Un'immagine del terremoto di San Francisco
Così il sergente della polizia di San Francisco, Jesse Cook, riportava alla mente il tragico terremoto del 18 aprile 1906, il giorno in cui sembrò che in quella parte di America si stesse per scatenare l’Armageddon. Era di servizio al porto, vicino alla stazione dei traghetti diretti ad Oakland. Sentì arrivare un brontolio sordo e sempre più vicino, simile ad un verso gutturale di un animale feroce. A due o tre isolati di distanza il capocronista dell’Examiner, John Barrett, avvertì il medesimo rumore, che descrisse come un gemito cavernoso: affacciatosi dalle finestre della sua redazione, vide i palazzi ballare impazziti. “Era come se la terra ci stesse sfuggendo da sotto ai piedi. I binari del tram si contorcevano come serpenti, dai cavi spezzati partivano scintille azzurrastre. Profondo crepe avevano inciso la strada. Da alcune di esse sgorgavano getti d’acqua, da altre sibilava sinistramente il gas”. Sul terrazzo di una casa il pittore Bailey Millard lavorava ai suoi quadri quando vide che gli edifici sotto di lui si muovevano come pini scossi dal vento.
Quella devastazione non era opera divina, come alcuni ebbero a pensare ed affermare, bensì la violentissima forza della natura. Il terremoto più terribile della storia moderna americana stava sconquassando la metropoli.
Tredici anni prima il geologo Andrew Lawson aveva notato che le valli di Santa Clara, di San Benito e della Baia di San Francisco formavano una linea retta lungo la quale avvenivano molto spesso dei sommovimenti tellurici. Gli diede il nome di faglia di San Andreas e mise in guardia i suoi concittadini nel costruirci troppi palazzi sopra. Loro, naturalmente, non gli avevano dato retta ed avevano edificato a più non posso.
Eppure prima dell’”uccello del malaugurio” Lawson c’erano stati due avvertimenti. Nel 1857 lungo la linea della faglia si era prodotta una incisione larga sei metri e lunga una settantina di chilometri. Otto anni dopo una scossa di terremoto aveva fatto dimenticare per qualche momento ai cercatori d’oro il motivo per cui erano accorsi in quell’estremo angolo di America affacciato sul Pacifico.
Altre due scosse, stavolta più forti, avevano fatto danni nel 1868 e nel 1890, causando anche cinque morti.
Ma la città continuò comunque ad espandersi e le nuove case, sempre più fragili, sempre più popolari, continuarono a nascere come funghi sugli instabili terreni di riporto contesi alle acque della baia.
Quel giorno di aprile, un mercoledì, il terremoto cominciò il suo transito a nord di San Francisco, a trecento chilometri dalla metropoli. Con una energia superiore a “tutti gli esplosivi usati nella Seconda Guerra Mondiale” (parole di Thomas e Morgan Witts, che documentarono la catastrofe), il mostro si abbatté sulla contea di Humboldt svellendo le foreste di sequoie e sbriciolando le scogliere delle coste. Il terremoto proseguì la sua corsa sprofondando nell’oceano distruggendo la cittadina costiera di Fort Bragg, poi riemerse davanti a Punta Arena.
Qui trovò sulla sua strada il faro che per trentasei anni aveva resistito indenne alle tempeste e agli uragani sbriciolandolo come un gessetto. Poi l’onda sismica corse lungo il tratto di costa alla velocità di tre chilometri al secondo demolendo una chiesa di Fort Ross, sradicando gli alberi della Catena Costiera, arando spiagge, provocando frane e facendo crollare delle montagne.
A Bolinas, un piccolo villaggio di pescatori, il molo si inabissò insieme a tutte le sue barche. A Palo Alto distrusse il campus della Stanford University facendo miracolosamente solo due vittime perché la maggior parte degli studenti era in vacanza. Il sisma arrivò quindi al manicomio statale di Agnews, un tetro agglomerato di celle imbottite e inferriate che sorgeva nella periferia di San Jose: morirono 86 pazienti, 11 infermiere, il direttore e sua moglie.
Alle 5,13 del mattino eccolo arrivare alle porte della metropoli di San Francisco. Nei primi diciassette minuti ci furono due violentissime scosse che rasero al suono centinaia di palazzi e case. Subito cominciarono a scoppiare gli incendi perché moltissime abitazioni erano in legno. I pompieri intervennero prontamente ma il sistema dell’acquedotto era stato anch’esso danneggiato: frustrati dalla mancanza di acqua, gli equipaggi delle autopompe non poterono far altro che assistere alla propagazione di altri incendi.
Come in tutte le catastrofi, ci furono anche gli sciacalli e i saccheggiatori che approfittando del marasma e della distruzione penetrarono nelle poche case rimaste in piedi per rubare e depredare. Proprio per questo motivo la polizia di San Francisco mise in atto una vera e propria legge marziale, che successivamente verrà criticata, ma che in quel momento era l’unica soluzione praticabile. Dappertutto, infatti, gli incendi continuavano a divampare e ci voleva una mano forte per ordinare velocemente le evacuazioni e cercare di salvare il salvabile.
Un'altra immagine terribile del sisma
Due storie personali, finite bene, illustrano alla perfezione la paura di quegli attimi interminabili.
Enrico Caruso, un cantante famosissimo in quegli anni, allora trentaquattrenne, alloggiava al Palace Hotel, un elegantissimo albergo del centro dov’era tornato due ore prima, alle tre del mattino, dopo aver interpretato il personaggio del Don José nella Carmen di Bizet e dopo aver festeggiato il successo con una bella spaghettata allo Zinkand Restaurant. Il suo direttore d’orchestra, Alfred Hertz, della Metropolitan Opera di New York, lo trovò seduto sul letto che piangeva come un bambino. Quando lo avvicinò Hertz gli chiese come stava e il povero cantante gli rispose: “Lo choc mi ha rovinato le corde vocali”.
In un altro hotel del centro città l’attore di teatro John Barrymore aveva passato la notte in dolce compagnia di una bella ragazza conosciuta la sera prima nella casa di un milionario dove si era esibito. I due avevano bevuto parecchio champagne quando furono sorpresi dal furore del terremoto. Impaurito, Barrymore si gettò su tutto l’alcool che aveva, scolandosi bottiglie varie per quaranta ore consecutive, da mercoledì mattina a giovedì notte. Solo allora iniziò a smaltire la sbornia più lunga della sua vita. Negli anni che seguirono, di fronte all’America, si spacciò come testimone oculare del cataclisma, mentre invece aveva passato tutto quel tempo ubriaco fradicio in una comoda stanza di albergo.
Il bilancio finale delle vittime ammontò a circa tremilacinquecento morti, anche se inizialmente si contarono 400 o 500 morti: solo nei mesi successivi le autorità rifecero i calcoli e videro che in realtà il numero era molto maggiore. Gli Americani non dimenticarono tanto presto il terremoto, tant’è che gli edifici sorti successivamente furono costruiti in modo estremamente oculato. Forse, quella volta, avevano imparato la lezione.
Ancora oggi, però, la faglia di San Andreas si fa sentire, bussa alle porte della città. Gli esperti sono concordi nell’affermare che la geologia della zona non lascia alcun dubbio: un terremoto avverrà di nuovo, è solo questione di tempo. Speriamo che San Francisco si faccia davvero trovare preparata.