L'ammiraglio giapponese Togo Heihachiro
L'ammiraglio giapponese Togo Heihachiro

LA GUERRA

Nella notte tra l’8 e il 9 febbraio del 1904, al largo di Port Arthur (che oggi si chiama Lushun ed è cinese), uno dei maggiori porti russi sul Pacifico, una flottiglia di torpediniere giapponesi venne avvistata da due navi da guerra russe. Nessuna dichiarazione di guerra era ancora stata formalizzata. Nonostante ciò, la flotta nipponica aprì il fuoco. Il grande incrociatore russo Pallade fu colpito a mezza nave, in un carbonile, e sbandò di dieci gradi. Sulla corazzata Cesarevic i siluri scoppiarono nel locale del timone, che imbarcò acqua facendo inclinare lo scafo a babordo. La Retvitzan venne colpita nella camera di lancio.
Quando i Russi cominciarono a rispondere al fuoco giapponese era ormai troppo tardi. Evidentemente fu a Port Arthur che i Nipponici sperimentarono la carta dell’attacco a tradimento, come poi ripeteranno con successo sempre nel Pacifico, stavolta contro gli Americani.

La formale dichiarazione di guerra, come detto, arrivò solo il 10 febbraio 1904.
Anche la Russia voleva la guerra, beninteso. Lo zar Nicola aveva confidato all’imperatore Guglielmo II, nel 1903, che avrebbe sicuramente attaccato il Giappone. La sua volontà di scontrava con quella dello stato maggiore dell’esercito, conscio di due problemi immensi che avrebbero incontrato i soldati zaristi. Primo: ci sarebbe state enormi difficoltà logistiche a gestire quel conflitto in quella zona del vastissimo Impero Russo. Secondo: gli armamenti e le navi erano molto inferiori a quelle dell’avversario. Solamente la grandissima massa di soldati russi avrebbe potuto fare da contraltare alla superiorità nipponica.
Lo stesso comandante in capo dell’esercito in Estremo Oriente, Kuropatkin, aveva fatto tutto quello che poteva per evitare la guerra. Così anche l’ammiraglio Rozestvenskij, l’eroico quanto sfortunato comandante della flotta russa nel Baltico, mandata in soccorso a quella pacifica con una traversata che, per le sue vicissitudini, va guardata come una delle più epiche imprese navali di tutti i tempi.
Però, obiettivamente, allo zar quel conflitto serviva, e anche molto. Bisognava ottenere una vittoria di pregio per rinsaldare il potere e soprattutto stoppare sul nascere le velleità giapponesi. Nicola II fu quasi costretto ad accettare la guerra.

L’uomo di fiducia dello zar in Estremo Oriente divenne l’ammiraglio Alekseev. In lui si riponevano le speranze di trionfo. Figlio naturale dello zar Alessandro II, risiedeva nel palazzo del governo, sulla Montagna d’Oro, a Port Arthur. Era un bell’uomo, imponente, di alta statura, con la barba lunga e ben tenuta, mani curate, perfetto gentiluomo ottocentesco. Aveva quasi sempre vissuto in Asia e aveva preso molte abitudini dei mandarini cinesi: non fidarsi di nessuno, tacere le proprie opinioni, mettere sopra ogni cosa il proprio interesse (non quello della Nazione, si badi bene). Però era un grande stratega e uno dei pochissimi russi in grado di raccapezzarsi nello scacchiere dell’Estremo Oriente.

Nonostante il successo di febbraio, Togo non forzò il blocco di Port Arthur, limitandosi a sporadiche incursioni nel nord della Corea. La svolta del conflitto avvenne in modo fortuito e fortunato per i Giapponesi. Alle 9,53 del 13 aprile 1904 la corazzata Petropavlosk, uno dei gioielli della flotta russa nel Pacifico, venne affondata dall’urto di una o più mine (non si è ancora certi sul numero preciso) poste fuori dal porto. L’ammiraglio, Makarov, ebbe le sue incredibili colpe. Pagò con la vita la sua troppa sicurezza e l’essersi esposto al pericolo. Oltre a lui, morirono anche 600 uomini, tra cui 31 ufficiali. Il granduca Cirillo venne salvato fortunosamente insieme ad alti 80 uomini.
L’ammiraglio nipponico, Togo, si sentì allora in grado di passare all’offensiva vera, quella condotta via terra. La 1°armata giapponese sbarcò a Chinnampo e avanzò indisturbata sino alle foci dello Yalu. Il primo maggio incontrò i Russi e li distrusse in una battaglia che definire tale è fuorviante da tanto fu facile per i Nipponici.
La 3°armata giapponese, nel frattempo, muoveva da Pitzewo per attaccare Port Arthur, il bersaglio grosso. La città russa divenne una cittadella assediata.

La flotta russa del Pacifico tentò di uscire da Port Arthur e raggiungere Vladivostok, ma venne attaccata e semidistrutta. Quattro giorni dopo anche una piccola flotta uscita da Vladivostok subiva la medesima sorte al largo dell’isola di Tsushima.
L’ammiraglio Togo, che era diventato una specie di divinità in patria, passò quindi alla fase 2 della guerra, cioè alla conquista degli avamposti di Liaoyang e di Mukden, oltre a mantenere l’assedio di Port Arthur.
Kuropatkin, quello che non voleva la guerra, fu costretto a prendere il comando delle forze russe rimaste. Era l’unico dei generali zaristi che cercava di risparmiare le vite dei suoi uomini (e infatti non era ben visto dai suoi colleghi). Disprezzava lo zar e Alekseev. Non nascondeva neppure una certa simpatia per certe idee rivoluzionarie: infatti nel ’17 lo troveremo nel governo bolscevico.
Giunto nel quartier generale di Liaoyang, constatò con i suoi occhi l’impreparazione delle truppe. Poco c’era da fare. La battaglia che si scatenò il 24 agosto e si concluse il 4 settembre fu la più sanguinosa del conflitto. I Russi però si batterono con estremo coraggio e per la prima volta dall’inizio della guerra riuscirono a fermare l’avanzata nipponica. Addirittura, il 4 ottobre, fu lo stesso Kuropatkin a contrattaccare. L’azione, molto rischiosa, non riuscì perché i Russi mancavano quasi totalmente di artiglieria. Vista la non riuscita della missione, Kuropatkin cercò di salvare il salvabile ritirandosi a nord del fiume Chaho e lì si stabilì in attesa di rinforzi.

