Leopoldo II del Belgio
Leopoldo II del Belgio

In pochi decenni, dalla fine del Settecento alla metà dell’Ottocento, il casato che vi regnava, i Wettin, occuparono i troni e i gradini più alti dell’aristocrazia europea del tempo. Tutto merito di Leopoldo Giorgio Cristiano Federico di Sassonia-Coburgo, semplicemente Leopoldo I, nato nel 1790, un giovane nobile di rara intelligenza e astuzia. A vent’anni si arruolò nell’esercito dello zar per combattere Napoleone Bonaparte, che odiava con tutto il cuore perché reo di mettere in pericolo le prerogative della nobiltà europea.
Dopo la vittoria di Waterloo si trasferì in Inghilterra, dove la sua bellezza gelida e malinconica si acconciava perfettamente con l’ideale byroniano dell’eroe romantico che in quel periodo andava in voga. La principessa ereditaria al trono inglese, Carlotta, se ne innamorò perdutamente e lo sposò, così Leopoldo divenne futuro principe consorte.
Sfortunatamente per il giovanotto, la moglie morì dopo solo un anno di matrimonio e lui si ritrovò quasi a piedi. Però nel frattempo aveva mantenuto le relazioni diplomatiche con l’establishment britannico, venendo nominato duca di Kendall (un titolo più che altro formale) e soprattutto entrando nella massoneria di rito scozzese.
Allo scoppio della prima tempesta rivoluzionaria del 1830 l’Inghilterra pensò a lui come re della Grecia, che in quel periodo stava sollevandosi contro gli Ottomani. Non se ne fece nulla perché gli si offrì un altro “posto” molto più interessante.
Le popolazioni delle province belghe avevano scacciato gli Olandesi e aspettavano un re dalle grandi potenze europee che le potesse guidare nella corsa al colonialismo. Leopoldo era fatto apposta per quel compito: l’idea venne a Talleyrand, ambasciatore a Londra, che di fatto inventò il Belgio. O meglio, inventò il nome, visto che fu Leopoldo a inventarlo come nazione a sé stante.

Nessuno era più adatto di lui a quel trono. L’unico che poteva obiettare qualcosa era il nuovo re di Francia, Luigi Filippo d’Orleans, succeduto ai Borboni. Tuttavia Leopoldo aggirò il problema sposando proprio la figlia di Filippo. In tal modo diventava il prediletto dei troni di Francia, Inghilterra e Russia. Nel contempo, naturalmente, il suo Belgio diveniva il “cocco” di queste tre potenze. E, naturalmente, essendo tedesco, conservava relazioni perfette con tutta la Germania pre-unificazione.
Le cose migliorarono ulteriormente quando sul trono inglese di mise a sedere (e ci rimase per parecchi decenni) la nipote Vittoria, figlia di Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld. Attraverso una serie di lettere giunte sino a noi abbiamo la certezza che la giovane Vittoria pendeva dalle labbra dello zio Leopoldo, tanto da accettare senza fiatare il consiglio di sposare un altro componente della casata di Sassonia-Coburgo-Saalfeld, Alberto.

Si capisce da questo “humus” nobiliare che Leopoldo era un sovrano importantissimo negl’equilibri europei. Quando gli nacque il primo figlio, battezzato anch’egli Leopoldo, il suo trono si cementò ulteriormente. Il giovane principe erediterà dal padre l’alta statura e dalla madre il lungo naso e il mento pesante tipici degli Orleans, particolare che scomparirà quando comincerà a farsi crescere il vistoso barbone per cui divenne celeberrimo all’epoca.

