anche per lui la disfatta di Caporetto. Lui probabilmente sapeva benissimo dell’offensiva austro-tedesca, ma non volle rinunciare ai suoi propositi di attaccare, e così non adeguò la sua 2°armata alla difesa. Un attacco di nefrite lo costrinse a chiedere qualche giorno di riposo a Cormons, e questo l’aveva reso intrattabile e irascibile. In quei giorni lo andò a trovare Ardengo Soffici, il poeta nazionalista, che riporta queste sue parole: “Siamo minacciati da una grossa offensiva austro-tedesca. Bisogna far capire ai soldati che non c’è da aver paura dei Tedeschi, i quali non sono superiori agli Austriaci come soldati. Ci attaccheranno di certo. Io non domando di meglio. Vuol dire che prenderò anche dei Tedeschi per la mia collezione di prigionieri. E cercheremo di prenderne molti”. Fu accontentato, nel senso che l’offensiva ci fu: però i prigionieri li presero loro.
Quando si aprì la prima breccia tentò di minimizzare. Quando però la situazione si fece grave, si presentò, alla sera del 24 ottobre, a Cadorna, con la febbre a 39 e con 180 pulsazioni al minuto. Delirava. Promise di ricacciare indietro il nemico almeno di sei chilometri. Nel frattempo anche la sua armata si liquefaceva nel sangue. Nella notte tra il 24 e il 25 venne colto da attacchi spasmodici di vomito, crampi e cefalea. Nonostante la situazione fosse ormai compromessa, continuò a ordinare di contrattaccare.
Cadorna, dal canto suo, non aspettava altro che silurarlo e quell’occasione gli fu propizia. Lo sostituì con Montuori e la sua promettente carriera militare finì in quel momento. La commissione d’inchiesta su Caporetto lo bollò come “prodigo di sangue”. In più accertò che non valutò tempestivamente la minaccia incombente sull’ala sinistra della sua armata.
Capello negli anni successivi scrisse due libri (Per la Verità e Note di Guerra) con i quali cercava di discolparsi, ma inutilmente.
Quando Mussolini prese il potere divenne ardente fascista. Partecipò alla marcia su Roma indossando pantaloni grigio-verdi, camicia nera, fascia dell’ordine mauriziano a tracolla, tanto che Marcello Soleri ebbe l’impressione di vedere “un generale sudamericano”. Però, essendo sempre massone, si attirò le antipatie del Duce, il quale lo mise presto da parte.
Per tutta risposta Capello meditò di far fuori Mussolini incontrando l’ex deputato socialista Zaniboni e pianificando un attentato. Scoperto il piano entrambi vennero catturati e condannati a trent’anni di carcere. Capello, con la divisa di galeotto (numero di matricola 3264), ci rimase per due anni, poi fu trasferito in un ospedale data l’età avanzata. Nel gennaio del 1936 riottenne la libertà. Spirò nel 1941, il 25 giugno, in tempo per non vedere l’Italia andare incontro ad un’altra, più grande, disfatta.
Pietro Badoglio
BADOGLIO
Pietro Badoglio nacque il 21 settembre del 1871 a Grazzano, nel Monferrato, figlio di un proprietario terriero. Avviato giovanissimo alla carriera militare, partecipò come ufficiale di artiglieria in Eritrea e poi in Libia, dove si mise in risalto guadagnandosi una medaglia di bronzo.
Alla guerra giunse da tenente colonnello, ma qualche settimana dopo divenne generale di corpo d’armata perché guidò i suoi alla prese del Sabotino, dimostrando sagacia tattica e disciplina. Amato dalla maggior parte dei suoi uomini perchè, a differenza degli altri, non giocava a fare il macellaio, sapeva ragionare lucidamente in ogni situazione, instillando calma nelle truppe. Precisissimo in materia culinaria, a mezzogiorno preciso doveva andare a pranzo insieme ai suoi ufficiali: non importa cosa succedeva intorno.
Anche Badoglio, come Cadorna, era a conoscenza dei piani di attacco austro-tedeschi, solo che lui ci credeva. Il verbale di un suo rapporto del 10 di ottobre recitava: “In seguito alla riunione avuta ieri al comando di armata posso informare i signori comandanti di divisione che le voci di una offensiva austriaca contro di noi non solo prendono maggior piede, ma addirittura consistenza indiscussa in seguito ad alcuni dati avuti dai comandi superiori”. Quindi prese delle contromisure abbastanza adeguate, come l’ordine di tenere solo poche truppe in prima linea perché l’impatto dei gas al fosgene e delle mitragliatrici avrebbero aperto senza dubbio un varco enorme: questo avrebbe comportato una fiumana di soldati pronti a sommergere le seconde linee. Tenendo dietro la maggior parte delle forze, pensava di sostenere questo assalto.
Solo che non aveva calcolato il furioso impatto dei nemici e la razione di fuoco che i Tedeschi avevano riservato per la sua armata. Quando l’attacco ci fu le sue truppe vennero letteralmente travolte e macellate, mentre lui vagava per il campo inebetito e totalmente incapace di prendere decisioni sul momento. Aveva dimenticato (o meglio, non aveva calcolato) di porre delle file di artiglieria per contrastare l’avanzata nemica: i suoi soldati pagarono carissima questa sua lacuna.
Dopo la disfatta saltarono Cadorna, Capello, Cavaciocchi, Bongiovanni, ma non lui. Perché, non si sa. E’questione che è stata dibattuta negli anni, anzi nei decenni successivi.
Cadorna lo riteneva “una delle energie più fresche e promettenti”. La politica lo amava perché con lui si poteva dialogare. Anche la commissione d’inchiesta lo assolse quasi completamente, e forse possiamo capire perché.
Nella stesura originale, la commissione d’inchiesta aveva colpito anche lui, e non in modo lieve. In tredici, scottanti, pagine, si parlò delle sue indubbie responsabilità e della sua condotta assolutamente censurabile che era costata la vita alla sua armata.
Però, quelle tredici pagine, sparirono nel nulla. Di questa volatilizzazione ne parlò anni dopo il senatore Paratore: “Non appena iniziata l’inchiesta, e mentre ancora di combatteva, Vittorio Emanuele Orlando (presidente del consiglio) venne a conoscenza che l’indagine avrebbe accertato anche le responsabilità di Badoglio. Fu allora che mandò me dall’onorevole Raimondo, l’autore della relazione, per fermare tale inchiesta. Mi incontrai con l’onorevole Raimondo in una sala di Montecitorio e gli esposi il desiderio del presidente. Posso assicurare che ben 13 pagine riguardavano esplicitamente le responsabilità di Badoglio. Naturalmente non le lessi. E’comunque certo che furono sfilate dal faldone dell’inchiesta”.
Così, unico tra i generali della disfatta, Badoglio non solo si salvò, ma addirittura venne confermato ai comandi e promosso a sottocapo di Stato di Maggiore, addirittura secondo del nuovo generalissimo, Armando Diaz, il futuro “Duca della Vittoria”.
Più di vent’anni dopo, la stella fortunata di Badoglio lo irraggerà di nuovo, durante un’altra guerra.