Il "Vento Divino"
Sapevano già che la loro morte sarebbe stata inutile: la guerra era persa, lo capiva anche un bambino. Eppure, nella sua storia millenaria, il Sol Levante non aveva mai perso un conflitto. L’onta era troppo grande da sopportare: anche se la razionalità respingeva l’idea, il cuore comandava quei fanatici fedelissimi dell’imperatore verso l’estremo gesto.
Ma quando e come nacque la parola Kamikaze?
Nell’estate del 1274 Marco Polo, appena ventenne, giungeva insieme al padre ed allo zio alla corte di Kublai Khan, il condottiero mongolo succeduto a Gengis Khan e fondatore del primo impero cinese.
L’orda mongola stava terrorizzando l’Occidente dopo aver conquistato quasi tutto l’Oriente creando un regno immenso, molto più grande di quello romano e di quello macedone di Alessandro Magno. Era formata dai discendenti di quegli Unni guidati da Attila che avevano prima fatto tremare la Cina, che si era difesa erigendo la Muraglia, e poi l’Impero Romano d’Occidente. In realtà, più che di un popolo si dovrebbe parlare di un insieme di tribù nomadi, provenienti dal bacino del Gobi, che solo la leadership di Gengis Khan aveva riunito sotto un’unica bandiera. Alla sua morte, avvenuta nel 1227, il dominio mongolo si estendeva dalla Crimea alla penisola coreana, dal Pakistan fino al 60°parallelo nord. Il grande condottiero lasciò ai suoi discendenti il compito di conquistare il mondo: cosa, all’epoca, possibile per quei formidabili guerrieri.
Un’orda di Mongoli attaccò il bersaglio grosso, cioè l’Europa, nella primavera del 1241, sbaragliando un esercito formato da Polacchi, Germanici, Cavalieri Teutonici e Svedesi. Due settimane dopo la stessa sorte toccò a una confederazione di Magiari, Croati e Templari: contro di loro vennero impiegate le “armi segrete” asiatiche, cioè delle bombe primordiali composte da nafta e polvere nera.
Un “tuman”, cioè una divisione di diecimila cavalieri mongoli, poteva coprire la distanza di 300 chilometri al giorno: una enormità. In un mese, in quel 1241, fecero terra bruciata dal Danubio al Baltico, devastando Cattaro e Spalato, puntando dritto su Vienna e su Cividale del Friuli. Quei guerrieri venivano chiamati dagli Europei con un nome che dice tutto: Tartari, cioè figli del Tartaro, l’inferno dei pagani.
Per fortuna dei nascenti stati europei, la morte colse all’improvviso il khan Ogodei, così tutti i principi delle varie tribù dovettero far marcia indietro e tornare al più presto nella capitale, Karakorum, per eleggere il nuovo capo. Forse, se Ogodei non avesse salutato il mondo in quel momento, la storia sarebbe cambiata radicalmente.
Esaurita la spinta iniziale, i capi delle tribù accantonarono l’idea di spingersi nel cuore dell’Europa, puntando invece sul Giappone, una preda molto più vicina. Il nuovo khan, Kublai, era signore di un territorio che comprendeva la Manciuria, la Mongolia, la Corea, il Tibet, tutta la taiga siberiana e quasi l’intera Cina. Naturale, quindi, che volesse allargare i propri possedimenti alle isole nipponiche.
Nel 1260 si era anche autoproclamato imperatore cinese e capostipite della dinastia Yuan, la prima che andava a regnare sul Celeste Impero. Portò la capitale a Pechino, ricostruita totalmente dopo che cinquant’anni prima Gengis Khan l’aveva rasa al suolo, e poteva controllare i commerci con l’Indonesia, l’India, l’Arabia, l’Africa e la Via della Seta. Dalla cultura cinese, molto più avanzata di quella mongola, prese la religione confuciana, che aveva un concetto interessante: la monarchia universale, l’idea di nonno Gengis. Kublai sentiva che la sua orda non era più affamata come nei primi anni di saccheggi, quindi doveva tenerla in allenamento. Puntare sul Giappone fu un’idea azzeccata, almeno in teoria.
I Nipponici non avevano, all’epoca, alcun alleato. L’esercito poteva sì e no essere un decimo di quello effettivo dei Mongoli. Il problema per i soldati del khan era uno solo: attaccare via mare e non via terra.