E qui lasciamo il vecchio Leopoldo e ci occupiamo del giovane Leopoldo, che subito darà prova di sé come studioso di geografia, soprattutto dei paesi lontanissimi. Fin da piccolo nutrirà questa grandissima passione per la Cina, per l’Africa e per i paesi del Nord, che col tempo visiterà assiduamente.
Nel frattempo però bisognava sposarlo: la scelta cadde su una ragazza della famiglia degli Asburgo (che in qualche modo ci mette sempre uno zampino negli alberi genealogici internazionali), Maria Enrichetta. La moglie, tipica austriaca bigotta, non sarà molto felice di constatare che il marito amava molto viaggiare anche per conoscere le bellezze femminili di ogni luogo: prediligeva in particolar modo le ballerine del ventre dell’Egitto. La gelosia che dimostrò sempre non faceva comunque desistere Leopoldo dalle sue avventure sentimentali, come vedremo nel corso del nostro racconto.
Se nelle faccende sentimentali era molto confusionario (nel senso che cercava di sedurne molte contemporaneamente), in quelle statali era assolutamente teutonico: seguiva una linea e finchè non perseguiva il suo obiettivo non la lasciava. Il suo chiodo fisso era quello di dare al Belgio delle colonie. Quando fece ritorno da Atene si portò dietro una pietra staccata dall’Acropoli sulla quale aveva fatto incidere la frase: “Il Belgio ha bisogno di una colonia”.
In effetti la sua idea era comune all’epoca: dopo la scorpacciata americana e orientale, rimaneva solo il continente nero da colonizzare, e lì c’erano risorse naturali e umane davvero infinite. Non era un compito facile perché l’Africa rimaneva una terra pericolosa, quasi completamente ignota, difficilmente gestibile dall’Europa.
A trent’anni, alla morte del padre, salì al trono con quell’obiettivo in testa, ma dovette scontrarsi con la realtà. Il Parlamento belga ostacolava la sua volontà di espansione, dimostrando in quello una grande ottusità tipica dei “provinciali”. Soprattutto il partito liberale rifiutava la coscrizione obbligatoria, indispensabile per creare un esercito adeguato alla conquista di un territorio coloniale. Nel contempo i cattolici combattevano il suo desiderio di sottrarre al clero l’istruzione, rendendola laica.
Ai problemi statali se ne aggiunsero altri due.
Uno, di natura familiare, era grave. La regina gli aveva dato due femmine, Luisa e Stefania, e un maschio, che però era morto ad appena nove anni. Un erede, per la continuazione del ramo dinastico, era fondamentale, e così Leopoldo fu costretto a continuare a provare a mantenere le relazioni difficili con Maria Enrichetta, la quale invece lo odiava per le sue continue infedeltà. Il risultato di questo riavvicinamento fu però “solo” la nascita di un’altra femmina, Clementina: da quel momento la regina vivrà da separata di fatto dal marito, sempre in fuga in castelli lontani.

Maria Enrichetta del Belgio
Maria Enrichetta del Belgio

Altro problema, lo scacchiere politico. Nel 1870 la guerra franco-prussiana rischiò di travolgere il piccolo Belgio che rimane nel mezzo. Lo staterello però ne uscì quasi indenne grazie a Leopoldo, che organizzò alla bell’e meglio un esercito in grado di respingere i Francesi che cercavano di rifugiarsi in territorio belga, dove i Prussiani sarebbero stati costretti ad inseguirli violandone la neutralità espressa in tutti i trattati internazionali.
Alla fine di questa guerra, il Belgio ne uscì rafforzato. Si era mantenuto neutrale e poteva ora accostarsi al tavolo delle spartizioni territoriali con voce in capitolo.
Da quell’anno, il 1870, l’Europa depone le armi e si butta a capofitto nell’avventura africana. L’Inghilterra, la Francia, la Germania (ora unita), il Portogallo e anche l’Italia mirano a qualche conquista coloniale. I desideri dei troni europei vertono soprattutto sulle fasce costiere, meglio raggiungibili ed esplorabili, ma soprattutto molto appetitose come approdi commerciali.
I primi a cercare di penetrare in quel continente ignoto e difficile furono gli esploratori e i missionari, poi però cominciarono a muoversi gli eserciti. Leopoldo, che aveva studiato carte geografiche dettagliatissime (per l’epoca) dell’Africa, si mise in contatto proprio con alcuni esploratori che erano ritornati in Europa. Cercava da loro le informazioni giuste su come e dove provare a colonizzare. Le trovò in un inglese, Henry Morton Stanley, un giornalista mandato in Africa per cercare un missionario, David Livingstone, da trent’anni sparito nel nulla.
Questo Stanley è un personaggio affascinante. Figlio naturale di una domestica inglese e di un fattore di campagna (quindi un bastardo), ebbe un’infanzia degna di Dickens, cioè miserabile. Arruolato come mozzo a 15 anni, venne adottato da un americano che gli diede il suo nome e ne intuì le potenzialità. Il ragazzo era sveglio, intelligente e britannicamente spregiudicato: a ventisei anni fu lui a far conoscere all’Inghilterra, quando ancora lo stesso governo britannico la ignorava, la vittoriosa spedizione di lord Napier in Etiopia contro il negus Teodoro.
Verso la fine del 1871 Stanley partì dalla costa di Zanzibar e per 235 giorni andò alla ricerca del missionario Livingstone nella pericolosissima zona dell’Africa Equatoriale. Il duecentotrentacinquesimo giorno, finalmente, incontrò il suo “ricercato speciale”. Quando lo vide asserì molto britannicamente: “Il dottor Livingstone, suppongo”.
Tre anni dopo Stanley tornò di nuovo in Africa, inviato del Daily Telegraph, con la missione di scoprire le sorgenti del Nilo e di esplorare la regione dei grandi laghi.

