Jomo Kenyatta
Un risorgimento kenyota che ancora oggi viene ricordato dalle orchestre degli alberghi di Nairobi con la canzone Pole Mze, che significa “Vai adagio Vecchio” e che parla così: “Non preoccuparti, vecchio – un giorno ti faremo uscire dal carcere – Vecchio Kenyatta ti hanno imprigionato – perché tu ami il Kenya – il Kenya ha bisogno di te – Noi tutti amiamo il Kenya – non preoccuparti mamma – Kenyatta ama il Kenya”.
La ballata che parla di libertà è nata spontaneamente in quegli anni di sangue e di odio verso i dominatori britannici, titolari indiscussi del territorio kenyota, gli sfruttatori bianchi (come erano tutti i bianchi in Africa in quegli anni). La ballata inneggia a lui, Kenyatta, leader del movimento Mau-Mau, il padre della patria del Kenya.
Nasce nel 1890, o nel 1889, o nel 1893 (si sa come vanno certe cose in Africa). Figlio di pastori kikuyu, abita a Ichaweri, un villaggio di frontiera poverissimo dove le uniche sembianze bianche sono rappresentate dai pastori protestanti scozzesi in missione per conto del Nostro Signore. A cinque o sei anni i genitori lo abbandonano. La tribù dei kikuyu è una delle più povere del paese ma anche una di quelle più fiere. Probabilmente il giovane Kenyatta è stato venduto a qualche pastore protestante e ora lo troviamo a Nairobi, la capitale, a fare il falegname. I padri scozzesi lo hanno preso sotto la loro protezione perché il bambino è sveglio e intelligente. Apprende l’inglese in una casa padronale dove lavora come sguattero, ma in brevissimo tempo diviene qualcosa di simile ad un leader politico. Nel 1922 si iscrive all’Associazione Centrale dei Kikuyu, che difende i diritti della sua tribù contro le persecuzioni nere. La stoffa del capo ce l’ha già, ma ha bisogno di affinarsi: per questo nel 1929 vola a Londra (sempre finanziato dai padri protestanti scozzesi) per cercare di convincere qualcuno, nel Parlamento britannico, di ascoltare le lamentele del suo popolo.
In Kenya, all’epoca, ogni europeo possedeva 240 ettari di terra buona e servita da strade: al contrario, ogni indigeno ne deteneva tre ettari, e di quella malvagia, difficilmente coltivabile se non al prezzo di immensi sacrifici. Per i kikuyu bastava una stagione rovinata dalla siccità per provocare una morìa devastante.
Ma perché a Londra ci va proprio lui, Jomo Kenyatta? Perché ha fondato un giornale in lingua kikuyu (Muigwithania), è un devoto credente cristiano, predica il Vangelo. Non è, quindi, un “selvaggio” come si potrebbe immaginare.
Kenyatta viaggia in tutti i villaggi della sua nazione con le Scritture sotto il braccio ma non tralascia neppure le città dove vivono gli operai delle fabbriche: “Lo Spirito Santo farà sì che i kikuyu possano interpretare il Vangelo senza avvalersi di missionari stranieri. Da soli scopriremo quali segreti nascondono i preti inglesi. E quando li scopriremo niente sarà impossibile per noi. Le pallottole dei fucili nemici si trasformeranno in acqua”.
Gl’Inglesi lo lasciano perdere perché di predicatori così ce ne sono tantissimi, a quel tempo, in Kenya e nell’Africa nera. Semplicemente non ritengono che gli indigeni, quelli che sprezzantemente chiamano monkeys “scimmie”, possano avere l’intelligenza per organizzare una rivolta. Eppure dovrebbero aver paura di quella tribù, i kikuyu, che contava almeno un milione e ottocentomila persone sui sei milioni abitanti totali della nazione kenyota. Ma i sudditi di Sua Maestà, pur essendo una minoranza esigua, li continuano a sottovalutare.
Kenyatta va a Londra e ci rimane per sedici anni. Oltre ai preti scozzesi, lo finanziano i suoi compatrioti, ognuno dei quali gli versa un piccolo obolo. I kikuyu hanno fiducia in lui: li ripagherà. Si iscrive all’università a quarant’anni. Vive col cantante Paul Robenson che fa conoscere all’Europa i canti spirituals dei neri, i progenitori del blues. Conosce anche lo scrittore sudafricano Peter Abrahms e la sua denuncia all’apartheid. Fa amicizia con il leader del partito laburista Ramsay MacDonald. Intraprende un viaggio in Russia dove si iscrive all’Internazionale Comunista.
