Raffaello Sanzio
Raffaello Sanzio

Pochi conoscono il Raffaello mecenate. Sì, perché il grande artista aveva una bottega di aiutanti, artisti in erba, che egli coccolava e a cui insegnava senza paura tutti i suoi segreti. Non aveva alcun timore che gli potessero fare ombra: sperava, anzi, che ognuno di essi diventasse un grande proprio com’era lui. Questo ci dà perfettamente l’idea di quanto Raffaello Sanzio sia stato immenso.
Ogni artista, infatti, quando diventava importante e cominciava ad accumulare commesse e lavori, apriva una sua scuola, una sua bottega, dove confluivano diversi giovani attratti dalla prospettiva di lavorare con lui. Entrarvi era una sorta di punto di partenza e insieme di punto di arrivo. Spesso non si percepiva alcuna paga, si dovevano subire umiliazioni e non di rado l’artista principale, quando si accorgeva che un allievo era bravo, lo cacciava. Questo faceva, ad esempio, il grande Michelangelo Buonarroti. Egli mandava via, con le buone o con le cattive, i suoi aiutanti più promettenti per non venir messo in luce da loro: preferiva di gran lunga dei mediocri.
Raffaello, invece, era tutto diverso. Dimostrò sempre una apertura straordinaria verso tutti coloro che si dimostravano all’altezza di seguirlo. Nella sua bottega c’erano pittori già affermati che, pur di impadronirsi della sua tecnica sopraffina, erano disposti a rinunciare alla loro autonomia e mettersi allo stesso piano dei garzoni.
E’il caso di Guillaume Macillat, raccontato dal Vasari. Mastro vetraio francese, nato nella regione della Loira, aveva dovuto lasciare il suo paese perché implicato in un omicidio. Riparato a Roma prese i voti e venne protetto dal papa Giulio II. Sotto il suo pontificato eseguì quelle vetrate di Santa Maria del Popolo che si possono ammirare tuttora, anche se mal ristrutturate. Quando, dopo qualche anno, decise di imparare la tecnica dell’affresco, non esitò a chiedere asilo nella bottega di Raffaello, il quale accettò di buon grado.
Altro caso emblematico è quello di Giovanni da Udine, un artista sconosciuto sino a quando non entrò nello studio raffaelita. Da quel momento divenne una vera e propria star: padroneggiava benissimo la tecnica di pittura dei festoni e delle grottesche (particolari tipi di decorazioni a parete), tanto da farne dei capolavori assoluti che anticiparono la natura morta e la scena di genere. In più inventò lo stucco bianco, di una grazia e di una leggerezza clamorose. Finchè il maestro fu in vita, Giovanni dipinse dei capolavori assoluti; poi, alla sua morte, si perse per strada sopravvivendo come modesto decoratore.
Il principale aiutante di Raffaello era Gianfrancesco Penni, il decano della bottega, che aveva seguito il maestro da Firenze a Roma. Non era un grande artista, ma si rese utile diventando suo segretario tuttofare, tanto da esser soprannominato il Fattore.
Poi c’erano le personalità forti come Giulio Romano, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, che meriterebbero ognuno un capitolo a parte (sul primo lo troverete proprio qui).

La bottega raffaelita contava anche su molti “stranieri”. Questo particolare venne volutamente tralasciato dal Vasari, che non nominò mai questi artisti venuti dall’estero, soprattutto per via del suo irrimediabile campanilismo. Egli, infatti, aveva sempre prestato quasi nulla attenzione verso i meridionali, figuriamoci verso gli stranieri. Eppure c’erano, e anche grandi.
Ci volle la lungimiranza di Roberto Longhi per ritrovare le tracce di due maestri assoluti dell’epoca: Alonso Berreguete e Pedro Machuca. I due, nel secondo decennio del Cinquecento, compivano un tour in Italia per studiare i grandi maestri. Tornati in patria, con la speranza di farsi assumere da Carlo V, sarebbero diventati rispettivamente il maggior scultore castigliano e l’architetto dell’imperatore a Granada.
Quando giunse a Roma nel 1508, Berreguete si recò prima da Michelangelo per chiedergli se poteva vedere il cartone della Battaglia di Cascina, tenuto gelosamente sotto chiave in una teca. Vincendo la solita ritrosia del Buonarroti, Berreguete si inserì nell’ambiente fiorentino e poi raggiunse Raffaello a Roma. Sue sono le decorazioni della Stanza di Eliodoro, del 1514, che furono per molti anni oggetto di discussioni sulla effettiva paternità. Alla fine si dovette ammettere che erano sue. Per entrare nella bottega Berreguete accettò di buon grado di mescolarsi con i giovani: e i risultati della sua carriera gli diedero ragione.
Insieme a lui, Pedro Machuca, artista dotato di una tecnica sopraffina che meriterebbe un altro trattamento, molto più onorevole, anche in patria. Si tratta di uno dei pennelli migliori della storia dell’arte spagnola: si può dire che la sua tecnica nacque proprio grazie a Raffaello.
Suoi capolavori sono le decorazioni da lui eseguite nella Stufetta, nella Loggetta e nella Fucina di Vulcano. Da queste sue opere si nota perfettamente che aveva preso quasi tutto dall’arte raffaelita: il suo tocco si vede nella violenza del tratto e nella “grinta” delle trasposizioni, che poi conserverà per tutta la vita. Un mix di grazia raffaellesca e ardore spagnola, dunque.
Machuca andò poi a Firenze, dove copiò perfettamente la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Inoltre conobbe Rosso Fiorentino, attingendo direttamente anche da lui, artista manierista ante litteram.
Sempre riferendosi a idee raffaelite, Machuca dipinse altre tavole, tra cui quella importantissima della Madonna col Bambino della Galleria Borghese. I suoi colori, molto accesi, costituiscono il suo tocco d’artista, così come le espressioni dei visi. Qualche anno dopo lo spagnolo tornò a Roma per un altro periodo di apprendistato sotto Raffaello.
Quando poi tornò in Spagna, intorno al 1519, in Andalusia per la precisione, la sua tecnica era giunta a maturazione. Nei pannelli della Capilla Real di Granada e nella Madonna col Bambino della cattedrale di Jaèn si vede il suo tratto definitivo. I colori, innanzitutto. Accesissimi, quasi violenti, perfettamente in linea con il nuovo stile manierista che imperversa in tutt’Europa. Però il clima passionale, febbrile, “cattivo”, anticipa addirittura il Goya in termini di intensità. La grazia raffaelita comunque pervade il tutto come un mantello di eleganza innata.
Il capolavoro spagnolo di Machuca arrivò nel 1526, cioè il palazzo di Carlo V a Granada, proprio nel bel mezzo dell’Alhambra araba: il monumento più italiano di tutta la Spagna, intriso di una grazia e di una classicità tipicamente rinascimentali. Anzi, tipicamente raffaelite.