Leopoldo, attentissimo alle imprese di quel britannico, nel 1876 convocò una Conferenza Internazionale Africana a Bruxelles, dove si incontrarono i grandi geografi, esploratori e missionari che avevano esperienza in quel settore del mondo. Un’idea geniale che dimostra l’intelligenza e la sagacia di quel sovrano. A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, quasi tutti degl’inetti smidollati e senza interessi a parte il gioco, le donne o la caccia, lui voleva effettivamente rendersi utile per la sua nazione.
Leopoldo, in quella conferenza, fa da protagonista. Pur mantenendo un ruolo istituzionale, manovra e dirige le riunioni allo scopo di creare una Associazione Internazionale Africana che combatta lo schiavismo e promuova lo sviluppo economico e sociale dell’Africa. Una trovata geniale, che gli consente di essere nel contempo re dei Belgi (quindi schiavista) e presidente di un ente internazionale (quindi antischiavista e protetto dall’immunità). Grazie a questa formula egli si costruirà un impero immenso, personale, da far impallidire il piccolo stato del quale era sovrano.

Nel frattempo Stanley continuava a esplorare l’Africa. Dopo aver scoperto le sorgenti del Nilo Bianco e setacciato la regione dei laghi, si inoltrò sul corso di un fiume, il Lualaba. La spedizione divenne una sorta di viaggio leggendario su piroghe di fortuna, in mezzo alla natura feroce e cataratte altissime. Insieme a lui un personaggi pittoresco, Tippo Tib, uno schiavista nero che aveva fatto un’immensa fortuna. Dei 360 uomini che componevano la sua squadra, ne muoiono 245. I vivi arrivarono stremati alla meta, cioè la stazione portoghese di Boma. Stanley aveva attraversato il Congo, un territorio sconosciuto e ancora “vergine”. L’impresa giunse alle orecchie attente di Leopoldo, che organizzò un incontro per conoscere quel promettente esploratore. Ecco dunque Stanley su un treno speciale in viaggio per la capitale del Belgio, Bruxelles: nel giugno del 1878 i due si incontrarono per la prima volta, e fu subito intesa.
Non si potrebbero immaginare due uomini così diversi fisicamente. Leopoldo era altissimo, maestoso, con la barba grigia da patriarca. Stanley basso ma muscoloso, con grossi baffi spioventi e gli occhi azzurri sporgenti.
Stanley apparì a Leopoldo come la sua guida, mentre Leopoldo apparì a Stanley un sognatore, uno che davvero avrebbe a cuore il destino dell’Africa.