Nel 1946 Kenyatta ritorna in patria e scopre che la sua tribù è diventata ancora più numerosa. Gli serve solo una guida, cioè lui. La Seconda Guerra Mondiale ha dato loro la consapevolezza che i bianchi non sono uniti, ma si combattono tra loro proprio come tutte le tribù africane. In più i kikuyu scoprono che i bianchi possono subire la fame e la prigionia proprio come loro: nelle riserve (anzi, nei campi di concentramento) kikuyu vengono internati molti soldati tedeschi ed italiani catturati in Africa Orientale. Come sono vulnerabili, ora, quei bianchi. Non sembrano più così forti. La ribellione kikuyu guardando quei visi emaciati, quei fisici provati dalle sofferenze.
Kenyatta incanala quel sentimento di rivalsa nel Kenya Africa Union. In un primo momento il movimento di protesta viene sottovalutato anche perché è prettamente pacifico. Poi, però, visto che i kikuyu non riesco ad ottenere nulla, gli si affianca un movimento violento, i Mau-Mau. Kenyatta li giudica male, ma li lascia fare: sono necessari perché gli Inglesi nel 1953 lo hanno incarcerato e ora bisogna arrivare ad una lotta armata. I guerriglieri Mau-Mau diventano molte decine di migliaia. Ogni affiliato deve promettere, secondo un rituale che affonda le sue radici nelle antichissime credenze tribali, di liberare la sua terra da ogni dominatore bianco e per farlo si dice disposto a sacrificare la sua vita.
Il primo attacco dei Mau-Mau è sanguinario: trentadue coloni vengono trucidati senza pietà nelle loro case. Ne seguono altri, tutti con le stesse modalità: organizzazione perfetta, terrorismo studiato a tavolino, mai nulla lasciato al caso. Si cerca un obiettivo vulnerabile, si tiene d’occhio per qualche tempo e poi si attacca. Le vittime sono sempre dei bianchi non facenti parte delle élite britanniche, ma a loro non importa, nella furia omicida non fanno caso al ceto sociale.
Il terrorismo Mau-Mau dura dieci anni. Kenyatta, in carcere, disapprova la violenza ma la comprende.
L’inglese Peter Worseley, che per primo ha tentato di capire il fenomeno Mau-Mau, scrive in Anatomy of Mau-Mau: “Il programma di questi nazionalisti non diverge dai metodi impiegati dal FLN in Algeria o da qualsiasi altro tipo di esercito di liberazione”. In realtà il loro terrorismo è molto più crudele e feroce. In più, bisogna dirlo, gli Inglesi reagiscono con la solita virulenza uccidendo i neri (per rappresaglia) senza fare distinzione di tribù.
Il più importante dei guerriglieri Mau-Mau è Dedan Kimati, detto Ciui, cioè leopardo. Non è figlio della foresta: nasce in città, a Nakanga, frequenta la scuola e va a lezione (anche lui) dai padri protestanti. E’bravissimo in inglese ed ha una vena poetica: in un concorso vince una capra per una “dolce composizione poetica”. Ha gli occhi sottili, gli zigomi quasi orientali, il naso corto, la bocca larga. Affiliato ai Mau-Mau dal primo giorno, diviene ben presto il capo indiscusso. Sarà l’ultimo dei guerriglieri ad arrendersi quando, nel 1956, i Britannici mettono fine alla lunga rivolta.
Nel 1957 si celebra il processo ai Mau-Mau, un processo dove ha accesso la stampa che celebra l’impiccagione di Kimati e dei suoi compagni, descritti come delle belve della foresta.
Nel 1961 Kenyatta viene rilasciato. Pretende che tutte le formazioni di guerriglieri lascino le armi e si preparino alla pace. Nel ’63 diviene presidente del Kenya indipendente, in pace con l’antico dominatore inglese. Il “padre della patria” kenyota ha saputo accendere la miccia del terrorismo Mau-Mau. Ufficialmente, non ne ha mai preso le distanze. Si è sempre, come detto, dichiarato contrario alle violenze da loro commesse. Ma, si capisce, il movimento dei guerriglieri Mau-Mau gli è servito per fiaccare gli Inglesi e successivamente prendere il potere, che manterrà sino al 1978. Oltre a ciò, la nazione kenyota ha trovato un leader carismatico ed indipendente, come pochi se ne trovano nella storia africana del Novecento. Si può dire quindi che Kenyatta e il movimento Mau-Mau sono stati l’uno la causa e l’altro la conseguenza. Oppure che i Mau-Mau sono stati il braccio della ribellione mentre Kenyatta la mente. In ogni caso, è una storia di libertà quella che tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli Anni Sessanta porta il Kenya da colonia schiava della Gran Bretagna a nazione indipendente.