Filippo Buonarroti
Filippo Buonarroti

Nel 1773 entrò, come paggio, alla corte del granduca di Toscana Pietro Leopoldo, il deposta illuminato che abolì la pena capitale e la tortura. Entrato nella facoltà di legge di Pisa, dal 1778 ebbe come professori Cristofero Sarti, discepolo del filosofo John Locke, e Giovanni Lampredi, docente di pensiero politico francese, che l’avvicinò alle credenze di Jean-Jacques Rousseau.
Fu proprio dal Lampredi (com’ebbe a dire egli stesso in seguito) che gli derivò la convinzione di dover rovesciare l’ancien regime. Tuttavia, non ne era ancora troppo convinto visto che nel 1782 si unì in matrimonio con una nobile, Elisabetta dei Conti.
Piccolo di statura, dai tratti aristocratici e con una chioma leonina che sarebbe piaciuta all’antenato Michelangelo, Buonarroti cominciò a cospirare molto presto. Si affiliò alla loggia massonica degli Illuminati, anticlericali e egualitarismi, cominciando la sua ricerca della distruzione della casta nobiliare di cui egli stesso faceva parte. La polizia toscana, però, lo beccò quasi subito. Quando gli perquisì la casa vi trovò scaffali di letteratura sovversiva, che poi era formata dai filosofi francesi illuministi e dagli inglesi come Locke. La famiglia lo salvò dalla prigione, ma ormai lui era instradato verso la sua personale rivoluzione.

LA RIVOLUZIONE

Il Buonarroti vero comincia nel 1789, il 14 luglio. La Bastiglia cade e i Francesi si ribellano ad un regime che scricchiola già da trent’anni. Lui partì per la Corsica con la benedizione della sua massoneria collegata ai rivoltosi parigini, che lo incarica di sbrigare gli affari ecclesiastici (in pratica, requisire terre al clero). Sull’isola fa poca fortuna. I contadini corsi proteggevano i preti fedeli e alla corona francese, mentre lui li voleva morti. Durante un’insurrezione popolare lo presero e lo misero su una nave diretta a Livorno, dove venne arrestato dalla polizia del Granducato. Rilasciato dopo le insistenze dell’ambasciata transalpina, capì quanto le campagne fossero ancora legate al regime conservatore. Di qui, probabilmente, la convinzione che la rivoluzione doveva partire dal proletariato urbano e non dai contadini.

Buonarroti, dopo il fallimento corso, si diede a cercare di tessere una tela tra le varie massonerie del nord Italia creando circoli e comitati d’insurrezione sul modello dei club parigini. Si faceva chiamare Avraham Levi Salomon e cospirava con più furbizia.
Nel gennaio 1793 i Francesi gli ordinarono di aggregarsi alla spedizione che doveva condurre alla conquista dell’isola di San Pietro, sulla costa settentrionale della Sardegna. Era solo uno scoglio, ma venne ribattezzato “l’isola dell’Eguaglianza”. Buonarroti ne divenne il reggente e nello stesso anno si recò a Parigi per reclamare l’unione del suo piccolo regno con la Francia.
Il 1793 è anche l’anno degli incontri. Prima con Napoleone, anch’egli corso. Poi con Robespierre, l’incorruttibile, il suo eroe, la sua guida, la personificazione di Rousseau.
Nominato commissario per i territori occupati dagli eserciti rivoluzionari a est di Mentone, Buonarroti si dimostrava sempre più zelante amministratore. Stava facendo carriera. Tuttavia dovette affrontare ancora i problemi trovati in Corsica. In particolare ad Oneglia, dov’era un governatore con pieni poteri, si fece odiare. Proibì le esportazioni con il resto d’Italia, decretò l’obbligo di conversione degli assegni di carta francese in moneta sonante e, soprattutto, impose l’insegnamento della scuola primaria e secondaria. Quest’ultima idea gli valse la definitiva avversione del clero, che voleva la gente ignorante.

