Napoleone Bonaparte
Napoleone Bonaparte

Un uomo che possedeva una leadership incredibile, un carisma innato, una capacità di influenzare le vite altrui veramente unica nel panorama storico. Una Repubblica, quella francese, che accetta, dopo aver distrutto l’ancien regime, un capo ancora più assoluto, ancora più assetato di gloria, ancora più in cerca di guerre da combattere.
Tutte queste contraddizioni costituivano la base di potere di Napoleone Bonaparte: non c’è da stupirsi se tutti i suoi soldati, dal più umile al primo ufficiale, si sarebbero gettati nel fuoco per lui. Ma c’era un corpo d’armata, anzi il corpo d’armata d’èlite, che davvero avrebbe conquistato il mondo per la sua gloria: la Guardia Imperiale, o Garde Impèriale.

“Chi non ha visto la Guardia non sa cosa vuol dire fedeltà”. Lo dicevano tutti i Francesi, soldati e civili.
La Guardia, per Napoleone, ha significato una riserva suprema, da impiegare quando le cose andavano male o quando era necessario risolvere una situazione alla svelta. La comanda lui direttamente. Coloro che ne fanno parte li sceglie lui direttamente, e il suo giudizio è insindacabile. Venivano ricoperti di oro e di privilegi, avevano un trattamento infinitamente migliore degli altri, venivano ammirati e invidiati dalle truppe “normali”.
Nella storia è pieno di corpi di guardie reali. Lo zar aveva gli strelizi, il sultano i giannizzeri, l’imperatore romano i pretoriani, molti re di Francia avevano avuto la Maison du Roy (quella di cui il duca di Marlborough diceva: “Non si può battere la Maison du Roy, bisogna distruggerla”).
Napoleone fece la stessa cosa: non si fidava assolutamente delle milizie tradizionali, che potevano cambiare bandiera o condottiero a seconda del loro interesse. Si creò quindi da nulla una sua armata, totalmente dipendente da lui, con cui aveva un contatto diretto ogni giorno e soprattutto ogni secondo della battaglia. “Bisogna amare i soldati per comprenderli e comprenderli per poterli comandare. Io so che i miei uomini preferirebbero mangiare un tozzo di pane con me che del pollo a cento leghe di distanza. Loro non possono fare a meno di me, e io non posso fare a meno di loro”. Il grande Bonaparte aveva creato un legame di fratellanza, di confraternita, di amore, di dipendenza l’uno con gli altri che diverrà indissolubile nel corso della sua straordinaria epopea.
Li conosceva tutti, i componenti della Guardia. Conosceva le loro abitudini, le loro famiglie, i loro pregi e i loro difetti. Erano tutti uomini di acciaio, sempre con la baionetta innestata, pieni di cicatrici, fedelissimi. Potevano permettersi anche di chiamarlo confidenzialmente tondu, il rapato. Sì, perché chi faceva parte della Guardia poteva anche scherzare con l’imperatore, gli dava del tu e tranquillamente elargiva dei consigli. E Napoleone, sempre, scherzava con loro.
La Guardia era formata da gente di diverse nazionalità: Renani, Italiani, Spagnoli, Polacchi, Hassiani, Olandesi, Portoghesi. Tutti uniti da un solo legame: la fedeltà all’imperatore. La maggior parte di loro era gente da starci lontana (non solo per il fetore che emanavano). Erano in genere litigiosi, chiacchieroni, attaccabrighe, impertinenti. Spesso, anzi, sempre, volgari e ignoranti fino al midollo.

Entrare a far parte di quel corpo di èlite era difficilissimo. Bisognava avere almeno 25 anni, essere alti dall’1,78 in su, dimostrare di avere una salute di ferro, aver combattuto in tre campagne e saper leggere e scrivere. Solo nel 1804 nascerà la Giovane Guardia, dove venivano addestrati i Pupilli della Guardia, cioè gli orfani dei caduti nelle guerre, che tre anni dopo si immoleranno in una carica suicida nella difesa di Montmartre contro i Russi. Erano, questi, ragazzini dai 13 ai 16 anni, desiderosi solo di vendicare i propri genitori, fanatici finchè si vuole, assetati di sangue, ma disciplinatissimi come solo i matti sanno essere quanto trovano uno ancora più matto di loro: Napoleone.