Nel 1268 Kublai inviò un’ambasceria nella quale si chiedeva la sottomissione volontaria, all’imperatore giapponese, il quale rifiutò sdegnosamente. Altri due tentativi in tal senso andarono nella stessa maniera. Quindi il khan iniziò i preparativi per l’invasione.
Per sottomettere l’arcipelago sarebbe bastato un contingente modesto, almeno ciò era quello che riteneva. Venne quindi disboscata un’intera area coreana per costruire una flotta di 900 navi, che ci vengono anche descritte da Marco Polo. Erano delle giunche dotate di due o quattro alberi con un equipaggio massimo di 300 uomini e tutte possedevano, a bordo, la bussola. Per arrivare a impensierire i Giapponesi, però, ci voleva gente esperta di mare (anzi, di oceano): cosa che non erano i guerrieri mongoli. Così vennero arruolati 8.000 marinai coreani pratici delle rotte e delle zone di ancoraggio, che si andarono ad aggiungere ai 20.000 Mongoli e 15.000 Cinesi. Capo della spedizione: Kinto. Vicecomandante: Kocakyu Gofukute.
I Mongoli avevano la loro forza nella cavalleria, che poteva scatenarsi su grandi spazi aggirando i nemici. Quando si imbattevano in un avversario più numeroso fingevano la ritirata e poi contrattaccavano mentre i nemici erano lanciati all’inseguimento, cioé quando avevano spezzato la formazione iniziale. Altra peculiarità, portatisi dietro dai loro discendenti unni, era che i cavalieri erano armati anche di frecce, e le sapevano utilizzare in modo divino. Gli archi che usavano scagliavano dardi sino a 200 metri. Spesso venivano impiegate anche le balestre, che arrivavano a 400 metri di distanza. Inoltre, come già accennato, avevano a disposizione quelle bombe incendiarie di polvere nera.
L’esercito partì dalla baia di Aino-urà il 3 ottobre del 1274 puntando dritti sul primo obiettivo: l’isola di Tsushima, governata da un samurai di nobile e antica stirpe, So Sukekuni. Il contingente giapponese che presidiava il “Castello della Risaia d’Oro” era formato da 80 uomini. Quando quel samurai seppe dello sbarco dei Mongoli in una rada della sua isola, si gettò con i pochi uomini che aveva a disposizione contro gli invasori. Naturalmente morirono tutti e vennero gettati nelle fosse comuni dopo essere stati fatti molto certosinamente a pezzetti. Però quello dava già l’idea di cosa erano disposti a fare quei samurai.
Dopo aver messo a ferro e fuoco Tsushima, i Mongoli passarono all’isola di Iki, la porta per il Giappone. Stessa sorte toccò ai pochi difensori, cento cavalieri agli ordini del samurai Tairano-Kagetaka. La popolazione civile venne massacrata, le donne trascinate a bordo delle navi, stuprate, legate alle murate e trafitte con coltelli in tutto il corpo. Non contenti, i guerrieri mongoli passarono delle corde nelle ferite quando esse erano ancora vive e semicoscienti.
Le notizie degli sbarchi mongoli arrivarono in Giappone dopo pochi giorni. I Mongoli venivano chiamati, nel Sol Levante, “Gen”, un altro modo per dire “Yuan”, cioè delle monete di basso valore. Praticamente, l’equivalente del nostro “barbari”. Tra il 16 e il 18 ottobre la flotta mongola pattugliò le coste di Kiushu e Kashima, ma essendo lunghe e strette oltre che piene di rocce evitò di sbarcare. Preferì quindi dirigersi verso la baia di Hakata, molto più spaziosa e riparata dalle spiagge disseminate di pini. Notare che quella zona era molto conosciuta dai marinai coreani, visto che fungeva da territorio di interscambio commerciale.
Le forze giapponesi sommavano a 11.000 tra fanti e cavalieri, egualmente divisi, agli ordini del governatore Shoni Kagesuke, facente parte di un ramo cadetto della famiglia Fuiwara, discendente dagli dèi come la famiglia imperiale. Il valore di quei difensori era a tutta prova, ma seguivano un canone di combattimento cavalleresco del tutto ignoto ai Mongoli. Nelle faide tra clan di samurai i capi combattevano tra di loro in singolar tenzone prima di far scontrare gli eserciti. Era un’usanza che veniva rispettata sempre, almeno in Giappone.
