Garibaldi
Bè, la vicenda che andiamo oggi a raccontare getta molte ombre sul presunto anti-schiavismo dei “civilissimi” leaders nordisti, primo tra tutti il presidente Abraham Lincoln, passato alla storia come uno dei paladini della lotta al razzismo.
IL CAMPO DI BATTAGLIA
L’Unione, cioè l’alleanza degli stati nordisti, possiede un migliore armamento, un numero soverchiante di uomini rispetto ai nemici, una flotta più organizzata e soprattutto un mare di quattrini. L’esercito della Confederazione può contrapporre i migliori generali (come Lee) e una organizzazione di fanteria e cavalleria decisamente perfetta: d’altra parte, soffre di una grave arretratezza negli armamenti e di un numero nettamente inferiore di soldati. In breve, il Sud è tatticamente più preparato ma peggio armato e con un minor numero di effettivi.
L’inizio della guerra è favorevole ai Sudisti. Lincoln capisce che il conflitto non sarà né breve né facile. E non ne fa mistero con nessuno, nemmeno con l’opinione pubblica. Tutti gli abitanti del prospero Nord si erano lasciati convincere che avrebbero vinto senza fatica quei bifolchi del Sud. Immaginati come chiusi nelle loro splendide ma decadenti ville in mezzo ai campi di cotone, privi di fabbriche e con armi vecchie di almeno quarant’anni, i proprietari terrieri sudisti si rivelano invece dei mastini da guerra. Attaccano dove possono combattere con pari numero di uomini, e vincono. Si ritirano senza combattere quando capiscono che la partita sarebbe persa in partenza. Conoscono le tattiche di guerriglia e ne fanno ampio uso.
Per tacitare l’opinione pubblica il Nord ha bisogno di un ottimo generale: anzi, del miglior generale in circolazione. E a metà dell’Ottocento c’era un solo uomo che potesse fregiarsi di tale titolo: Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi.
GARIBALDI
Reduce da pochi mesi dalla spedizione dei Mille, Garibaldi era in quel momento l’uomo più famoso del mondo. La sua presenza nell’esercito dell’Unione galvanizzerà le truppe e tirerà su il morale dell’opinione pubblica. A suggerire il suo nome a Lincoln è l’ambasciatore americano a Torino (capitale del Regno d’Italia), George Perkins Marsh. Quest’ultimo riferisce al presidente degli Stati Uniti che Garibaldi si è ritirato a Caprera deluso e imbronciato ma non rassegnato a rimanere inattivo. “Averlo al nostro fianco sarebbe un enorme successo perché, pur essendo un individuo solitario, in questo momento Garibaldi è in sé e per sé una delle grandi potenze del mondo”.
Lincoln scrive un appello al generale italiano sul Century Magazine, pubblicato nel luglio del 1861. In esso, il presidente chiede “all’eroe della libertà di prestare la potenza del suo nome, il suo genio e la sua spada alla causa del Nord”.
L’offerta di Lincoln fa rumore negli States. Garibaldi è popolarissimo non solo tra i migranti italiani, ma in tutta la popolazione americana. Viene definito dai circoli politici e intellettuali il “Washington italiano”. Nel 1850, quando si è rifugiato in America dopo la caduta della Repubblica Romana, il New York Daily Tribune lo accolse così: “La nave Waterloo è giunta da Liverpool questa mattina con a bordo Giuseppe Garibaldi, l’uomo di fama mondiale, l’eroe di Montevideo, il difensore di Roma. Egli verrà accolto da quanti lo conoscono come si conviene al suo carattere cavalleresco ed ai servigi da lui resi alla causa della libertà”.
Gli verrà riservata un’accoglienza da capo di stato, ma il generale, paralizzato dai reumatismi (tanto da “essere sbarcato di peso come un barile a Staten Island”, come lui stesso dirà nelle sue Memorie), rifiuterà con garbo ogni cerimonia preferendo l’ospitalità dell’amico Meucci.
L’appello di Lincoln, tuttavia, non riceve la stessa accoglienza trionfale. Per molti aristocratici (e anche borghesi) yankee, la richiesta di aiuto ad uno straniero è addirittura un’umiliazione. Poco male: le trattative vanno avanti comunque.
Dopo la pubblicazione dell’appello, si muove il console degli States ad Anversa, Quiggle, che scrive all’Eroe dei due mondi: “Generale Garibaldi, i giornali riferiscono che Lei è sul punto di recarsi negli Stati Uniti per unirsi all’esercito nordista. Se ciò è vero, il nome di Lafayette non sorpasserà il Suo. Vi sono migliaia di italiani e di ungheresi pronti ad accorrere nelle sue fila e decine di migliaia di americani che si glorieranno di essere sotto il comando del “Washington d’Italia”. Le sarei grato se volesse farmi sapere se tale è la sua intenzione. In questo caso io rinunzierei alla mia carica di console e mi unirei a Lei per sostenere un governo creato da uomini simili a Washington, Franklyn, Jefferson e altri patrioti dei quali non è necessario che faccia i nomi. Con l’assicurazione del mio profondo riguardo, J. W. Quiggle”.
L’epistola, invero molto pomposa, cita addirittura i nomi dei tre fondatori degli Stati Uniti. Quindi, Garibaldi viene paragonato a loro. Una vera e propria investitura solenne.