In teoria avrebbe dovuto arrivare una flotta dal Baltico, ma ad ottobre questa era ancora impantanata nel mare del Nord. Togo, vecchia volpe, sapeva di dover chiudere la partita prima che arrivasse quella flotta acciaccata ma comunque temibile. Per questo forzò il blocco di Port Arthur e il 2 gennaio la conquistò. Con la caduta di quella fortezza, i Giapponesi avevano in pugno la vittoria. La 3°armata nipponica, la più numerosa e possente, distrusse a più riprese i Russi presso Mukden.

La situazione, per lo zar, stava volgendo alla tempesta. Il 22 gennaio del 1905 il prete Gapon organizzò una pacifica manifestazione popolare contro il proseguimento della guerra.
Duecentocinquantamila persone marciavano verso il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo. Non si sa se tutti avessero intenzioni pacifiche. Gapon reggeva in mano, come fosse un’icona, una petizione contenente delle richieste da portare all’attenzione di Nicola II. La folla venne accolta con una raffica di mitraglia dalla guardia imperiale e dalle cariche dei cosacchi. Il sangue di migliaia di innocenti venne sparso davanti a quella reggia straboccante di ori e di lusso. Finiva il “mito” dello zar buono, mal consigliato dai suoi cortigiani, quale era considerato dal popolo Nicola II.

Kuropatkin, nel frattempo, cercava di limitare i danni. Sul finire di gennaio, la concentrazione di truppe giapponesi si fece quasi insostenibile. Ai primi di febbraio arrivarono alcuni rinforzi russi e così il comandante zarista decise di passare all’offensiva, ma venne prevenuto dal generale Oyama, che attaccò in anticipo le fortificazioni intorno a Mukden. Kuropatkin, vista l’impossibilità di proseguire, ordinò una ritirata, che cominciò nella notte del 10 marzo. Purtroppo per i Russi, una tempesta di sabbia disorientò i già disastrati reparti russi, consentendo ai Giapponesi, che invece avanzavano compatti, di catturare migliaia di prigionieri.
Lo zar sapeva di avere perso la guerra. L’avrebbe capito anche un idiota che continuare significava portare al macello altri uomini. Ma lui decise di proseguire. La flotta russa partita dal Baltico era ancora lontanissima dal Pacifico e non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare in tempo per cambiare le sorti della guerra. Eppure Nicola II confidava, utopisticamente, in quella flotta.
Il colpo finale i Giapponesi lo diedero il 27 maggio nella seconda battaglia di Tsushima. Fu un’ecatombe di ferro e sangue. Togo si dimostrò anche un campione di umanità. L’ammiraglio Rozestvenskij, ferito, finì prigioniero dei Giapponesi e portato all’ospedale di Sasebo. Il comandate nipponico lo raggiunse nella stanza dove il russo giaceva ricoperto di bende, gli prese la mano e gli disse: “La sconfitta è una sorte che può capitare a chiunque di noi. Nessuno deve vergognarsene. Ciò che importa è soltanto fare il proprio dovere. Durante la battaglia lei e tutti i suoi soldati avete compiuto delle gesta meravigliose. Vorrei esprimerle il mio rispetto, e insieme il mio rincrescimento. Spero che guarisca al più presto”.
Rozestvenskij rispose piano, sofferente: “La ringrazio di essermi venuto a trovare. Non mi vergogno di essere stato battuto da lei”.
Così usava tra uomini d’onore. Uomini con la U maiuscola, non come lo zar o Alekseev, che mai si presentò sul campo.

Lo zar di Russia Nicola II
Lo zar di Russia Nicola II

LA PACE

La pace venne stipulata il 5 settembre a Portsmouth, nel New Hampshire, con Roosvelt come mediatore. La Russia riconosceva il protettorato del Giappone sulla Corea e rinunciava alla penisola di Liaotung. Inoltre cedeva Port Arthur e Dairen, oltre a tutta la Manciuria.

I Giapponesi erano saliti al rango di potenza internazionale. Divenuto il dominatore incontrastato dell’Asia orientale, il popolo nipponico non fu però interamente soddisfatto. Le concessioni non soddisfacevano interamente i Nipponici, che infatti scesero in piazza a Tokio, Nagasaki e Sasebo. L’imperatore capiva quel sentimento di “vittoria a metà”, ma più non si poteva pretendere. Con un proclama fece presente che quella vittoria era costata mezzo milione di soldati, un’economia in recessione e disordini sociali. La pace, quella pace, significava ricostruire partendo da ottimi presupposti e importanti territori acquisiti.

La Russia, invece, moriva lentamente. Il regime zarista dovette far fronte a più di cento ribellioni in diverse città. Nacquero i primi soviet. A Odessa la corazzata Potemkin divenne uno dei simboli di questa nascente constatazione della inutilità di Nicola II e del suo potere.
L’esercito, che ancora una volta ha dimostrato la sua fragilità, difese lo zar. Ma per quanto ancora potrà farlo? Per quanto ancora potrà ignorare il grido di dolore del popolo russo?