Così quando un cavaliere samurai vide davanti a sé le schiere di soldati mongoli, avanzò da solo vantando a gran voce le proprie vittorie e la propria stirpe. Prima i Mongoli sgranarono gli occhi, poi si misero a ridere e infine una decina di loro si gettò sul povero cavaliere facendolo molto dignitosamente a pezzi.
Per fortuna dei Giapponesi, i Mongoli avevano potuto trasportare solo una minima parte di cavalleria, che come abbiamo detto era la forza dell’esercito di Kublai Khan. Tuttavia la fanteria era ben attrezzata, con elmi a punta alta e casacche rinforzate. Le armi usate erano picche, spadoni e alabarde. L’armamentario, quindi, era molto vario.
Il 20 ottobre si ebbe il primo assaggio nella baia di Hakata. Lo scontro s’accese in tre battaglie diverse, e tutte andarono a favore dei Mongoli. I samurai si batterono fino alla morte e non avevano paura della potenza di quegli invasori, il cui alone di imbattibilità li circondava da sempre. Però gli altri soldati erano letteralmente terrorizzati da quei demoni.
Il lato positivo (per i Giapponesi, naturalmente) della presa delle due isole, Ike e Tsushima, fu che il grosso dell’esercito nipponico ebbe il tempo di organizzarsi bene. Questo, i Mongoli lo sapevano benissimo. Sapevano di essersi scontrati con i primi reparti di difesa costiera: cioè, reparti ben organizzati ma poco nutriti. Così, nel timore di essere assaliti durante la notte dalle forze fresche giapponesi, gli ufficiali mongoli portarono le truppe a dormire sulle navi insieme al bottino e ai trofei di guerra.
Proprio quella mossa si rivelò decisiva. Durante la notte, infatti, si levò un vento fortissimo, che aumentava sempre più di intensità, urlando come un esercito di lupo nella tempesta. Gli ufficiali tranquillizzarono i soldati dicendo che la rada era protetta. Solo che il pericolo, in quel caso, non veniva dal mare, ma dalla terra. Il Pacifico, come è noto, è sempre battuto dai tifoni, gigantesche masse d’aria che si precipitano verso il basso spazzando tutto ciò che trovano sulla loro strada.
Quelle giunche si trovavano proprio nell’occhio del ciclone, per di più in una baia disseminata di scogli e bassi fondali: fu la loro fine e la fine di coloro che stavano dentro. Non sappiamo precisamente quante furono le vittime. Sappiamo solo che quel tifone venne chiamato Kamikaze, ossia “Vento Divino”, perché gli dèi giapponesi l’avevano mandato a distruggere l’esercito invasore.
Il pericolo, tuttavia, non era scampato. Il primo ministro giapponese, il giovane (23 anni) Hojo Tokimune, fece accantonare grandissime provviste di riso per le truppe, ordinò il censimento di tutti gli uomini atti alle armi e fece addestrare i samurai alle tecniche di combattimento dei Mongoli. Inoltre fece erigere una specie di muraglia intorno alla baia di Hakata al fine di inchiodare sulla battigia i nemici. Venne così costruito uno terrapieno largo due metri e mezzo, alto tre metri e rivestito di pietra. Inoltre la flotta venne potenziata e aumentata di numero, in modo da mandare alcune navi sulla costa coreana per contrattaccare: queste imbarcazioni vennero affidate ai “wako”, temibili pirati nipponici che da secoli vivevano di rapina nei confronti dei Cinesi e dei Coreani. La feccia del Giappone, in poche parole: ma quello serviva.
Tokimune, che venne poi glorificato come grandissimo stratega, fece ancora di più: e questa fu la mossa decisiva. Aumentò il numero di sentinelle lungo le coste e stabilì una forte guarnigione nel porto di Tsuruga e un’altra (forte di 60.000 uomini) a Rokuhara, nei pressi di Kyoto.
Nel frattempo i generali mongoli superstiti, risospinti sul continente dal tifone, si vantavano delle vittorie ottenute senza fatica contro i Giapponesi, presentando come prova le teste spiccate dai colli dei nemici. Kublai si convinse che i Nipponici fossero verdi di paura e nel 1275 mandò una nuova ambasceria all’imperatore per proporgli una resa onorevole. Per tutta risposta Tokimune rise in faccia ai messi del khan aggiungendo che avrebbe decapitato qualsiasi mongolo avesse messo il piede sul suo territorio.