Nonostante i molti problemi, Buonarroti tenne duro sino al 1794, anno in cui Robespierre venne ghigliottinato a Parigi. Per il clero di Oneglia era il momento giusto: denunciò l’operato del luogotenente Filippo Buonarroti, convinto robesperriano e accanito anticlericale. Parigi lo richiamò e lui obbedì, ancora una volta sconfitto.
Stavolta, però, gli andò peggio. Venne schiaffato in prigione. Non fu un male. In carcere conobbe Babeuf, che si faceva chiamare Gracchus in riferimento ai fratelli Gracchi, i tribuni della plebe romana difensori dell’eguaglianza sociale. Aveva incontrato un nuovo idolo.
Rilasciato poco tempo dopo, Buonarroti si reinventò insegnate privato di musica e di italiano. Ma non aveva perso la verve cospiratrice. Anzi, con Babeuf tentò di destituire il Direttorio tramite la “Congiura degli Eguali”, che però fu un fallimento. La pena per reati del genere era, solitamente, la ghigliottina. A Buonarroti andò bene (come sempre): fu deportato nel carcere di massima sicurezza di Cherbourg, in Normandia. Dovette solo subire l’umiliazione di essere trasportato in una gabbia di ferro.

UNA VITA PER LA COSPIRAZIONE

La prigionia gli fu lieve. La moglie Teresa poteva tenergli compagnia, le condizioni erano ottime e poteva ancora intrattenere i rapporti con i giacobini parigini. La “vacanza” finì nel 1800, quando le autorità francesi lo trasferirono sull’isola di Oleron, sulla costa atlantica. Anche qui il trattamento fu di favore: riceveva tre franchi al giorno dal governo perché in Francia, in quel momento, c’era l’Imperatore. Napoleone Bonaparte aveva sempre avuto gran simpatia per quell’italiano che si era schierato contro Pasquale Paoli. In più, ambedue avevano ammirato Robespierre, anche se in modo diverso. Buonarroti lo ammirò sinceramente, Napoleone perché così andava di moda.
Trasferito una terza volta nel carcere di Sospello, sulle Alpi Marittime francesi, nel 1806 riacquistò la libertà definitiva. Napoleone aveva appoggiato la sua liberazione sperando che Filippo avesse finito con le cospirazioni. E invece no.

A Ginevra, dove lo troviamo nel 1809, trovò terreno fertilissimo. Negli ultimi vent’anni la città era stata meta di congiuranti, rivoluzionari, rivoltosi di ogni genere. In quell’humus, Buonarroti ci stava benissimo. Fondò la Società dei Sublimi Maestri, una sorta di massoneria in piccolo mischiata con la Carboneria, i cui scopi andavano dalla repubblicanizzazione dell’Europa sino all’abrogazione della proprietà privata. Una sorta ci comunismo ante litteram.
La struttura delle società era estremamente elitaria. Ai ranghi inferiori operavano i membri “normali”, i quali non sapevano quasi nulla del vertice della piramide: lo scopo era quello di proteggere proprio questo vertice da eventuali “soffiate” dei discepoli che venivano beccati dalla polizia e che quindi venivano indotti a confessare. Al vertice però c’era solo lui, Filippo Buonarroti.
La Società dei Sublimi Maestri fu il suo capolavoro. Per anni, fino al 1824, riuscirà a rimanere sempre invisibile ed a cospirare per cercare di realizzare il suo utopico progetto. Mantenne contatti con i carbonari di Londra, trovò finanziamenti per i ribelli greci contro l’Impero Ottomano, ordì numerose congiure anti-napoleoniche. Ecco, Napoleone. Da alleato di Buonarroti era diventato il nemico giurato. Sì, perché da sovrano illuminato era diventato un despota. Sic transit gloria mundi.

La distruzione dell’impero napoleonico, però, fu anche la tomba del piccolo impero di Buonarroti. Nel 1824 i Borboni riconquistarono il potere grazie alle potenze europee che, unite, avevano sconfitto il grande generale corso. L’Europa era governata da una sorta di santa alleanza nella quale l’Austria faceva la parte del leone e l’Inghilterra la parte di mediatrice. In quell’anno Filippo venne espluso dal cantone svizzero del Vaud nel quale si nascondeva dopo essere stato cacciato da Ginevra. Arrivò in Belgio con una nuova amante, la svizzera Sarah Disbains. Teresa Poggi, la moglie tradita, la chiamava “il serpente svizzero”.
Buonarroti si stabilì a Bruxelles, tappa forzata per i rivoluzionari in fuga dalla repressione borbonica e asburgica. Ci rimase sei anni. La sua vita cominciò a gravitare intorno al Café des Milles Colonnes, in piazza della Monnaie. Ai tavolini di questo locale si radunavano i cospiratori di professione: il suo ambiente ideale. Pur essendo ormai arrivato ad una certa età, la sua loquela faceva ancora presa sul pubblico. Continuava ad esaltare Robespierre e la rivoluzione tradita. Con le parole giuste (le sapeva trovare sempre) riportò in auge la vecchia concezione egalitaria che era alla base dell’utopia rivoluzionaria. Dopo la sbornia imperiale, ora la Francia e l’Europa intera dovevano sottostare ad un ritorno dell’assolutismo del tutto anacronistico. I tempi erano cambiati e c’era voglia di più libertà, più giustizia sociale. Buonarroti, quindi, ebbe la strada spianata nel convincere dei suoi progetti anche quei cospiratori.
Bertrand de Barère, ex rivoluzionario anch’egli in esilio, ce lo descrive così: “Lo vedevo molto spesso. Era tutt’altro che un uomo fortunato, ma sopportava la sua posizione, prossima all’indigenza, con una rara forza di carattere. Si decise a dare lezioni di musica e di letteratura italiana: così visse del suo lavoro quotidiano, impiegando tutti i momenti di riposo per scrivere la storia imparziale dei principi e dei progetti di Babeuf e della sua società democratica. La sua dedizione alla causa dei proletari aveva qualcosa delle dedizioni dell’antichità”.