Garibaldi non tarda a rispondere: “Mio caro amico. La notizia data dai giornali che io abbia già deciso di andare negli Stati Uniti non è esatta. Io ho avuto, ed ho tuttora, un grande desiderio di andarvi, ma molte cause me lo impediscono. Se, però, scrivendone al suo governo, questo ritenesse i miei servigi di qualche utilità, mi recherei in America, a meno che non fossi impegnato nella difesa della mia patria”. E poi eccoci al punto nodale. “Mi dica anche se questa agitazione riguarda o no l’emancipazione dei negri. Sarei felicissimo di esserle compagno in una guerra cui parteciperei per dovere e per simpatia. Bacio con affetto la mano della Sua Signora e saluto con gratitudine. Suo Giuseppe Garibaldi”.
Dunque, già in questa primissima lettera il generale pone la condizione fondamentale per la sua partecipazione alla guerra: l’abolizione della schiavitù. L’affrancamento degli schiavi, di tutti gli schiavi, era uno dei progetti più cari a Garibaldi. In Sud America aveva liberato sempre gli schiavi con cui si era imbattuto.
L’America, però, e lui lo sapeva benissimo, si fondava sullo schiavismo. La battaglia ideologica di Lincoln era solo di facciata, una contrapposizione più che altro politica. Vero che nel Nord gli schiavi erano un numero assai inferiore rispetto al Sud, e che la loro condizione era enormemente migliore. Ma certamente gli aristocratici e gli alto borghesi nordisti non desideravano l’abolizione della schiavitù.
Abramo Lincoln
L’INCONTRO
Le due parti, si capisce, sono molto distanti dall’incontrarsi. La volontà americana di accaparrarsi e fregiarsi del nome di Giuseppe Garibaldi è molto forte, ma altrettanto lo è la repulsione verso l’anti-schiavismo.
L’incarico di trattare le condizioni direttamente con il generale italiano viene dato all’ambasciatore americano Sanford, il quale si imbarca a Genova l’8 settembre del 1861, destinazione Caprera.
Garibaldi, ancora infermo per un attacco di artrite, lo accoglie amichevolmente. Confessa che è suo desiderio che l’America accresca la sua potenza, in modo da agire come contrappeso alle potenze aristocratiche e tiranniche dell’Europa. Ma pone due condizioni. Primo: che gli venga affidato il comando supremo dell’esercito. Secondo: l’emancipazione di tutti gli schiavi.
Quando Sanford riferisce le condizioni di Garibaldi, il governo americano si irrigidisce. Sono condizioni inaccettabili. Prima di tutto, l’esercito lo comanda (almeno formalmente) il presidente. Secondo, l’abolizione della schiavitù non fa parte del programma attuale di Abramo Lincoln. Risultato: non se ne fa nulla. L’esercito nordista non avrà il suo generale.
LE TRATTATIVE SI RIAPRONO
Nell’estate del 1862, dopo il fallimento dell’Aspromonte, le trattative si riaprono. A prendere l’iniziativa è il console americano a Vienna, Theodore Canisius, spinto da due ragioni. Primo: Lincoln si è finalmente deciso a proclamare l’abolizione della schiavitù. Secondo: Garibaldi pare davvero decisissimo ad andarsene dall’Italia.
Canisius scrive dunque a Garibaldi: “Ora che siete nell’impossibilità di condurre a termine la vostra grande opera patriottica, forse sarete meglio disposto ad offrire il vostro braccio per la lotta che la grande Repubblica Americana sostiene per l’unità e la libertà”.
Il generale è in carcere a La Spezia, e così risponde il 14 settembre: “Signore, sono prigioniero e gravemente ferito: di conseguenza mi è impossibile disporre di me stesso. Credo però che sarò rimesso presto in libertà e, se le mie ferite si rimargineranno, sarà arrivata l’occasione in cui potrò soddisfare il mio desiderio di servire la grande Nazione Americana che oggi combatte per la libertà universale”.
Stavolta Garibaldi non pone condizioni, anche perché sa che Lincoln è deciso all’emancipazione degli schiavi. L’esercito nordista lo aspetta.
Ma ecco il colpo di scena. Canisius si intesta il successo della trattativa e dà in pasto alla stampa il testo della sua lettera spedita a Garibaldi, nella quale il console americano definisce “grande opera patriottica” la spedizione dell’Aspromonte. Ora, non vi è assolutamente malizia, ma solo ingenuità e protagonismo nell’azione di Canisius. Però l’errore è gravissimo e in poco tempo diventa un caso internazionale.
Non dimentichiamo che la spedizione dell’Aspromonte era stata un’iniziativa (ufficialmente) privata di Garibaldi, senza il benestare del Regno d’Italia. L’esercito regio dovette addirittura intervenire per fermare la marcia dei volontari garibaldini verso Roma, e proprio all’Aspromonte avvenne lo scontro a fuoco che vide coinvolto l’Eroe dei due mondi. L’obiettivo di rendere l’Urbe capitale d’Italia era certo nelle mire di Vittorio Emanuele, ma non in quel momento. Garibaldi si era invece intestato di ripetere la spedizione dei Mille, anche senza l’appoggio regio.
Ecco perché definire “grande opera patriottica” un’azione simile è una gaffe estremamente grave da parte di Canisius. Naturalmente la stampa austriaca ci ricama sopra e fa scoppiare il caso internazionale.
Canisius viene quindi sospeso e richiamato in patria. Da quel momento le trattative con Garibaldi vengono interrotte e mai più riprese. Il sogno americano di ritrovare, dopo Lafayette, un eroe straniero, viene infranto sul nascere.
Poco male: l’esercito nordista, soverchiante in numero e meglio armato, alla lunga avrà ragione della tattica e della migliore organizzazione sudista.