Kublai, quando venne a sapere del gran rifiuto del nemico, fece le cose in grande. Organizzò non una, ma due spedizioni. Una di 900 navi dalla Corea, al comando di Huang Ch’a-ch’iu con 15.000 Mongoli e 17.000 Coreani. L’altra di 3.500 navi dalla Cina meridionale al comando di Fan Wen-hu con un esercito di 100.000 soldati al comando di Alahan. Dunque, due spedizioni davvero notevoli per l’epoca. Anche prendendo col beneficio d’inventario questi numeri, dobbiamo ammettere che il contingente mongolo riservato alla distruzione del Giappone doveva davvero far paura.
La flotta coreana arrivò a Ike l’8 giugno e i gli ufficiali mongoli decisero subito di attaccare. Il calcolo del nemico prevedeva non più di 10.000 uomini: invece ad attenderli trovarono ben 25.000 samurai d’èlite che li massacrarono senza pietà. L’altro tentativo di sbarco avvenne poi nella baia di Hakata, ma anche qui i Giapponesi ebbero la meglio grazie alla muraglia di pietra fatta innalzare da Tokimune.
Successivamente l’esercito mongolo si sparpagliò in diversi punti dei lidi meridionali di Hakata, trovandosi però contro delle forze nemiche sempre superiori. In più, trovandosi tra il mare e la terra, non potevano far scatenare la forza imponente della loro cavalleria, così persero inutilmente uomini e armi in scontri impari. Entrarono in azione anche i pirati nipponici, che bloccavano l’arrivo dei rinforzi e pattugliavano le coste.
I Mongoli, sconfitti, si ritirarono nelle rade di Iki non sapendo il da farsi. Solo verso la fine di giugno arrivò in loro soccorso una parte delle riserve, quelle non intercettate dai pirati del Sol Levante. In più questi contingenti avevano un altro bel problema: erano comandati da ufficiali che si odiavano tra loro per differenze razziali (c’erano Mongoli, Cinesi, Coreani).
I Giapponesi sapevano benissimo sia dei problemi logistici dei nemici che dei loro dissidi interni, così attaccarono per quattro giorni e quattro notti senza dare tregua. Furono battaglie durissime, combattute sia per mare che per terra, sulle coste frastagliate di Iki: alla fine da entrambe le parti ci furono grosse perdite, ma la vittoria arrise ai Nipponici.
Kublai, che non aveva previsto quelle sconfitte, mandò un’altra flotta nelle acque dell’isola di Hirado, ordinando loro di aspettare ciò che rimaneva del primo contingente, decimato dai Giapponesi. Non sapeva che stava facendo il perfetto gioco del nemico.
In quel periodo, in quella zona, le piogge monsoniche, quando l’afa e l’umidità diventano insopportabili. Il 27 luglio, per evitare di morire asfissiati, finalmente quella flotta mosse verso l’isola di Taka, occupandola per poi sferrare l’attacco contro Hakata. Il perché quell’esercito continuava a insistere con quella tattica di prendere Hakata, non si sa. Avrebbe potuto arrivare benissimo al territorio giapponese, ma probabilmente questo non sarebbe stato facile da far capire ai soldati mongoli, ansiosi di combattere e scannare i nemici.
Solo che la stessa notte del 27 luglio i Giapponesi attaccarono a sorpresa distruggendo una buona parte delle navi. La sortita fu condotta da forze inferiori da parte dei Nipponici, che però avevano calcolato perfettamente il momento di attaccare e il momento di ritirarsi.
La flotta mongola, ancora una volta decimata, dovette rimandare la partenza verso Hakata e rimase in rada. E ancora una volta, quasi come fosse una maledizione, ecco il “Vento Divino”. Il tifone fu di lieve entità rispetto a quello precedente, ma bastò a distruggere le imbarcazioni, strette l’una contro l’altra in quella baia irta di scogli e rocce, aggrappate ad un fondale basso. Al mattino, tramandano i cronisti, il mare era così pieno di cadaveri che da quel luogo si sarebbe potuto raggiungere l’isola vicina di Taka camminandoci sopra come fosse una strada lastricata. Circa 30.000 furono i superstiti, che però vennero ingaggiati dalle forze di Shoni Kagesuke, il comandante dei samurai, che terminò il lavoro del “Vento Divino”.
I Mongoli non tentarono mai più di invadere il Giappone. Ottocento anni dopo i Giapponesi confidarono anche nel “Vento Divino”, nei loro kamikaze, per ribaltare le sorti di una guerra già persa. Solo che stavolta avevano contro il colosso americano, gli odiati Yankees.