Nel 1828 Buonarroti pubblicò la Congiura per l’eguaglianza o di Babeuf, che ben presto divenne una vera e propria bibbia di un’intera generazione di rivoluzionari. Nel 1836 era già comparsa una traduzione in inglese. Nel 1844 Karl Marx la lesse, ne rimase colpito e cercò di tradurla (senza riuscirvi) in tedesco. Forse ne intravvedeva l’ombra della sua dottrina comunista. Ma in realtà tra i due c’erano un’enorme differenza. Il comunismo di Buonarroti era improntato sull’eguaglianza, mentre quello di Marx sulla lotta sociale, quindi basato sulla violenza.
Nel suo libro, considerato il suo testamento politico, Buonarroti tesse le lodi della Rivoluzione, in particolare del periodo del Terrore. Il Comitato di salute pubblica diviene il modello di legislazione saggia di tipo rousseauiano e la dittatura di Robespierre diventa il prototipo del vero governo egualitario.

Tra il 1828 ed il 1837 continuò ad occuparsi di mantenere relazioni, cospirare, informarsi. Anche Mazzini fu contagiato dal suo entusiasmo, almeno inizialmente. Tra i due però la pace doveva durare poco. Per il grande esule genovese, infatti, la dittatura rivoluzionaria/proletaria doveva servire solo in casi di estrema necessità, ed essere contingentata nel tempo. Per Buonarroti, invecem la dittatura era la vera base per l’instaurazione di un nuovo regime egualitario. Mazzini, inoltre, credeva fermamente al concetto di nazione. Buonarroti, al contrario, aborriva le nazioni e credeva in un’Europa unita sotto un unico governo: una sorta di comunismo universale.
Come si vede, tante cose di Buonarroti sono veramente iper-moderne. Quasi un secolo dopo, le dottrine comuniste riecheggeranno le sue. Forse fu davvero lui il primo “comunista”. Aveva portato le tesi di Rousseau all’esasperazione. Le aveva elaborate e adattate al contesto rivoluzionario. Però c’era in lui anche qualcosa di antico e di passato. La sua chioma leonina (che conservò sino alla morte) lo faceva somigliare a un tribuno della plebe romano che combatteva per gli umili e per i più poveri. Ammirava gli uomini forti, come Robespierre e Napoleone, ma più di tutti adorava la cospirazione in sé e per sé. Fino alla fine dei suoi giorni continuò a lavorare nell’ombra, dietro le quinte. Le luci della ribalta non lo attirarono mai. Men che meno lo lusingavano le ricchezze. Infatti rimase sempre povero in canna. Sopravviveva, come abbiamo detto, dando lezioni private.
Nel 1830 era tornato a Parigi durante le gloriose giornate di luglio che abbatterono Carlo X. Ritrovò la sua vecchia casa dalla quale mancava da trent’anni. Lì aveva passato i suoi momenti più belli.
La morte lo colse il 16 settembre del 1837. La sua bara venne scortata fino al cimitero di Montmartre da millecinquecento persone. Forse qualcuno si era accorto di lui e della sua battaglia per l’eguaglianza. “La sua bella testa”, afferma un testimone oculare, “conservava il carattere delle grandi fattezze di Michelangelo”. Sul suo sepolcro i poveri della città posero una corona di quercia dedicata a “Filippo Buonarroti, grande cittadino, amico dell’eguaglianza”.
Era la dedica più bella che gli potessero fare. Perché Buonarroti è stato davvero “cittadino e amico dell’eguaglianza”. Ma non della Francia, bensì del mondo intero.