Leopoldo pose subito delle basi concrete per la colonizzazione del Congo. Innanzitutto, costruire una ferrovia che colleghi le due parti del territorio per aggirare le cateratte. Secondo: creare un comitato degli studi dell’Alto Congo con cui si finanzieranno le future esplorazioni di Stanley. Terzo: assumere Stanley come suo esploratore personale.
Da quel momento l’esplorazione del Congo divenne una realtà. L’Associazione Internazionale Africana e il comitato degli studi, insieme all’oro del Belgio, diedero l’impulso economico per organizzare tutte le spedizioni e soprattutto per avviare la colonizzazione vera e propria. In poco meno di un decennio nacquero, in quel territorio selvaggio, stazioni di posta, villaggi, un piccolo esercito e una bandiera, azzurra con una stella d’oro.
Stanley divenne per gli indigeni africani il Bula Matari, il distruttore di rocce, perché faceva saltare con l’esplosivo (da loro sconosciuto, naturalmente) tutti gli ostacoli naturali che si frapponevano sul suo passaggio.
L’inglese, fino a un certo punto, dominava incontrastato in quella terra. Ma, giunto al limite del Congo, ecco la brutta sorpresa. Anche la Francia si era organizzata e grazie a un italiano, Pietro Savorgnan di Brazzà, lo aveva preceduto. Lo scontro tra i due esploratori è memorabile. L’italiano, nerissimo come un africano, alto, con la divisa lacera, si trovò di fronte l’inglese, basso, con la divisa linda e i modi da lord britannico. Da questa rivalità nacque la divisione del Congo. Nella parte settentrionale sorse Brazzaville, in onore di quell’italiano, mentre in quella meridionale nacque Leopoldville. Entrambi gli esploratori si attivarono per concludere accordi di pace con le tribù indigene, anche se alcuni verranno siglati col sangue.

Leopoldo, quando seppe che doveva dividere il Congo con la Francia, ci mancò poco che facesse scoppiare un incidente diplomatico. Poi però, siccome era tedesco e quindi gelido, ragionò: “Bisogna ogni tanto lasciarsi dare un calcio, ma a condizione di restituirne tre. Sennò, non c’è tornaconto”.
Lo Stato Indipendente del Congo, di cui Leopoldo divenne sovrano, venne riconosciuto da tutti i pari europei e anche dagli Stati Uniti, nascente potenza commerciale e militare.
L’impero di Leopoldo era grande ottanta volte il piccolo Belgio. Si trattava di sfruttarlo adeguatamente. Radunò intorno a sé un gruppo di ingegneri e ufficiali belgi, da lui personalmente scelti tra i più furbi e coraggiosi, mandandoli a fare le sue veci in Congo.
Il problema principale da risolvere, però, era l’egemonia degli Arabi nel mercato degli schiavi. Questi si costruivano dei veri e propri imperi commerciali smerciando gli esseri umani: si trattava di togliere loro quel primato, non di eliminare la schiavitù. E infatti, grazie alle missioni cristiane del cardinale Lavigerie, fondatore dei Preti Bianchi, avviò una clamorosa campagna anti-schiavisti arabi. Solo che quella campagna non era solo “sociale”, ma anche militare. E braccio armato del Belgio, il tenente Dhanis, compì le più terribili atrocità per vincerla. Quell’ufficiale aveva il compito di spingersi nell’Africa Equatoriale verso il Sudan e il Nilo, cercando di conquistare ed estendere il territorio del Congo, ormai chiamato Belga. La sua impresa maggiore la ottenne battendo sul tempo l’inglese Cecil Rhodes, che con le sue truppe cercava di soffiare ai Belgi la ricchissima regione del Katanga, piena di miniere. Dhanis, mietendo vittime (non si ha idea quante) tra le tribù africane che ostruivano il suo transito, arrivò prima e piantò la bandiera di re Leopoldo.