Quando passava la Guardia tutte le altre truppe dovevano mettersi sull’attenti. Spesso le licenze fioccavano e mentre le truppe normali rimanevano mesi senza vedere i loro familiari, i privilegiati tornavano a casa quando desideravano. Altrettanto spesso erano loro a far scoppiare le risse nelle taverne, ma non ottenevano quasi mai dei richiami.
Però quelli che ne facevano parte avevano anche più doveri degli altri. Lo zaino che dovevano portarsi sulle spalle era molto più pesante. Ci stava entro: due paia di scarponi a suole chiodate, uniforme di ricambio di tela, sacco a pelo, ghette di ricambio (bianche, nere e grigie), camicia, quattro giorni di pane. Il pastrano arrotolato andava sotto lo zaino, il piumetto era fissato nel suo astuccio nel fodero della sciabola. Quando si marciava, dovevano essere perfettamente in fila. Spesso, per seguire l’imperatore a cavallo, dovevano marciare a passo di corsa per dei chilometri, con pause massime di dieci minuti. Quando poi Napoleone si fermava, la Guardia doveva allinearsi intorno a lui, sempre con l’uniforme pulita, l’aquila di bronzo lucida, la baionetta scintillante e le ghette di ordinanza. E allora quegli uomini, benché distrutti dalla fatica, aspettavano solamente il momento in cui Bonaparte li passava a salutare, pieni di orgoglio. Spesso, quando l’imperatore si avvicinava, lo abbracciavano con le lacrime agli occhi: e lui ricambiava. Spesso Napoleone rimaneva a parlottare con qualcuno, gli dava un buffetto, scherzava. E allora, colui che aveva il privilegio di quel trattamento, bruciava di orgoglio e in quel momento avrebbe affrontato, da solo, cento nemici.

La Guardia, come detto, veniva spesso lasciata fuori dal combattimento. Il corpo d’armata interveniva solo quando le cose si mettevano male. Nella campagna di Russia, ad esempio, diedero prova di incredibile coraggio. La cavalleria di Murat era stata battuta da Bagration e i Russi avevano cominciato a spazzare la steppa. Napoleone dovette ripiegare in ritirata. Alla Guardia il compito di battersi contro la forza russa, soverchiante. Ne muoiono a migliaia. Alla Beresina, il termometro segna 31 grado sottozero, ma gli uomini della Guardia reggono a spalle i ponti per far passare le truppe regolari. Nel mentre i più giovani si schierano “come un osso di traverso nella gola all’orso russo” dando il tempo ai soldati “normali”, che li guardano estasiati, di mettersi in salvo. Quei pochissimi che si salvarono, a cena insieme all’imperatore, al sicuro dietro le linee, si presentarono comunque con l’uniforme da parata perfetta e linda.
Napoleone, in Russia, viaggiava sulla slitta avvolto in una pelliccia grezza con un berretto di lontra in testa. A Krasnoie, il generale russo Kutuzov (uno dei suoi più grandi rivali), lo stava braccando da vicinissimo. Un mugico gli riferì che l’imperatore era nelle vicinanze con pochi uomini contraddistinti da un berrettone di pelo di orso. Kutuzov esclamò: “E’la sua Guardia Reale”. Benchè in numero inferiore quasi della metà, decise di aspettare ad attaccare: e con ragione. Il 15 novembre, infatti, i Russi vennero assaltati dalla Guardia, che silenziosamente attaccò e poi sparì nel nulla della steppa.

Ma come era composto l’armamento della Guardia? Principalmente fucili e moschetti calibro 17,1 mm. Le pallottole erano di piombo, sferiche, del peso di 25 grammi (20 libbre), la cartuccia di carta con carica di polvere da 12,5 grammi. Per caricare l’arma si apriva il bacinetto, si lacerava coi denti la cartuccia, si teneva tra le labbra la palla, si versava un po’ di polvere nel bacinetto, si chiudeva il coperchio, si versava il resto della polvere nella canna, si appallottolava la carta per fare lo stoppaccio, si infilava la palla nella canna e la si mandava giù con la bacchetta. Quindi si alzava il cane con la pietra fociaia e si prendeva la mira. Dopodichè si sparava a volontà. Velocità media di tiro: quattro colpi in tre minuti.
Ogni sessanta colpi si doveva pulire la canna. Quando le cartucce si inumidivano, sparare diventava difficile, così bisognava sempre stare più che attenti a tenere l’arma riparata. Il tiro mirato aveva una portata di 234 metri. Ogni soldato aveva in dotazione 60 cartucce.
Ogni fucile era munito della baionetta che si portava appesa alla daga: la sua durata teorica era di 25.000 colpi.
L’artiglieria della Guardia era composta da pezzi da 12, 8 o 4 libbre e da obici da sei pollici. I cannoni tiravano palle di ghisa con portata massima 900 metri. Oltre che a palla piena, i cannoni potevano tirare anche a mitraglia, con due tipi di “scatole”, una a 42 pallettoni di piombo, l’altra a 60-100 pallottole a seconda dei calibri. Durata massima di un cannone: 500 colpi.

Veniamo alle tattiche della fanteria. L’obiettivo principale era quello di occupare un terreno che consentisse un impiego di tutte le armi. La compagnia di fanteria della Guardia (150 uomini) si schierava su tre file su un fronte di circa 40 metri e in marcia procedeva con gli uomini in fila per tre o per quattro. La velocità di spostamento andava dai tre ai quattro chilometri all’ora. I tamburini segnavano il passo.
In battaglia applicava la tattica del “fuoco di fila” partendo da destra, oppure del “fuoco a volontà”.
L’attacco veniva effettuato in colonne di divisioni, cioè a compagnie affiancate a due a due, su un rettangolo figurato di 80-90 metri che poteva serrarsi a quadrato in caso di contrattacco della cavalleria.

Poi, la cavalleria. Di solito qui le tattiche sono più libere, lasciate all’inventiva degli ufficiali, di cui Napoleone si fidava ciecamente, cioè Murat. Ogni squadrone era su due compagnie di due plotoni ciascuna, divisi in venti file. La cavalleria marciava su strada in colonna per quattro, a circa sette chilometri all’ora. Si schierava di fronte o in colonna.
La carica veniva effettuata al galoppo, per gruppi di squadroni, reggimenti o brigate, a seconda della tattica prefissata. Prima della carica il mantello veniva messo a tracolla, arrotolato in modo da costituire un piccolo riparo per il torace.

L’artiglieria, infine. L’obiettivo principale era quello di occupare le alture e utilizzava dei ripari di fortuna come siepi o muretti. I pezzi si schieravano a una ventina di metri l’uno dall’altro. I tiri si effettuavano di solito contro la truppa di fanteria “ad alzo zero”.

Quando la fortuna voltò le spalle a Napoleone la Guardia Reale si sentì persa. Molti, quasi seicento, lo seguirono in esilio sull’Elba.
Quando però il grande Bonaparte tornò, ai primi di marzo del 1815, tutta la Guadia si ricompattò unita come sempre. Disposti a morire per lui, troveranno il loro destino a Waterloo.
Quella che si presentava nell’ultima battaglia non era più la Guardia di un tempo: mancavano uomini, armi, mezzi. La Francia, estenuata da vent’anni di sangue, non ce la fa più a donare i suoi figli alla morte. Eppure, non mancava la fiducia.
Il nemico, schierato, su un fronte di 150 chilometri da Liegi al mare, comandato da Wellington e Bluecher, aveva il sentore che Napoleone avrebbe aspettato. Invece, come al solito, attaccò. Il primo assalto si tradusse in una vittoria francese, ma poi Wellington riorganizzò i suoi Inglesi affrontando con forze superiori la cavalleria di Ney: quattromila morti ciascuno. Nel frattempo i Prussiani si stavano ricomponendo. Napoleone si era schierato su un fronte teoricamente favorevole e attaccò una posizione che lui credeva debole. In realtà, era forte: le notizie date dalla vedetta Haxo erano sbagliate anche perché Wellington aveva ordinato di tenere le seconde file indietro. Il vecchio volpone britannico conosceva Napoleone e sapeva che si fidava ciecamente dei suoi. Forse, un colpo di genio, poteva ancora salvare l’imperatore se avesse bloccato l’attacco e aggirato la posizione prussiana, la più debole. Gli squadroni di fanteria, invece, puntarono dritto e vennero massacrati dall’artiglieria nemica. Il generale Guyot, vista la mala parata, attaccò di sua iniziativa con la cavalleria restante e la Guardia: inutile bagno di sangue.
Gli ultimi della vecchia Guardia Reale attaccarono ancora fino alle otto di sera come degli arieti in una calca ormai disordinata. L’artiglieria inglese ribattè colpo su colpo falcidiando una sanguinosissima sequela di assalti perlopiù con l’arma bianca.
I pochissimi rimasti della Guardia, dopo ore di macello, ripiegarono. Visto quell’esempio, anche il resto dell’armata perdette fiducia. “La Guardia ripiega” gridarono i corazzieri. Il centro, allarmato da quella frase, si sfaldò come neve al sole. Per gli Inglesi di Adams fu un gioco impugnare i fucili e con freddezza britannica puntare e fare fuoco: “Aim! Fire”! Le scariche simultanee, precise e mirate delle armi inglesi falciarono le tre file francesi ancora in campo, tra cui il generale Michel e i colonnelli Cardinal e Angelet, oltre che 20 ufficiali e 300 uomini.
I pochissimi Francesi superstiti ripiegarono su Hougoumont, ma vennero presi di fronte da altre truppe inglesi comandate da Maitland, di fianco dalla legione tedesca e alle spalle dagli Hannoveriani. Circondati, si arresero.

Napoleone dopo la sconfitta andò a Sant’Elena, la Guardia si sciolse. Gli uomini che la componevano tornarono nelle loro case, dalle loro famiglie, derisi, presi a sassate, insultati. E’il destino dei soldati. La maggior parte di essi emigrò dalla Francia, alcuni anche in Texas. Soltanto all’arrivo di Luigi Filippo quegli uomini straordinari poterono tornare in pace nel loro paese, ripagandoli delle ingiustizie subite. Quel giorno, il 15 dicembre del 1840, i pochi componenti della Guardia Reale che ancora riuscivano a tenersi in piedi, rivestirono la loro uniforme e accompagnarono le ceneri di Napoleone, riportate dall’esilio, alla sua tomba.
Uno dei vecchi soldati vide addirittura tre secoli, caso forse unico. Era il tenente Markiewicz, componente dei cavalleggeri polacchi. Nato a Cracovia nel 1794, fece la campagna di Russia, venne decorato con la legion d’onore nel 1813, affrontò Waterloo e morì nel 1902. Avrebbe senz’altro barattato cinquant’anni di vita per incontrare ancora, anche per pochi minuti, Napoleone Bonaparte.