Da quel momento il Congo Belga divenne uno degli stati più schiavisti dell’Africa. Inoltre Leopoldo introdusse l’obbligo per tutti, quindi anche per gli indigeni neri, di pagare le tasse. Questi, poverissimi, dovettero quindi sottomettersi agli europei lavorando per un tozzo di pane e versando nelle casse dell’erario belga tutte le risorse del territorio, come caucciù e avorio, che andavano per la maggiore nell’Europa nobiliare di fine Ottocento. Coloro che si ribellavano o tentavano di farlo venivano trucidati insieme alle famiglie. Chi si occupava di quelle purghe erano i membri delle tribù rivali, per lo più cannibali, che mangiavano i corpi degli esseri umani uccisi: riportavano solo le mani per testimoniare le avvenute esecuzioni.

Il caucciù e l’avorio cominciarono ad arrivare in modo assiduo nel porto di Anversa, inondando di denaro il tesoro belga e quello personale del sovrano. In più le miniere del Katanga partorivano continuamente rame, argento e stagno. Tutto il Belgio si arricchisce. Moltissimi imprenditori belgi diventano dei magnati della finanza: alcuni addirittura finanzieranno i primi tram a Torino, altri fonderanno la prima azienda chimica mondiale, altri ancora investiranno nelle principali banche internazionali.

In Belgio Leopoldo rimaneva un sovrano costituzionale, con un parlamento cui dare conto. In Congo, invece, era un satrapo, un re, un faraone. La moglie, rinchiusa nelle sue ville e nei suoi castelli, l’aveva dimenticata da tempo immemore. Forse non ne era mai stato neanche innamorato. Le sue tre figlie subiranno la sua tirannia in modo atroce. A tutte impose di sposare chi voleva lui, e tutte lo odieranno a morte.
La vita la conduceva quasi sempre nella Ville Lumiere, a Parigi, il centro nevralgico della vita mondana dell’epoca, la Belle Epoque. Nasceva lo stile, arzigogolato e inneggiante al rococò, che passerà alla storia come liberty. Nella capitale francese nascevano teatri, ristoranti, cabaret, caffè, che diverranno celebri come monumenti.
Le regine di Parigi erano le cortigiane, o vedettes, per le quali i principi e i nobili europei si indebitavano fino al collo: su tutte le più belle erano Liane de Pougy, Emilienne d’Alencon e Carolina Otero.
Leopoldo le conobbe tutte. Con lui viaggia sempre il principe di Galles, il futuro Edoardo VII, che si era perdutamente innamorato di Clèo de Merode, tanto che le malelingue avevano soprannominato quel re libertino “Cleopoldo”.

Da buon tedesco, però, Leopoldo non stava a Parigi solo per mantenere le sue amanti. Curava gli interessi finanziari suoi e del suo regno, anzi dei suoi due regni. E li mandava avanti alla grande.
Solo alla fine divenne succube di una donna, Caroline Lacroix, della quale si innamorò perdutamente a settant’anni.
La donna era tutt’altro che nobile. Figlia di una portinaia parigina, era grezza, volgare, litigiosa, attaccata al denaro come una pezzente. Leopoldo la trattava come una regina (anzi, come non aveva mai trattato la sua regina), la portava con sé nei più begli alberghi d’Europa, nelle stazioni termali più in voga, nei casinò. E lei, invece di essergli grata, gli piantava sempre delle scenate clamorose di gelosia: tra l’altro, totalmente immotivate.
Il povero Leopoldo finì travolto dalle polemiche perché spuntavano come funghi i figli illegittimi.
A settantacinque anni, nell’inverno del 1909, Leopoldo si ammalò dopo una difficile operazione intestinale. Da buon cattolico, non volle morire in peccato e allora sposò ufficialmente Caroline. Al suo capezzale arriveranno anche due figli bastardi e il successore designato, il nipote Alberto, tutto l’opposto di Leopoldo, che diverrà per tutti “il re soldato”, quando si oppose all’invasione tedesca del Belgio.
Per i sudditi Leopoldo rimase sempre un re troppo grande per un piccolo stato come il Belgio, nato da poco e da lui fatto diventare adulto troppo in fretta. Il Congo, la sua creatura, arriverà all’indipendenza solo nel 1960.